L’economia sociale alla prova delle policy

[di Gianluca Salvatori, Giuseppe Guerini, pubblicato in «Impresa Sociale» N.1/2024]

Introduzione

A giugno conosceremo la nuova composizione del parlamento europeo. Poi seguirà la formazione della futura Commissione europea. Passaggi per nulla scontati dopo il periodo di stabilità fondata sull’alleanza tra le tre grandi famiglie politiche – popolari, socialisti e liberali – che a lungo hanno condiviso la responsabilità del governo dell’Unione europea. Lo scenario è noto: l’asse della politica europea si sta spostando sempre di più verso partiti che fanno leva su versioni nazionali di sovranismo e, per usare un eufemismo, non sono entusiasti della prospettiva di una maggiore integrazione europea. Tanto più il risultato delle elezioni premierà queste forze, tanto meno facile sarà mantenere l’attuale baricentro. Si dovrà fare i conti con gli effetti di una polarizzazione politica che seppure da tempo in atto in diversi paesi, dal momento in cui coinvolge anche Germania e Francia – architravi della costruzione europea – assume una magnitudine diversa e finisce per mettere a rischio l’intero progetto dell’Unione. Prepariamoci quindi ad un governo dell’Europa soggetto ai condizionamenti di forze che premono per un modello in cui i governi nazionali vogliono contare di più rispetto alla tecnostruttura di Bruxelles. E in cui le dinamiche intergovernative del Consiglio proveranno a sottrarre (ulteriore) spazio alle iniziative della Commissione europea. In sostanza meno Unione Europea e più negoziato tra i Governi dei 27.

Commissione, quella uscente, non certo immune da contraddizioni e incertezze, del resto inevitabili in un contesto in cui il compromesso è la regola aurea se si vuole trovare una sintesi tra i vari interessi in gioco. Ma non si può negare che nel corso del suo mandato l’attuale Commissione abbia introdotto significative discontinuità nella politica europea. Anche correggendo una consolidata impostazione pro-mercato di cui le istituzioni UE sono state ferree custodi per decenni. Il mutamento di strategia è nato in reazione alla crisi pandemica da Covid-19: se dieci anni prima, alle prese con la grande recessione innescata dalla crisi finanziaria globale, la risposta delle autorità europee aveva seguito il copione tradizionale di un approccio neoliberista, ovvero rigido controllo della spesa e misure di austerità per riportare sotto controllo i conti pubblici, la reazione alla pandemia è andata in direzione opposta, imprimendo un radicale cambiamento di prospettiva alle politiche europee. La nuova crisi è stata affrontata con misure inedite, finanziate a debito, che hanno reso disponibili risorse comunitarie non solo per affrontare le ripercussioni immediate del lockdown su occupazione e attività economiche, ma di programmare ambiziosi piani di ripresa attraverso il programma Next Generation EU. La spesa pubblica è stata incentivata come strumento per la ripresa tramite l’attivazione di un meccanismo europeo di solidarietà che ha comportato la sospensione dell’ortodossia rigorista. Dopo gli anni dominati dai vincoli imposti da Bruxelles per limitare il più possibile l’intervento dello Stato in economia, e basati sul primato della competizione di mercato, l’effetto della pandemia è stato di rilegittimare l’azione pubblica in nome dell’interesse generale. E questo è naturalmente avvenuto all’interno di una visione che ha riabilitato il ruolo di indirizzo delle politiche pubbliche.

La novità emersa con la Commissione presieduta da Ursula von der Leyen non si è limitata alla rimozione del tabù del debito comune o all’allentamento dei limiti posti al deficit pubblico. È cambiata proprio la prospettiva di fondo. Si è venuta affermando una visione strategica incardinata su chiare priorità. Il tema della doppia transizione ecologica e digitale, da un lato, e quello della coesione sociale, dall’altro, hanno tracciato le linee lungo cui indirizzare lo sviluppo europeo. E su queste linee sono state costruite delle iniziative europee di politica economica ed industriale, smentendo il pensiero secondo cui la politica deve stare fuori dai mercati e limitarsi ad assicurarne il funzionamento efficiente. Il futuro, quindi, è stato considerato come il risultato di azioni intenzionali prodotte da un confronto pubblico attorno a ciò che si ritiene desiderabile per i cittadini europei, e non come l’esito non governato di meccanismi di mercato. Sfidate da opinioni pubbliche sempre meno propense alla solidarietà – non solo al di fuori dei confini nazionali ma anche al loro interno – le istituzioni dell’Unione europea hanno difeso una visione opposta a quella delle chiusure nazionaliste e dei ripiegamenti particolaristici.

Questa posizione, in netta controtendenza rispetto alle dinamiche di gran parte dei paesi dell’Unione, non è figlia solo di lungimiranza e alti ideali. Le autorità europee – in particolare la Commissione e il Parlamento – possono permettersi uno sguardo più lungo perché rispetto alle autorità nazionali risentono meno delle reazioni dirette, nella gestione dello scontento e del disagio, che decisioni impopolari producono sulla vita dei cittadini. Sono istituzioni che vivono la politica nella condizione privilegiata del medio-lungo termine, anziché sulla base di una ricerca ossessiva del consenso di giornata. Per questo può accadere, come si è visto nelle scorse settimane, che un programma fondamentale per ridisegnare il futuro economico europeo, come il Green Deal con il suo impegnativo obiettivo di ridurre le emissioni climalteranti del 55 per cento entro il 2030, entri in conflitto con consistenti pezzi di economia reale, che si tratti degli agricoltori o del settore automobilistico, che a torto o a ragione ritengono di essere penalizzati più di altri dalle trasformazioni imposte dalla transizione ecologica. Così l’obiettivo strategico viene messo in discussione dagli effetti concreti che le politiche di scala europea producono su specifiche categorie o aree. E il rapporto tra il livello europeo e il livello nazionale delle politiche entra in tensione, diffondendo nell’elettorato la convinzione che sia necessario un riallineamento a partire dalle istanze nazionali: con meno integrazione europea e più difesa dei territori e dei bisogni concreti di chi ci vive.

Questa è dunque la posta in gioco. E se per conoscere lo scenario che le prossime elezioni faranno emergere occorre attendere, è utile mettere a fuoco sin da ora un elemento che a nostro avviso sarà decisivo nella gestione della frattura che potrebbe aprirsi tra la visione della attuale politica europea e quella futura. L’elemento in questione è il ruolo della dimensione sociale nelle politiche europee. Per un lungo periodo (diciamo da Delors in avanti, dunque dalla metà degli anni Novanta) la dimensione sociale è rimasta marginale, largamente sacrificata alla costruzione del mercato unico e delle sue istituzioni. L’interpretazione dei trattati istitutivi dell’Unione europea ha privilegiato il compito proteso alla eliminazione delle barriere frapposte alla libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali. Parallelamente, come conseguenza di un pensiero che considerava l’allargamento del mercato in termini non solo geografici ma anche di ambiti e funzioni, ciò si è tradotto nella spinta verso una progressiva riduzione dell’intervento pubblico nella produzione di beni e servizi, accompagnata da una ridefinizione del ruolo degli Stati come soggetti che devono soprattutto occuparsi della regolazione e del rispetto dei meccanismi del mercato. Senza porre troppa attenzione all’impatto prodotto sulla tenuta del tessuto sociale. Tant’è vero che negli anni intercorsi tra la Commissione Delors e la Commissione von der Leyen la coesione sociale è stata un argomento affrontato prevalentemente nelle discussioni su come favorire il recupero delle regioni in ritardo di sviluppo. Ovvero su come affrontare situazioni di anomalia rispetto agli standard fissati per la crescita europea, a fronte delle quali rilassare le regole della competizione e consentire l’intervento pubblico. Ma sempre con regole e limiti precisi, visto che di anomalie si tratta e non di un modello virtuoso da prendere a riferimento. Così la questione sociale finiva per emergere solo in relazione a situazioni di marginalità o di ritardo, dunque in via residuale. Gli stessi temi dell’innovazione sociale e dell’imprenditoria sociale, che entrano nelle politiche della Commissione Barroso nel 2011, sono concepiti prevalentemente come strumenti di correzione delle distorsioni create dagli eccessi della finanza, con enfasi sul potenziale degli investimenti ad impatto sociale, più che come riconoscimento della questione sociale come davvero centrale.

Questa linea, seguita senza titubanze dal Trattato di Maastricht in avanti, non ha retto alla prova dei quindici anni seguiti agli sconvolgimenti che hanno preso avvio con il 2008. La grande recessione mondiale, gli effetti della crisi del debito sovrano sull’area euro, e più recentemente la pandemia da Covid-19 hanno riportato l’attenzione delle politiche europee sui temi sociali. O forse sarebbe meglio dire che hanno portato a galla quanto già sobbolliva all’interno della società europea, resa più fragile da una serie di fattori – dalla crescita delle disuguaglianze economiche al montare dell’intolleranza culturale verso la diversità portata dall’immigrazione – che ne hanno minato la coesione ben al di là delle aree in ritardo di sviluppo. Nel corso di questi anni sempre di più è emersa la consapevolezza che il mercato unico non basta a tenere insieme un’Europa attraversata dalle paure e dai rancori motivati dal senso di esclusione avvertito da una parte consistente dei suoi cittadini. Esclusione dal potere di decidere del proprio futuro. Esclusione dal diritto di non subire passivamente le trasformazioni imposte dal progresso tecnologico. Esclusione dalla possibilità di stabilire i tempi e il ritmo dei mutamenti richiesti dall’adattamento al cambiamento climatico.

È in questo passaggio che si è tornati a riconsiderare la questione dei diritti sociali e, più in generale, della coesione della società europea. Non più soltanto riguardo ad aree o situazioni marginali, ma come argomento centrale per il futuro e la stessa sopravvivenza dell’Unione europea. Forse il tema si è riaffacciato troppo tardi, quando ormai nel corpo delle società europee avevano messo radici delle patologie difficili da curare. Forse le politiche europee hanno ripreso a trattarlo con qualche eccessiva timidezza, senza esplicitare fino in fondo il fatto che se non si affronta il tema sociale sarà difficile evitare il deragliamento della doppia transizione digitale ed ecologica. Ma è certo che questa Commissione europea, prossima a concludere il suo mandato, ha cambiato l’approccio delle politiche europee. Di fronte ad una società divisa e impaurita ha compreso che non poteva limitarsi al ruolo di garante della competizione economica. Si è resa conto che la tenuta del tessuto sociale è una precondizione dello sviluppo che non può essere data per scontata ma necessita cure e interventi.

La vicenda del Piano d’azione per l’economia sociale sintetizza bene questo cambio di prospettiva. Ed è altresì indicativa delle questioni che si porranno nei prossimi mesi. Da un lato, nel contesto dei nuovi equilibri politici che emergeranno dalle elezioni per il parlamento europeo, rallenterà questo ritorno di attenzione per i temi sociali all’interno delle istituzioni UE? O la nuova governance europea saprà invece accompagnarlo, riconoscendo la necessità di un riequilibrio di politiche che in passato si sono spese a beneficio quasi esclusivo del mercato? D’altro lato – ed è una questione che emergerà ben presto, appena gli indirizzi di Bruxelles dovranno trovare applicazione a livello nazionale – il sentimento antieuropeista come condizionerà la ricezione nei singoli paesi delle raccomandazioni europee in tema di economia sociale? Sarà un tema di conflitto, o peggio disinteresse, oppure prevarrà anche qui un atteggiamento pragmatico, che porterà ad incorporare la nuova visione nelle politiche nazionali?

Il Piano d’azione europeo

Abbiamo già avuto modo di occuparci del Piano di azione in un precedente numero di Impresa sociale (01/2022). Quindi possiamo limitarci qui a richiamarne sommariamente la genesi e il contenuto. Già la Commissione europea presieduta da José Manuel Barroso nel 2011 aveva inserito tra i propri temi il cosiddetto Social Business, con un’iniziativa che prendeva spunto dal disagio sociale alimentato dalle politiche di austerità adottate dalle istituzioni europee per far fronte alla grande recessione mondiale del biennio precedente. L’impostazione della Social Business Initiative (SBI) era debitrice della strategia inglese della Big Society, che faceva leva su spiriti imprenditoriali e forze del mercato per coinvolgere individui e imprese nella gestione di problemi di interesse collettivo, con il ricorso a risorse private e di volontariato civico.

La spinta a coniugare libero mercato e solidarietà sociale in una prima fase ha dato soprattutto spazio ad un approccio basato sulle nozioni di social entrepreneurship e innovazione sociale. L’accento veniva in tal modo posto sulla necessità di trasferire competenze e capacità di innovazione dal settore privato (inteso come profit) a quello dell’azione sociale, in un processo di contaminazione virtuoso ma unilaterale. Questa impostazione iniziale è stata progressivamente rivista e corretta su sollecitazione di una ricca storia europea di economia sociale non riconducibile agevolmente all’interno del concetto di social business, di origine prevalentemente anglosassone. Cooperative e mutue, associazioni senza scopo di lucro, fondazioni e imprese sociali: la grande e variegata pluralità di esperienze e modelli organizzativi, operanti nei diversi paesi con caratteristiche specifiche maturate nel tempo, ha gradualmente portato a modificare l’approccio della Social Business Initiative rendendola più aderente alla realtà di fatto dei paesi europei. Una realtà peraltro viva e in grado di innovarsi, più che un mero tributo alla tradizione, come testimoniato dalla nascita di nuove forme organizzative quali le cooperative sociali e più in generale le imprese sociali, ben note ai lettori di questa rivista. Una realtà in cui la dimensione collettiva tanto delle forme imprenditoriali quanto di quelle associative si distingue dall’orientamento di una social entrepreneurship in cui invece viene data maggiore enfasi alla iniziativa di singoli individui dotati di spirito imprenditoriale e motivati alla causa sociale sulla base di un percorso personale.

Il passaggio concettuale che ha portato al superamento dell’approccio del social business è stato definitivamente acquisito con l’attuale presidenza della Commissione UE. L’Action Plan adottato il 9 dicembre 2021 su iniziativa del commissario al lavoro e alle politiche sociali, il lussemburghese Nicolas Schmit, ha messo al centro il concetto di economia sociale, in quanto “economia al servizio delle persone” che contribuisce alle priorità della Unione europea. Il punto di partenza questa volta – a differenza della SBI – non è consistito innanzitutto nell’indicare un nuovo modello da promuovere nel contesto europeo, quello appunto della social entrepreneurship, bensì nel riconoscimento e nella valorizzazione delle forme organizzative già esistenti, vecchie e nuove. Prendendo atto della eterogeneità dei regimi giuridici e dei differenti contesti nazionali, il concetto di economia sociale è stato adottato in quanto è stato ritenuto più adatto a ricomprendere in un’unica definizione il grande pluralismo europeo delle forme organizzative che si contraddistinguono per il fatto di essere entità private, indipendenti dai poteri pubblici, fondate sul primato delle persone e delle finalità sociali o ambientali rispetto alla ricerca del profitto, vincolate a reinvestire la maggior parte dei propri profitti in attività di interesse collettivo o generale, e infine gestite secondo criteri democratici o comunque partecipativi. Questi sono infatti i caratteri fondanti dell’economia sociale nella definizione del Piano d’azione.

Il Social Economy Action Plan ha il valore di un punto fermo introdotto nelle politiche europee. La definizione che propone, benché non abbia forma giuridica, stabilisce con chiarezza un perimetro. Le organizzazioni che appartengono al settore sono riconosciute per le loro caratteristiche specifiche e distintive, anziché essere forzate a adeguarsi al profilo delle imprese ordinarie o ad assumerne a riferimento i modelli operativi e organizzativi. La scelta di una definizione non è però il solo elemento che qualifica il Piano. Pur richiamandone qui i contenuti solo per sommi capi, va ricordato che il Piano europeo non è un semplice atto di indirizzo politico, ma comprende più di 60 azioni, organizzate attorno a tre aree principali, individuate attraverso un ampio confronto tra le diverse strutture della Commissione e un nutrito gruppo di stakeholder e esperti.

La prima area riguarda le condizioni di contesto e i fattori abilitanti per lo sviluppo dell’economia sociale. Nello specifico, in quest’area sono compresi i temi del riconoscimento giuridico, della definizione di specifiche policy – a livello internazionale, nazionale, regionale e locale – e le questioni riconducibili ai due grandi nuclei tematici degli aiuti di Stato e del rapporto con la pubblica amministrazione, in particolare nelle forme della spesa pubblica destinata all’acquisto diretto di beni e servizi (public procurement). La volontà della Commissione ovviamente non è quella di promuovere un unico riconoscimento giuridico valido a livello europeo, in quanto è viva la consapevolezza che troppo diversi sono i contesti nazionali per storia e impostazione perché si possa immaginare una definizione normativa comune. Tuttavia, nel Piano è chiara l’intenzione che dal confronto tra i diversi approcci nazionali possa emergere un percorso convergente, in cui le diverse soluzioni possano essere analizzate e valutate in funzione di un adeguamento (o di un’introduzione, laddove sono assenti) dei quadri legislativi nazionali a supporto del settore. Il livello di normatività su cui si colloca l’intervento della Commissione è perciò intenzionalmente basso: al suo interno tiene insieme sia le forme giuridiche propriamente dette (legal form) sia gli altri istituti cui non corrisponde una specifica forma giuridica (legal status). Dunque, per restare su un terreno familiare, comprende sia il modello di realtà giuridiche in molti paesi già consolidate, come le cooperative, le mutue, le associazioni e le fondazioni, sia il più recente modello delle imprese sociali, in quanto caratterizzato da una qualifica che non dà luogo a una forma giuridica. Ciò avendo in mente l’obiettivo di un quadro normativo il più possibile idoneo a riconoscere la specificità del settore e a sostenerne la crescita, ma senza forzature all’interno di categorie troppo rigide. La formula del “legal status” caratterizza anche la proposta legislativa che mira a favorire l’attività transfrontaliera delle associazioni non profit, come una delle azioni concrete per l’attuazione dell’Action Plan, realizzata con una direttiva che introduce la qualifica legale di EACB (European Cross Border Association) ed un regolamento che modifica le norme sul funzionamento del mercato interno proprio con l’intento di aprire ad una maggiore presenza degli enti dell’economia sociale nel mercato unico.

Sempre in questa prima area, poi, si collocano tutte le azioni che il Piano prevede riguardo alle policy per il sostegno e l’incentivazione. In particolare, i due argomenti più importanti riguardano un migliore utilizzo del regolamento sugli aiuti di Stato e degli strumenti del cosiddetto “socially responsible (public) procurement”. In entrambi i casi, come si dirà meglio più avanti nel capitolo sulla Raccomandazione, la tesi della Commissione è che i paesi membri non stiano utilizzando efficacemente tutte le opportunità offerte dalle norme europee. Malgrado spesso si lamenti che le regole a favore della concorrenza siano di ostacolo allo sviluppo dell’economia sociale, perché impongono di selezionare le offerte in ragione del massimo vantaggio economico per l’autorità appaltante, l’argomento del Piano di azione è che le modifiche apportate al trattato sull’Unione europea nel 2007, a Lisbona, hanno introdotto una flessibilità nell’applicazione delle regole europee sugli aiuti di Stato che rende possibile dare sostegno all’economia sociale in molti più casi di quanto normalmente si ritenga. Se restano delle remore nella loro applicazione concreta non dipende da Bruxelles bensì dalle autorità nazionali, che tendono ad essere più prudenti o timorose rispetto al rischio che l’intervento pubblico possa distorcere la competizione. Ma su questo torneremo più avanti.

La seconda area di azione individuata dal Piano riguarda le opportunità aperte da un inserimento più rilevante dell’economia sociale all’interno delle strategie europee. In primo luogo, qui viene sottolineata l’importanza del contributo del settore alla doppia transizione, ecologica e digitale, da cui la visione di sviluppo EU sarà guidata nei i prossimi anni. Su entrambi i fronti, le organizzazioni dell’economia sociale sono state riconosciute come attori rilevanti ai quali riservare un’attenzione specifica. Perciò, accanto al Piano di azione la DG Grow, del commissario francese Thierry Breton, nell’ambito della revisione della strategia industriale europea ha introdotto un nuovo ecosistema dedicato all’economia sociale e di prossimità. L’economia sociale è quindi uscita dall’ambito esclusivo delle politiche sociali per inserirsi nella cornice più larga delle strategie per lo sviluppo economico dell’Unione europea. La prima conseguenza è stata l’elaborazione di un apposito percorso (transition pathway) nel quadro delle azioni che la Commissione ha promosso per affrontare le due transizioni. L’effetto diretto di questa scelta è consistito in una maggiore attenzione rivolta all’economia sociale nell’utilizzo degli strumenti che la Commissione mette a disposizione dei soggetti economici per il sostegno alla crescita e per l’accompagnamento dei processi di adeguamento delle competenze necessarie al mondo del lavoro. In concreto, ciò si è tradotto sia nell’emanazione di due specifiche linee di bandi (inseriti nel programma COSME) dedicati al sostengo della transizione verde e digitale delle imprese dell’economia sociale, così come di alcuni bandi inseriti nel programma Horizon EU; sia in un incremento della dotazione di fondi e in meccanismi dedicati all’interno di InvestEU, il programma finanziario affidato alla gestione del Fondo europeo per gli investimenti (FEI) in quanto braccio operativo della Commissione per raccogliere sul mercato privato globale le risorse per finanziare i propri progetti strategici di sviluppo. L’altro intervento ha riguardato invece la creazione di uno specifico percorso per l’economia sociale nel Pact for skills, ossia l’iniziativa europea indirizzata alla formazione delle competenze – sia in forma di re-skilling, riqualificazione, sia come up-skilling, potenziamento – necessarie alla doppia transizione. Sempre in direzione di una razionalizzazione delle proprie iniziative, va sottolineato inoltre che il Piano ha inserito in quest’area anche il tema dell’innovazione sociale. Non è secondario che questo argomento – in precedenza affrontato in una posizione collocata ambiguamente a cavallo tra profit, non profit e settore pubblico – abbia trovato sistemazione all’interno del Piano di azione per l’economia sociale, così indicando esplicitamente che a qualificare l’innovazione sociale non è sufficiente l’intenzionalità e la modalità con cui questa si realizza, ma va anche tenuto conto della forma soggettiva di chi la promuove. Con questa impostazione si può sperare che ci si liberi finalmente del carattere di concetto vago, utilizzabile per indicare qualsiasi attività che abbia una qualche relazione con innovazioni che si applicano all’ambito sociale, collegando invece strutturalmente l’innovazione sociale alle caratteristiche degli attori che se ne fanno carico. Nello specifico, il Piano prevede che la nascita di centri di competenza nazionali sull’innovazione sociale sia parte della applicazione della strategia per lo sviluppo dell’economia sociale, stabilendo così un solido e limpido nesso tra due approcci rispetto ai quali le precedenti posizioni europee avevano ondeggiato confusamente.

La terza area comprende infine le azioni rivolte a stimolare conoscenza e consapevolezza relativamente al ruolo e alle potenzialità dell’economia sociale. La premessa è che su scala europea la visibilità del settore è ancora insufficiente, e ciò condiziona negativamente tanto il suo riconoscimento istituzionale quanto l’adozione di politiche di sostegno. Le azioni previste qui partono dalla necessità basilare di fornire un’informazione accurata e completa sul settore e sulle politiche europee ad esso dedicate, in forma di one-stop-shop nel quale riorganizzare l’accesso alle conoscenze e agli strumenti altrimenti dispersi in una miriade di documenti e siti. A questo scopo il Piano ha dato vita allo “EU Social Economy Gateway”, un portale nel quale stanno gradualmente concentrandosi le diverse risorse informative utili a conoscere il settore e le attività che lo riguardano. Il pubblico al quale il Gateway è destinato non si limita agli operatori del settore e agli addetti ai lavori in senso stretto, ma si prefigge di abbracciare cittadini comuni e funzionari pubblici. Due categorie alle quali, come l’esperienza mostra, il concetto di economia sociale non è necessariamente familiare. In particolare, a quanti lavorano nella pubblica amministrazione, il Piano dedica delle iniziative specifiche di comunicazione e formazione, con cognizione del fatto che la resistenza dei pubblici funzionari verso soluzioni che prevedano il coinvolgimento delle organizzazioni dell’economia sociale spesso nasce da una sostanziale ignoranza delle caratteristiche del settore. La questione della formazione dei policy-maker emerge quindi con chiarezza e non viene demandata esclusivamente alle autorità nazionali, in quanto è chiara l’esigenza di creare un sentire comune di livello europeo sviluppato a partire dall’inquadramento dell’economia sociale all’interno dell’insieme delle politiche dell’Unione. In questa direzione si muove anche la costituzione, in collaborazione con l’OCSE, della YEPA – Youth entrepreneurship policy academy, motivata dalla necessità di compensare le lacune del sistema formativo che in questo ambito sono diffuse in tutti in paesi membri. Tra i presupposti del Piano di azione vi è infatti la considerazione che le giovani generazioni debbano essere messe in condizione di conoscere le esperienze e i modelli dell’economia sociale almeno nella stessa misura di quelli delle imprese tradizionali, correntemente insegnati nelle università e nelle business school, per poter eventualmente decidere con competenza di farsene ispirare nelle proprie scelte di vita. La academy si pone in parallelo con le iniziative di capacity building e con il programma sulla creazione di competenze, tessendo una tela di misure per accompagnare la strategia con la formazione del software necessario per alimentarla. Da ultimo, infine, accanto alle iniziative sul fronte della comunicazione viene riconosciuta la necessità di interventi nell’ambito della produzione di conoscenza e della ricerca, con una attenzione particolare all’analisi quantitativa dell’economia sociale, di cui si avverte l’incompletezza su scala europea. Il lavoro sui dati è la base di ogni policy che voglia prendere le mosse dall’evidenza fattuale, e nel caso dell’economia sociale è evidente che le lacune da colmare sono ancora grandi. Tra le azioni è previsto quindi anche un investimento per irrobustire la conoscenza statistica e una maggiore diffusione della cultura dei dati a beneficio di un’ampia serie di utilizzatori.

La Raccomandazione del Consiglio dell’Unione

A distanza di due anni dall’approvazione del Piano d’azione della Commissione europea, il 27 novembre 2023 anche il Consiglio dell’Unione europea ha adottato una propria “raccomandazione sullo sviluppo delle condizioni quadro dell’economia sociale”, ad oggi l’atto più recente e impegnativo del percorso che ha portato le politiche europee ad occuparsi di economia sociale. Innanzitutto, va chiarito il significato di una raccomandazione del Consiglio nell’ambito dell’ordinamento europeo. Per semplificare, si tratta di un atto più impegnativo della semplice “comunicazione”, il cui contenuto impegna unicamente la Commissione UE, ma meno vincolante di una “direttiva” o un “regolamento”, che una volta adottati assumono forza di legge al rispetto della quale sono tenuti tutti i paesi membri. Quindi la Raccomandazione ha il significato di trasferire ai governi nazionali (il Consiglio dell’Unione europea è infatti l’organo intergovernativo al quale partecipano i rappresentanti di tutti i paesi membri) la responsabilità, nella loro autonomia, di dare attuazione ad una politica che, come in questo caso, la Commissione ha già ritenuto di adottare per quanto riguarda l’utilizzo delle proprie strutture e dei propri poteri. L’attuazione di una Raccomandazione è demandata ai singoli Stati, ma la Commissione ha il compito di monitorare le azioni nazionali e, sebbene non possa sostituirsi alle autorità dei paesi, può esercitare un ruolo di monitoraggio e persuasione perché gli impegni presi con l’adozione della Raccomandazione vengano rispettati.

Come si è arrivati alla Raccomandazione? L’iniziativa, come già si è accennato, è nata dalla Commissione UE ed era una delle azioni previste dal Piano. L’intento era quello di dare profondità e rilevanza nazionale alle politiche a favore dell’economia sociale, stimolando delle iniziative per ripensare il ruolo del settore nell’ambito delle strategie dei singoli paesi. La proposta di Raccomandazione è stata avanzata dalla Commissione con una bozza di testo sottoposta all’esame dei rappresentanti dei governi dei paesi membri. Il processo che ha portato all’approvazione della proposta non è stato particolarmente problematico: rispetto al testo proposto dalla Commissione le modifiche apportate durante le negoziazioni che hanno preceduto l’adozione ufficiale sono state limitate e di portata circoscritta. In linea generale, le diverse delegazioni nazionali hanno chiesto che il testo garantisse agli Stati membri sufficienti margini di flessibilità e adattamento in considerazione delle diverse situazioni di partenza e di sviluppo dell’economia sociale e dei modelli nazionali, evitando un linguaggio eccessivamente prescrittivo. Altri punti sollevati sono stati la valorizzazione del ruolo degli enti locali, una ragionata revisione della legislazione UE sugli aiuti di Stato, l’opportunità di includere dei riferimenti alla fiscalità, e la riduzione degli oneri amministrativi per le attività di monitoraggio e rendicontazione previste dalla Raccomandazione. Infine, è emersa l’esigenza di dare conto pienamente della portata ampia dell’economia sociale, senza limitarne il ruolo all’accesso inclusivo al mercato del lavoro o alla coesione sociale, bensì mettendone in evidenza gli obiettivi di sviluppo imprenditoriale, sempre con connotazione sociale, indirizzati anche ad ambiti non attinenti in via esclusiva alla sfera dei servizi sociali. Ribadendo in questo modo che l’economia sociale può essere presente in tutti i settori economici, ed in particolare in quelli riferibili agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU e alla doppia transizione.

Questo ultimo aspetto richiede una spiegazione. Nel testo di Raccomandazione predisposto dalla Commissione la base giuridica alla quale ci si riferisce sono gli articoli del Trattato che fanno riferimento al lavoro e all’inclusione sociale. In quanto atto di valore comunque legislativo, sia pure non vincolante, una Raccomandazione deve infatti essere giustificata in funzione di specifici articoli del Trattato. Per questo motivo la Raccomandazione, rispetto al Piano d’azione, accentua gli aspetti relativi alla cooperazione tra Stati membri e al sostegno ai loro interventi nel settore dell’occupazione (TFUE art. 149) e in particolare rimanda all’impegno dell’Unione nel sostenere e completare l’azione degli Stati membri nel settore dell’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro (TFUE art. 153h) e della lotta all’esclusione sociale (TFUE art. 153j). È su questa base giuridica, infatti, che poggia il dovere degli Stati membri di riferireregolarmente alla Commissione europea sui temi della Raccomandazione stessa. Ed è questo il motivo per cui, per quanto alcuni Stati membri avrebbero desiderato che nella Raccomandazione il ruolo dell’economia sociale fosse affrontato in termini più estesi, il testo finale è rimasto ancorato all’impostazione derivante dagli specifici riferimenti al Trattato per il funzionamento dell’Unione europea.

Quanto al contenuto – e considerato quanto appena chiarito sulle ragioni che hanno portato il testo a focalizzarsi sulla creazione di occupazione e in particolare sull’inclusione lavorativa di persone svantaggiate – i temi trattati nella Raccomandazione riflettono naturalmente le aree e le azioni già inserite nel Piano di azione per l’economia sociale della Commissione UE. L’accesso al mercato del lavoro, come si è detto, gode di un’attenzione prioritaria e si traduce tra l’altro nell’incoraggiamento a prevedere il coinvolgimento dell’economia sociale nell’elaborazione e attuazione delle politiche attive. Ciò in quanto la collaborazione tra servizi pubblici per l’impiego ed enti dell’economia sociale riveste una funzione importante nell’individuazione delle persone che necessitano assistenza per l’inserimento sociale e professionale. Nella stessa linea si collocano altri punti del testo, e in particolare gli inviti a prevedere la riduzione degli oneri sociali per incentivare le imprese dell’economia sociale ad assumere personale; ad offrire opportunità di miglioramento delle competenze ai lavoratori scarsamente qualificati che attraversano cambiamenti profondi; ad utilizzare meglio i fondi dell’Unione, come il fondo sociale europeo Plus, per sostenere i soggetti dell’economia sociale nella realizzazione degli obiettivi della garanzia giovani; ad assicurare un quadro favorevole ai trasferimenti di imprese ai lavoratori dipendenti per costituire cooperative di lavoratori o altri modelli di economia sociale; e più in generale ad agevolare la transizione delle imprese tradizionali verso i soggetti dell’economia sociale. Un capitolo è poi riservato alla formazione di competenze per l’economia sociale. Anche qui l’accento è posto sulla riqualificazione e il miglioramento delle capacità dei soggetti che hanno bisogno di essere accompagnati nella transizione del mercato del lavoro. Richiamando l’approccio europeo alla occupabilità, si rimarca qui il ruolo dell’economia sociale sia in quanto potenziale datore di lavoro sia in quanto soggetto che può contribuire a scambi di apprendimento con le imprese tradizionali allo scopo di facilitare l’inserimento al lavoro orientato alle transizioni verde e digitale.

Sul versante dell’inclusione sociale, la Raccomandazione sottolinea l’importanza di una collaborazione delle autorità pubbliche con gli enti dell’economia sociale per la concezione, l’istituzione e la fornitura di servizi di interesse generale, tenendo conto delle persone più deboli e svantaggiate pur non limitando la propria azione in via esclusiva a queste categorie. La visione suggerita è quindi quella di un rapporto di collaborazione tra settore pubblico ed economia sociale, e non di semplice esecuzione. Ampliando la prospettiva, si raccomanda poi agli Stati membri di promuovere un ecosistema favorevole all’innovazione sociale valorizzando il ruolo dell’economia sociale nelle iniziative di cooperazione e partenariato con imprese tradizionali, amministrazioni pubbliche, soggetti erogatori di finanziamenti, e altri portatori di interesse. A titolo di esempio, vale la pena di citare l’esortazione a garantire i giusti incentivi per favorire il coinvolgimento dell’economia sociale nelle strategie per la riduzione dei rifiuti e la prevenzione degli sprechi, attraverso la donazione a soggetti dell’economia sociale di eccedenze, beni invenduti o restituiti, da parte delle imprese, o di beni di seconda mano, da parte delle persone fisiche. La direzione suggerita è quella di relazioni di condivisione, in cui vengono valorizzate le filiere alle quali contribuiscono diversi portatori di interesse con ruoli differenti ma complementari. Il contributo dell’economia sociale agli obiettivi previsti dal Piano d’azione per l’economia circolare in questo senso rappresenta un esempio concreto.

Più in generale, per lo sviluppo di queste collaborazioni, la Raccomandazione insiste sulla previsione di misure di sostegno e contesti finanziari, amministrativi e giuridici favorevoli all’economia sociale, che tengano in considerazione le caratteristiche specifiche dei modelli imprenditoriali per quanto riguarda la governance, la ripartizione degli utili, le condizioni di lavoro e l’impatto. A questo fine, è necessario facilitare la partecipazione al dialogo sociale dei soggetti dell’economia sociale, attraverso meccanismi di consultazione tra autorità pubbliche e organizzazioni di rappresentanza, anche sostenendo la nascita e lo sviluppo di reti rappresentative dell’economia sociale. È la stessa logica della responsabilizzazione dei soggetti dell’economia sociale sin dalle fasi iniziali della ideazione e progettazione di un intervento che – scalata al livello più alto – fonda la necessità di questo dialogo istituzionale.

Passando all’accesso ai finanziamenti, il testo evidenzia la necessità di una mappatura delle fonti esistenti in rapporto ai bisogni e all’efficacia dei regimi di sostegno già in essere, in funzione della fase di sviluppo. Realisticamente, il documento non contiene alcuna enfasi sugli strumenti della finanza ad impatto; mentre invece si indica l’opportunità di esplorare meccanismi innovativi come partenariati pubblico-privato, piattaforme di finanziamento collettivo, o combinazione di tipi diversi di strumenti finanziari, sovvenzioni e forme di garanzia. Colpisce il riferimento alla possibilità di fornire ai singoli risparmiatori, o ai lavoratori dipendenti che partecipano a piani pensionistici o di risparmio finanziati dal datore di lavoro, la facoltà di scegliere un piano di risparmio che investa una parte dei risparmi in imprese sociali. Perché testimonia un approccio all’accesso ai finanziamenti che non concede nulla alla retorica della finanza di impatto e promuove invece modelli partecipativi più consoni alla natura e al modo di operare dell’economia sociale.

Sul fronte dei finanziamenti pubblici, come si è brevemente accennato in precedenza, i due capisaldi della Raccomandazione sono l’accesso a mercati e appalti pubblici e la flessibilizzazione del regime degli aiuti di Stato. Per quanto riguarda il primo punto, il testo ribadisce l’importanza del “social responsible public procurement” e indica la necessità di rafforzarlo ed estenderlo, promuovendone l’utilizzo da parte delle amministrazioni nazionali e locali. C’è consapevolezza di come occorra superare la resistenza che porta a preferire pratiche più tradizionali, in quanto già conosciute e consolidate, e in particolare, di come l’economia sociale soffra per il ricorso diffuso a gare di appalto al massimo ribasso, in cui la valutazione dell’offerta economica è il parametro che prevale a discapito della qualità e dell’impatto sociale. Andrebbero invece sfruttati appieno gli strumenti messi a disposizione dalla normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici, specie quelli per l’organizzazione di servizi alla persona e per i servizi di interesse generale, ai quali è dedicato un regime specifico ispirato al principio di solidarietà. Benché la Raccomandazione non indichi esplicitamente le pratiche di co-programmazione e co-progettazione basate sulla collaborazione tra pubblica amministrazione e organizzazioni dell’economia sociale, il senso del testo è quello di incoraggiare “un dialogo strutturato, trasparente e non discriminatorio con i portatori di interesse dell’economia sociale e di altre aree al fine di elaborare una strategia per appalti pubblici socialmente responsabili”. Una analoga attenzione viene posta anche nei confronti del private procurement, e più in generale nel prevedere meccanismi che facilitino le partnership tra imprese tradizionali ed economia sociale. L’intenzione che traspare è quella di affermare che in un mercato unico più accogliente per le organizzazioni dell’economia sociale c’è un grande potenziale per la collaborazione tra profit e non profit, mirata allo sviluppo di pratiche imprenditoriali più responsabili e sostenibili.

Sugli aiuti di Stato la Raccomandazione interviene invece argomentando che la disciplina europea offre margini di manovra molto più ampi di quanto le pratiche nazionali abbiano recepito. La posizione europea si fonda sulla constatazione che l’economia sociale ha dimostrato come vi siano situazioni in cui la competizione non riesce a garantire l’efficienza dei mercati. Per questa ragione la disciplina degli aiuti di Stato nel tempo è stata modificata. Il Regolamento 651/2014 sui servizi di interesse economico generale – SIEG, e il meccanismo del de minimis riflettono la consapevolezza che non tutti gli interventi pubblici implicano necessariamente una distorsione del mercato. Ciò vale anche per le organizzazioni dell’economia sociale, che per caratteristiche e specifico modello operativo (primato dell’impatto sociale sul profitto e non distribuzione degli utili) possono contribuire all’equità e alla coesione sociale in aree di fallimento dei mercati. È quindi corretto adottare misure compensative di sostegno pubblico in quanto il criterio del livellamento del campo di gioco deve tenere conto della natura e della dimensione dei soggetti e non limitarsi neutralmente a favorire una competizione asimmetrica (cfr Corte di giustizia, C-78/08). Ciò che la Raccomandazione sottolinea è che le attuali regole sugli aiuti di Stato consentono una flessibilità che gli Stati membri non hanno saputo utilizzare efficacemente. Su questa area è necessario quindi intervenire fornendo supporto alle autorità nazionali e regionali per correggere la loro tendenza ad un’interpretazione restrittiva degli aiuti di Stato. Va modificata l’attuale tendenza di molti Paesi membri ad utilizzare esclusivamente il regolamento de minimis, in quanto di più semplice e non controversa attuazione, limitando invece l’applicazione del regolamento sui SIEG.

Riguardo alla fiscalità, non trattandosi di materia di competenza europea, l’Action Plan non articola proposte dettagliate ma richiama gli stati membri a considerare la leva fiscale come strumento utile a promuovere l’economia sociale. Tuttavia, la Commissione ha anche allegato alla proposta di Raccomandazione due documenti di analisi sui sistemi fiscali vigenti per l’economia sociale negli Stati membri. Sempre la Commissione ha inoltre affidato all’OCSE un incarico per la realizzazione di uno studio esplorativo per l’elaborazione di proposte di politiche fiscali per l’economia sociale. Nel testo adottato il Consiglio si limita a raccomandare l’elaborazione di incentivi fiscali per favorire lo sviluppo del settore, in particolare per quanto riguarda l’esenzione da imposte degli utili non distribuiti, le detrazioni o crediti di imposta per le donazioni, e l’adozione di un regime di esenzione per agevolare trasferimenti di imprese a cooperative di lavoratori. In generale, il suggerimento è di rivedere gli oneri di adempimento fiscale per i soggetti dell’economia sociale, riducendoli se possibile, ma al tempo stesso di vigilare sui soggetti dell’economia sociale per evitare che siano usati a fini di evasione o elusione fiscale, o addirittura per il riciclaggio di denaro. Indicazioni, come si intuisce, difficilmente conciliabili. Tant’è vero che in molti paesi membri la seconda prescrizione finora è nettamente prevalsa sulla prima.

Un ulteriore tema toccato dalla Raccomandazione è quello della misurazione dell’impatto sociale. Da notare qui che agli Stati membri si raccomanda di favorire l’adozione di pratiche per la misurazione d’impatto in cooperazione con i soggetti dell’economia sociale e offrendo sostegno per adottare metodi semplici e pratici, anche con appositi finanziamenti e con la previsione che parte del denaro pubblico ricevuto da sovvenzioni o contratti possa essere utilizzato per tale attività. Questo argomento risente delle lunghe discussioni, tra l’altro nell’ambito del GECES (Gruppo di esperti della Commissione europea sull’economia sociale), in cui studiosi e rappresentanti delle organizzazioni dell’economia sociale si sono impegnati per evitare un approccio unilaterale alla misurazione di impatto, modellato principalmente sulle esigenze dei finanziatori pubblici o privati. La scelta di insistere sull’adozione di pratiche identificate in maniera collaborativa rivela la necessità di rendere la misurazione di impatto uno strumento utile anche all’apprendimento organizzativo dei soggetti dell’economia sociale e non solo alla rendicontazione richiesta da erogatori o investitori.

Infine, il documento si chiude con una serie di misure per incrementare la visibilità e il riconoscimento dell’economia sociale: dall’adeguamento dei quadri giuridici alle campagne di comunicazione pubblica, dalla raccolta di statistiche, anche ampliando i sistemi di contabilità nazionale e le indagini sulle forze di lavoro, al sostegno alla ricerca, anche in collaborazione con il modo accademico e con centri indipendenti. Su quest’ultimo punto va sottolineato però che mentre il Consiglio raccomanda agli Stati membri di sostenere la ricerca sull’economia sociale, non si può affermare che la stessa attenzione sia stata posta verso i programmi di ricerca sostenuti direttamente dall’Unione europea, in cui storicamente l’allocazione delle risorse è andata largamente a favore delle discipline scientifiche e tecnologiche, lasciando solo poche briciole alla ricerca in ambito umanistico e delle scienze sociali. È il caso di dire che talune raccomandazioni non andrebbero rivolte solo agli Stati membri.

La posizione dell’Italia

La Raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea sullo sviluppo delle condizioni quadro dell’economia sociale è stata adottata da tutti i paesi membri dell’Unione europea, inclusa quindi l’Italia. A partire dal novembre 2023 sono cominciati a decorrere i 24 mesi previsti perché ciascun governo nazionale adotti o aggiorni una propria strategia di economia sociale. Alla Commissione UE spetterà il compito di monitorare e valutarne l’attuazione e questo avverrà con la predisposizione di due relazioni di valutazione, rispettivamente nel 2027 e nel 2032. L’idea quindi non è quella di un’iniziativa di breve durata ma un intervento pensato per durare: i primi due anni serviranno a mettere a punto la strategia, ma la sua attuazione si misurerà nel tempo e per questo motivo la Commissione si da un tempo di dieci anni per monitorare l’applicazione della Raccomandazione.

La domanda quindi è: cosa intende fare il nostro paese? Come pensa di adempiere a quanto ha contribuito ad approvare? La Raccomandazione, come emerge dalla sintesi che ne abbiamo fatto, indica linee-guida e temi da affrontare, senza prescrivere delle soluzioni vincolanti. E non potrebbe essere diversamente data l’eterogeneità delle situazioni nei paesi che compongono l’Unione. Quindi il primo compito per il recepimento nazionale è comprendere su quali ambiti è necessario intervenire e quali invece sono le azioni già avviate o addirittura in uno stadio di attuazione più avanzato rispetto a quanto suggerito dal Consiglio UE. Ma perché questo avvenga è necessario che ci sia un soggetto incaricato di questo compito, a livello governativo e ministeriale. Lo stesso Consiglio, nella sua Raccomandazione, suggerisce la nomina di “coordinatori per l’economia sociale nelle istituzioni pubbliche nazionali”, dotati di un mandato chiaro e di chiare responsabilità, nonché di risorse sufficienti a consentire il coordinamento e il monitoraggio della raccomandazione. A questo proposito la situazione italiana è deficitaria, come è noto. Le competenze in materia di economia sociale attualmente sono divise tra almeno tre amministrazioni centrali: il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che copre gli aspetti relativi al terzo settore e rappresenta l’Italia negli organismi internazionali in cui si tratta di economia sociale, il Ministero dell’economia e delle finanze, che è l’unico a prevedere una specifica delega all’economia sociale in capo alla figura di un sottosegretario di Stato, e il Ministero dell’impresa e del made in Italy, per la parte che riguarda le cooperative e le imprese sociali. Ciò a differenza di quanto avviene invece in altri paesi europei, come la Francia e la Spagna, dove l’economia sociale è incardinata in un singolo ministero e abitualmente fa parte del portafoglio di un responsabile politico di peso (rispettivamente, in Francia il ministero dell’economia e delle finanze e in Spagna il ministero del lavoro e dell’economia sociale). Questo, dunque, è il primo punto da affrontare in una road map italiana.

La visibilità e la chiarezza di responsabilità nella struttura ministeriale vanno di pari passo con la presenza o meno di un quadro normativo adeguato. Non a caso in entrambi i paesi sopra citati esiste una legge-quadro sull’economia sociale: in Spagna è in vigore dal 2011 e in Francia dal 2014. In entrambi i paesi questo riconoscimento istituzionale è all’origine di un’articolata serie di misure di sostegno che in buona parte già soddisfano le indicazioni contenute nella Raccomandazione. In Italia invece la situazione è differente: le diverse componenti dell’economia sociale, come individuate nella definizione dell’Action Plan, non sono riconosciute come tali. Il concetto stesso di economia sociale non è presente nell’ordinamento italiano. La novità introdotta dal Codice del terzo settore ha portato al riconoscimento di una parte di essa, ma escludendo le cooperative diverse dalle sociali ha posto le premesse di un disallineamento rispetto alla direzione imboccata a livello europeo. E in assenza di un assetto istituzionale è molto più difficile lo sviluppo di policy e misure amministrative di settore. Su questo la Raccomandazione è quantomai esplicita in quanto considera il quadro giuridico la condizione preliminare di ogni strategia. Quindi – seconda priorità di una road map – la questione di una legge-quadro sull’economia sociale è sul tavolo, e potrebbe muovere proprio da una valutazione dei risultati (a nostro parere piuttosto deludenti) di una riforma del terzo settore lanciata con grande enfasi dieci anni fa ma che rimane ancora incompiuta.

Quindi un passo in direzione di una legge quadro sull’economia sociale consentirebbe di avviare su un percorso meno accidentato tutte le azioni successive. E, soprattutto, consentirebbe di renderle tra di loro coordinate e dunque permetterebbe una maggiore riconoscibilità del contributo dell’economia sociale alla vita del paese. Laddove invece la frammentazione di interventi e misure continuerebbe a penalizzarne la visibilità, avvalorando l’idea di un settore marginale. Non poche delle indicazioni del Consiglio europeo sono infatti già presenti nel nostro sistema nazionale: dagli incentivi ai worker-buyout alle agevolazioni per l’assunzione di persone svantaggiate, dal 5 per mille (considerato dalla UE una best practice da riprodurre anche in altri paesi) alla detassazione degli utili non distribuiti per una parte delle cooperative. Quel che manca è invece il filo rosso per unire queste pratiche all’interno di una chiara visione del ruolo di enti che hanno in comune il primato della persona sul profitto e l’impegno in attività di interesse generale. Questa cornice è la premessa essenziale, senza la quale ogni intervento finirebbe per essere episodico e parziale. Una volta acquisita chiarezza sul piano giuridico-istituzionale, le questioni da affrontare in una road map italiana risulterebbero piuttosto evidenti.

In primo luogo, c’è il tema dell’economia sociale nelle politiche del lavoro. Nella visione europea questo è un aspetto determinante. In ambito nazionale, invece, sembra che manchi un’analoga consapevolezza. Ci sono, certo, misure che riconoscono il ruolo delle cooperative sociali nell’integrazione di lavoratori vulnerabili. Così come anche incentivi per favorire il trasferimento di aziende in crisi ai lavoratori riuniti in cooperativa. Ma la dimensione dei problemi sollevati dalla doppia transizione ecologica e digitale, che in Italia si somma ad un mercato del lavoro poco dinamico e penalizzato da bassi salari e ad una situazione di disoccupazione giovanile più grave che negli altri paesi europei, rende necessario un approccio molto più ambizioso. Le organizzazioni dell’economia sociale possono essere uno dei perni di una politica del lavoro che voglia affrontare questi problemi. Non solo perché è un settore che ha un peso occupazionale importante, ma anche per la funzione che può svolgere nella formazione di nuove competenze, nella promozione di condizioni di lavoro eque, nella gestione di percorsi lavorativi con finalità di inclusione sociale. Eppure, in quasi tutte le iniziative di policy che negli ultimi anni hanno trattato il tema dell’accesso al mondo del lavoro – PNRR, Garanzia giovani, Reddito di cittadinanza – il contributo dell’economia sociale non è stato minimamente valorizzato. Nella formazione di tali politiche l’economia sociale non è stata consultata, la sua voce non è stata ascoltata. Sono mancate e continuano a mancare le forme di un confronto istituzionale di cui la politica avrebbe potuto giovarsi nella definizione degli strumenti di politica del lavoro, mettendo a frutto l’esperienza acquisita dagli enti dell’economia sociale nell’ambito dell’inserimento lavorativo. In una strategia nazionale questo è un tema che si presta ad essere declinato in una varietà di modi: coinvolgendo l’economia sociale nelle azioni rivolte ai destinatari di redditi di inclusione e più in generale nelle politiche attive del lavoro, valorizzando a beneficio dei NEET le molte esperienze di formazione professionale promosse e gestite dai soggetti del settore, stabilendo un rapporto di collaborazione strutturato e permanente con i centri pubblici per l’impiego, favorendo partenariati e contratti di rete tra imprese dell’economia sociale e imprese tradizionali.

Un altro tema di pari importanza è quello del potenziamento del ruolo dell’economia sociale nella istituzione e fornitura di servizi di interesse generale. È un ambito che, per le trasformazioni in corso nella società, si presta ad essere ampliato anche al di là dell’erogazione di servizi di assistenza e sociali incentrati sulla persona. La Raccomandazione segnala come il ricorso ai SIEG, che richiedono una declinazione a livello nazionale e regionale, non sia adeguato rispetto alle potenzialità dello strumento. Rari sono i casi in cui le autorità competenti, a cominciare dalle Regioni, assegnano la funzione di servizi economici di interesse generale ad attività diverse da quelle pacificamente riconosciute come servizi pubblici, aprendo così la via del riconoscimento della funzione di interesse generale. Un caso virtuoso che vale la pena menzionare è quello della Provincia autonoma di Trento, che dialogando con la Commissione europea, ed elaborando un cruscotto di indicatori misurabili, ha ottenuto il riconoscimento della qualifica di SIEG alle “Famiglie Cooperative” – ovvero le cooperative di consumo che gestiscono negozi in piccoli paesi di montagna – dove questi esercizi commerciali assumano una vera e proprio funzione di interesse generale, erogando servizi essenziali aggiuntivi alla vendita di prodotti alimentari o di uso quotidiano. Il merito di questa iniziativa non si esaurisce nel riconoscimento della ammissibilità di alcuni aiuti di stato, ma nel riconoscimento che esite una funzione sociale di interesse generale che si può perseguire gestendo attività economiche, ben oltre i servizi sociali o assistenziali.

Il discorso qui si intreccia con quello degli aiuti di Stato, le cui regole sono applicate dalle politiche nazionali in termini molto più rigidi di quanto sia giustificato. In una strategia nazionale, uno spazio adeguato andrebbe quindi dedicato alla revisione degli “aiuti compatibili” ed in particolare al miglioramento del ricorso ad uno degli strumenti più interessanti sviluppati dall’Unione europea per l’adattamento delle regole sulla concorrenza alle specificità di segmenti di mercato e di tipologie di impresa. Ci riferiamo al GBER (General Block Exemption Regulation), che definisce le condizioni per l’esenzione di alcune misure di sostegno dall’assoggettamento alle limitazioni sugli aiuti di Stato, prevedendo esplicitamente che queste vengano costantemente aggiornate tenendo conto dell’evoluzione della situazione sociale. Sorprendente, da questo punto di vista, che alcune Regioni rinuncino ad applicare il GBER per sostenere misure di inserimento lavorativo per persone svantaggiate, assoggettandole alle regole del de minimis, sostenendo che il GBER appesantirebbe gli oneri burocratici! Nel corso del tempo, rispondendo alle nuove domande che emergono da una realtà più complessa e mutevole, i servizi offerti dalle organizzazioni dell’economia sociale hanno recepito i nuovi bisogni sociali allargando il proprio campo d’azione. Perciò è necessario che l’applicazione del GBER venga costantemente rivista a livello nazionale e regionale, utilizzando tutte le flessibilità e tutti gli strumenti consentiti dalla disciplina sugli aiuti di Stato.

Proseguendo sul fronte del rapporto con la pubblica amministrazione, una strategia nazionale per l’economia sociale dovrebbe anche sostenere e estendere la pratica del “social responsible public procurement”, promuovendone l’utilizzo da parte sia della pubblica amministrazione centrale sia degli enti locali. La resistenza da vincere, emersa anche in relazione alle pratiche di co-programmazione e co-progettazione, è quella che porta a preferire negli appalti pubblici l’uso di prassi più tradizionali, in quanto già conosciute e consolidate, con il ricorso ancora troppo diffuso a gare di appalto al massimo ribasso, in cui la valutazione dell’offerta economica è il parametro che prevale a discapito della qualità e dell’impatto sociale.

Nell’ambito di un piano nazionale per l’economia sociale, andrebbe invece promossa un’azione capillare di informazione e formazione dei decisori pubblici e dei responsabili amministrativi per favorire la collaborazione del settore pubblico con le organizzazioni dell’economia sociale, con modalità che ne valorizzino il contributo sociale anziché penalizzarlo con parametri di scelta puramente economica. Peraltro, l’incentivazione della fornitura di beni e servizi secondo criteri di utilità sociale non riguarda soltanto la pubblica amministrazione ma può essere applicata anche al settore privato. Il piano dovrebbe quindi prevedere misure per incoraggiare il “social procurement” da parte delle imprese, e più in generale contemplare meccanismi che facilitino le partnership tra imprese tradizionali e economia sociale, e la creazione di catene del valore comuni. In un mercato unico europeo più accogliente per le organizzazioni dell’economia sociale c’è un grande potenziale per la collaborazione tra imprese ordinarie e enti dell’economia sociale, mirata allo sviluppo di pratiche imprenditoriali più responsabili e sostenibili.

Sul fronte dei finanziamenti, un piano nazionale dovrebbe dare seguito al suggerimento della Raccomandazione di realizzare una mappatura delle misure e delle strutture di finanziamento dell’economia sociale, che includa anche intermediari e organizzazioni di sostegno. Soprattutto sul lato dei finanziamenti pubblici, la frammentazione dei programmi e degli strumenti è uno degli ostacoli con cui devono confrontarsi le organizzazioni dell’economia sociale. Ed è anche di impedimento ad un efficace sinergia con i finanziamenti privati, che potrebbero essere incoraggiati da chiari meccanismi di co-finanziamento pubblico-privato. Per quanto insufficienti, i fondi disponibili nel bilancio dello Stato potrebbero avere un impatto decisamente maggiore se non fossero dispersi tra una miriade di amministrazioni, ciascuna con le sue regole di ammissione e rendicontazione, con i suoi criteri di selezione, con le sue complicazioni burocratiche. Al punto da impedirne l’effettivo utilizzo, come insegna il caso della dotazione del fondo IES – Italia Economia Sociale, che a distanza di anni è stato assorbito solo in minima parte dai soggetti potenzialmente beneficiari, ovvero le imprese e le cooperative sociali. E le cose non vanno meglio nel caso dei fondi europei: le risorse messe a disposizione dalla politica di coesione europea si presterebbero per iniziative concepite appositamente per i soggetti dell’economia sociale, ma nel caso italiano questa è un’opportunità assai poco sfruttata.

Un ultimo blocco di questioni che nel contesto italiano sono prioritarie riguarda gli aspetti della conoscenza e della visibilità dell’economia sociale, e si può tradurre in una serie articolata di iniziative. Innanzitutto, il sostegno alla formazione di competenze. Non è sufficiente riconoscere il ruolo dell’economia sociale, ma è anche essenziale alimentarne lo sviluppo favorendo la creazione di skill adeguati. La formazione va rivolta sia a chi opera nel settore, sia a chi con esso interagisce (in particolare, come si è già accennato, la pubblica amministrazione, dove la conoscenza non è ancora sufficientemente presente). Nel sistema formativo l’economia sociale è un tema del tutto assente e resta tale anche in tutte le successive fasi della vita lavorativa, quando vengono offerte opportunità di riqualificazione o miglioramento delle competenze professionali. Favorire lo sviluppo di centri di competenza per la formazione sull’economia sociale, e connetterne strettamente l’attività all’offerta sia universitaria sia nell’ambito della formazione continua, dovrebbe essere un punto qualificante di una visione a lungo termine. Altrettanto vale per le attività di ricerca scientifica e per la raccolta di statistiche e dati quantitativi e qualitativi, necessari a creare una conoscenza del settore che colmi le attuali lacune. A questo proposito è bene ricordare che la conoscenza statistica dell’economia sociale in Italia riflette la divisione tra mondo della cooperazione e terzo settore. Il tentativo di ricomporre un’immagine unitaria è stato annunciato già da qualche anno dal Ministero dell’economia e delle finanze, con un progetto di conto satellite affidato all’Istat, di cui tuttavia si sono perse le tracce. Benché il nostro paese sia in Europa uno tra quelli che hanno la migliore conoscenza statistica di singole componenti dell’economia sociale, è l’immagine d’insieme che sfugge. Con la conseguenza che anche la percezione pubblica, oltre a quella istituzionale, ne risulta indebolita.

Conclusione

In conclusione, possiamo affermare che per il nostro Paese la definizione di un piano d’azione nazionale richiede innanzitutto il riconoscimento istituzionale dell’economia sociale, ad oggi mancante, e un intervento di riordino e razionalizzazione delle tante misure che, come abbiamo visto, già potrebbero soddisfare le richieste della Raccomandazione del Consiglio europeo, rendendone effettiva l’applicazione e l’esigibilità. Questa azione dovrebbe concentrarsi su alcuni capisaldi.

Si dovrebbe riprendere quanto previsto dall’articolo 45 della Costituzione, relativamente alla funzione sociale delle cooperative, riconsegnando a tutte le forme con cui si esprime l’economia mutualistica la responsabilità di essere autenticamente imprese per le persone e per le comunità.

L’attuazione della Riforma del terzo settore va completata sia nella parte attuativa – con riferimento alle questioni che riguardano la fiscalità – sia nella parte di inquadramento, ricollocandola in una cornice che potrebbe essere appunto una legge quadro sull’economia sociale.

Serve un piano per la piena attuazione delle flessibilità consentite dalla normativa degli aiuti di Stato, definendo anche azioni concrete per rendere più efficiente la procedura per l’affidamento dei provvedimenti necessari a riconoscere gli enti dell’economia sociale che realizzano servizi ed interventi che perseguono finalità di interesse collettivo come soggetti che realizzano servizi di interesse economico generale.

È necessario incoraggiare le Regioni e gli enti locali ad approfondire la conoscenza e il ricorso a tutte le misure di flessibilità e di esenzione, già oggi disponibili, per una corretta e coerente applicazione della normativa sugli aiuti di Stato e del regolamento generale per le esenzioni (GBER), interrompendo la consuetudine di ricorrere al regolamento de minimis come scorciatoia per risolvere i dubbi sulle norme da applicare per il sostegno agli enti dell’economia sociale.

La realizzazione di queste azioni potrebbe giovarsi nell’individuazione di una funzione di coordinamento interministeriale, che aiuti a fare sintesi delle competenze distribuite, come già evidenziato, tra diversi ministeri a cui, sempre più, si interfacciano anche le competenze che riguardano il coordinamento con le politiche di coesione e i rapporti con l’Unione europea, alla luce del Piano d’azione e della Raccomandazione. Con il traguardo del 2030, ci sono tutte le condizioni per sviluppare un programma di medio periodo, che possa non solo rispondere alle attese degli enti dell’economia sociale, ma che permetta di ricollocare l’Italia nella posizione di leadership politica e culturale che discende da una tradizione secolare di umanesimo dell’economia che ne ha caratterizzato la storia – dalle Misericordie ad Adriano Olivetti, da Antonio Genovesi a Carlo Borzaga.

Bibliografia

European Commission (2021). Building an economy that works for people: an action plan for the social economy. COM(2021) 778 final.

European Commission (2023). Proposal for a Council recommendation on developing social economy framework conditions. COM(2023)316.

ILO (2022). Resolution concerning decent work and the social and solidarity economy. ILC.110/Resolution II.

OECD (2022). Recommendation on the Social and Solidarity Economy and Social Innovation.

United Nation General Assembly (2023). Promoting the social and solidarity economy for sustainable development.

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