Associazioni a base sociale diffusa, associazioni di secondo livello e reti associative: fattispecie, disciplina e questioni di governance

Relazione presentata al Convegno “La governance degli enti del terzo settore dopo la riforma”, organizzato da Luiss School of Law, LUISS Dream e Terzjus il 23 settembre 2021 presso la LUISS di Roma, e pubblicata in LUISS Law Review, n. 2/2021, p. 117 ss., in più ampio dossier sulla governance degli ETS, che raccoglie le relazioni presentate al medesimo convegno (disponibili a questo indirizzo: https://lawreview.luiss.it/ultimo-numero)

1. Introduzione: il tema in prospettiva sistematica

Sin dal suo primo manifestarsi, l’associazionismo del terzo settore si è sempre presentato in una pluralità di forme, in ciò non poco favorito dalla sostanziale assenza di vincoli normativi tanto nel codice civile (soprattutto se si pensa alle associazioni non riconosciute) quanto nella legislazione speciale.

Il legislatore della riforma del 2017 – interessato sì all’unità del terzo settore, ma non già alla sua uniformazione interna – ha inteso non solo salvaguardare la preesistente varietà dei modelli organizzativi, ma altresì promuovere e stimolare il pluralismo interno a questo mondo. Lo ha fatto in più modi. Innanzitutto prevedendo più fattispecie “tipiche” di associazioni del terzo settore, quali le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale e, per quanto qui più interessa, le reti associative (nazionali e non). Queste fattispecie soggettive costituiscono tecnicamente qualifiche (o status) particolari del terzo settore che si ottengono mediante l’iscrizione in una specifica sezione del RUNTS (sono qualifiche “particolari” in relazione a quella “generale” di ETS a cui è dedicata l’ultima sezione del RUNTS). In secondo luogo, individuando e sottoponendo a disposizioni particolari alcune tipologie associative, quali quelle che qui chiamo associazioni “a base sociale diffusa” ed associazioni “di secondo (o ulteriore) livello”.

Sottolineo subito, pertanto, che le tre fattispecie soggettive esaminate in questa relazione, essendo individuate sulla base di criteri di natura diversa (il numero degli associati, la natura giuridica degli associati, l’attività di interesse generale svolta, ecc.), non sono tra loro alternative, ben potendo accadere che una medesima associazione rientri in ognuna di esse. Ad esempio, un’associazione con la qualifica di rete associativa potrebbe anche essere un’associazione a base sociale diffusa e un’associazione di secondo livello. D’altra parte, un’associazione del terzo settore a base sociale diffusa e di secondo livello non necessariamente dovrà anche essere rete associativa, poiché quest’ultima, come già si è sottolineato, costituisce una qualifica opzionale che consegue all’iscrizione dell’associazione (in possesso dei necessari requisiti di qualificazione) nell’apposita sezione “e” del RUNTS.

Prima di entrare nel dettaglio degli elementi essenziali di ciascuna delle tre fattispecie esaminate e della loro disciplina, e di soffermarsi su alcune questioni da loro poste in termini di governance, vorrei svolgere tre osservazioni generali di natura sistematica, che il tema e i contenuti della relazione da un lato richiedono dall’altro stimolano.

Primo. Nella “scarna” disciplina del primo libro del codice civile ovviamente non si presta alcuna attenzione a specifiche tipologie associative (così come anche fondazionali) emergenti dalla prassi. L’associazione è un tipo monolitico e la sua disciplina prescinde da elementi di fatto quali, non solo l’attività svolta e le finalità concretamente perseguite, ma anche il numero e la natura degli associati. Così, tanto le piccole quanto le grandi associazioni sono sottoposte alle medesime regole, così come lo sono le associazioni composte da persone fisiche e quelle composte da enti e persone giuridiche. Com’è evidente, la situazione si presenta in modo molto diverso nel libro V del codice civile, dove in materia di società, una pluralità di tipi, sottotipi e tipologie contribuisce ad articolare e differenziare la disciplina tenendo conto di numerosi modelli socio-economici di riferimento.

Gli enti giuridici del primo libro del codice civile condividono dunque, anche se per ragioni diverse, la medesima astrattezza che nello stesso contesto normativo caratterizza le persone fisiche. Da qui l’assenza di una disciplina tarata sulle concrete caratteristiche dell’associazione, ovvero la presenza di una disciplina basata su un unico modello socio-economico di associazione. L’unica distinzione presente, quella tra associazioni riconosciute e non riconosciute, si fonda sul criterio formale del possesso della personalità giuridica. Il suo obiettivo originario, peraltro, non era quello di riservare un trattamento differenziato a modelli associativi tra loro diversi, bensì soltanto di giustificare i penetranti limiti all’autonomia privata e i controlli pubblici previsti per le associazioni riconosciute a fronte del riconoscimento di una capacità giuridica più ampia. Una giustificazione che, a seguito della sopravvenuta equiparazione normativa tra associazioni riconosciute e non riconosciute sotto il profilo della capacità giuridica, non trova più alcun fondamento.

Con il Codice del terzo settore (“CTS”), sull’onda peraltro della precedente legislazione “speciale” rispetto al codice civile, si realizza un deciso e (forse) definitivo mutamento di prospettiva.

Smarrisce innanzitutto importanza la personalità giuridica, perché la disciplina applicabile alle associazioni del terzo settore (rectius, la disciplina applicabile alle associazioni affinché possano assumere la qualifica di associazioni del terzo settore), anche per ciò che concerne il profilo dei controlli (sul rispetto della normativa attributiva dello status di ente del terzo settore), è la medesima indipendentemente dal possesso della personalità (che peraltro può acquisirsi ex art. 22 CTS in maniera semplificata rispetto a quanto ordinariamente stabilito dal d.P.R. 361/2000). Nella prospettiva del Codice del terzo settore, la personalità giuridica è foriera esclusivamente dell’autonomia patrimoniale perfetta (art. 22, ult. co., CTS). Il che si pone in linea, del resto, con quanto per lo più avviene negli altri ordinamenti giuridici europei, dove la personalità giuridica non costituisce concetto autonomo rispetto alla capacità giuridica, ma finisce per coincidere con quest’ultima. Mentre nei paesi, come la Francia, dove il concetto di personalità esiste ed è distinto da quello di capacità, esso trova ancora ragion d’essere proprio perché destinato ad influenzare la capacità giuridica delle associazioni (solo le associazioni munite di personalità hanno infatti la “grande” capacità giuridica).

In secondo luogo, nella nuova disciplina del terzo settore, anche le tipologie interne al tipo acquisiscono dignità giuridica, essendo destinatarie di norme ad hoc, come avviene nel caso delle associazioni a base sociale diffusa e di quelle di secondo (o ulteriore) livello, delle quali si occupa questa relazione.

Secondo. Si è osservato da più parti in dottrina (in particolare da Carlo Ibba) come i numerosi rinvii al libro V del codice civile contenuti nel Codice del terzo settore introducano un processo di “societarizzazione” di enti che non necessariamente hanno natura imprenditoriale. Al di là del fatto che, almeno per quanto riguarda la governance delle associazioni del terzo settore, dovrebbe forse parlarsi più di “cooperativizzazione” che genericamente di “societarizzazione”, questo fenomeno trova ragione nella circostanza che molte soluzioni legislative a questioni concrete già individuate nel libro V del codice civile possono benissimo applicarsi al di fuori del campo di imprese e società, e dunque anche ad enti non societari, esercenti o meno un’attività d’impresa. Non sono dunque d’accordo con chi ha sostenuto, anche di recente (come Antonio Cetra), che la disciplina delle società, essendo pensata per enti con finalità lucrative, sia inadeguata a disciplinare enti senza scopo di lucro o non imprenditoriali. Il legislatore della riforma del terzo settore non ha dunque avvertito l’esigenza di inventare alcunché di nuovo, e per risolvere una determinata questione di disciplina ha potuto limitarsi a fare rinvio a disposizioni già esistenti, ancorché dettate in materia di società.

Emerge così, verrebbe da dire, un diritto delle organizzazioni che oltrepassa i confini tra primo e quinto libro del codice civile, così come tra attività d’impresa ed attività diverse, e conseguentemente tra diritto civile e diritto commerciale. Nel disciplinare in un unico contesto tutti i tipi di organizzazioni, dalle società alle associazioni, dalle cooperative alle fondazioni, il Codice belga del 2019 dimostra come l’edificazione di un diritto organico e complessivo delle organizzazioni sia possibile. Del resto, molte leggi speciali italiane, non solo quella sul terzo settore, col loro carattere transtipico o sovratipico, si muovono già in questa direzione. È chiaro che nel nostro ordinamento la presenza del codice civile impedirà l’emanazione di un codice come quello belga, ma ciò non toglie che, al di là delle questioni topografiche, il diritto delle organizzazioni possa sempre più essere studiato ed interpretato come un insieme unitario, attenuando così sorprese e timori riguardo a presunti processi di “societarizzazione” di enti non societari e non imprenditoriali.

Se il diritto delle organizzazioni si evolvesse come sistema normativo unitario, perderebbe ancora più peso la nozione classica di impresa (quella di cui all’art. 2082 c.c.), peraltro già in crisi per diverse ragioni. È la produzione di beni o servizi, a prescindere non solo dal lucro oggettivo ma anche dall’economicità (per lo meno, se intesa in senso classico), l’attività che richiede attenzione legislativa per gli interessi che coinvolge ed espone a rischio, non solo dei creditori ma anche dei donatori, non solo dei lavoratori ma anche dei volontari, non solo degli utenti ma anche dei beneficiari.

Se non fosse più l’impresa ex art. 2082 c.c. al centro di specifici provvedimenti legislativi, bensì l’attività produttiva, imprenditoriale o erogativa che essa sia, allora molti istituti e discipline originariamente destinate all’impresa (in senso stretto) potrebbero proficuamente estendersi all’attività economica (anche erogativa), trovando così applicazione anche nell’ambito del terzo settore. Si pensi ad esempio, all’art. 9, l. 192/1998 sul divieto di abuso di dipendenza economica, i cui presupposti e la cui ratio ben possono ricorrere e comprendersi anche nei rapporti tra enti non imprenditoriali.

Da questo punto di vista, non è vero che, per associazioni e fondazioni, il codice civile abbia perso peso in favore del Codice del terzo settore, ma è vero forse il contrario, solo che l’asse si è spostato sul quinto libro (come ha sottolineato Gian Domenico Mosco).

Terzo. La recente riforma dello sport ha dimostrato la capacità dei principi di disciplina del terzo settore di propagarsi oltre il terzo settore stesso, andando sempre più a circoscrivere e ridurre l’area delle associazioni “ordinarie”, costituite esclusivamente ai sensi del codice civile. L’esempio più evidente è rappresentato dal procedimento di acquisizione della personalità giuridica, previsto per gli enti sportivi dilettantistici secondo modalità identiche a quelle di cui all’art. 22 CTS, salvo che per l’assenza del requisito patrimoniale minimo (di 15.000 €), un elemento, quest’ultimo, che contribuisce ancor di più alla vaporizzazione del concetto stesso.

Svolte queste permesse sistematiche, presentiamo e discutiamo le tre fattispecie associative oggetto della relazione. È opportuno sottolineare che i profili di governance svolgono un ruolo decisivo nel dar corpo a queste figure.

2. Le associazioni a base sociale diffusa

Quelle che ho chiamato associazioni “a base sociale diffusa” sono le associazioni del terzo settore che hanno “un numero di associati non inferiore a cinquecento”.

Nel Codice del terzo settore, a queste associazioni del terzo settore sono dedicate le seguenti disposizioni particolari:

a) a meno che lo statuto non preveda diversamente, ciascun loro associato può rappresentare in assemblea sino a cinque altri associati, e non già sino ad un massimo di tre, come invece avviene nelle associazioni di minori dimensioni (art. 24, comma 3);

b) in luogo dell’assemblea generale di tutti gli associati, lo statuto può prevedere la costituzione e lo svolgimento di assemblee separate, che saranno disciplinate ai sensi dell’art. 2540, commi 3-6, c.c. (art. 24, comma 5);

c) lo statuto può individuare le competenze dell’assemblea in deroga a quanto previsto, per tutte le altre associazioni, dall’art. 25, comma 1, purché “nel rispetto dei principi di democraticità, pari opportunità ed eguaglianza di tutti gli associati e di elettività delle cariche sociali” (art. 25, comma 2);

d) a differenza che nelle altre associazioni, in cui è ciascun associato ad avere tale potere, per un’efficace denunzia all’organo di controllo, ove presente, occorre l’iniziativa di almeno un decimo degli associati (art. 29, comma 2).

Da questo gruppo di norme loro dedicate emerge come la tipologia delle associazioni a base sociale diffusa sia individuata esclusivamente sulla base di un dato numerico, ovverosia il numero minimo di cinquecento associati.

Ai fini del computo del numero minimo non rilevano le caratteristiche degli associati, sicché essi potrebbero indifferentemente essere persone fisiche oppure enti e persone giuridiche (non necessariamente con la qualifica di enti del terzo settore). Di conseguenza, potrebbe essere associazione a base sociale diffusa tanto un’associazione di primo livello quanto un’associazione di secondo livello e tra queste ultime una rete associativa.

In linea di principio, un’associazione a base sociale diffusa potrebbe trovarsi iscritta in una qualsiasi sezione del RUNTS (ad eccezione, forse, di quella riservata alle SoMS che sono “società”), potendo dunque avere o lo status particolare di ODV, APS, Ente filantropico, Rete associativa o Impresa sociale, oppure lo status generale di ETS iscritto nell’ultima sezione del RUNTS. Pertanto, compatibilmente con la loro disciplina particolare, anche le associazioni “tipiche” del terzo settore (ad es. le ODV) potrebbero essere destinatarie degli articoli 24, comma 3, 24, comma 5, 25, comma 2, e 29, comma 2, CTS. Ciò per effetto di quanto stabilito in via generale dall’art. 3, comma 1, e dall’art. 20 CTS, nonché, per quanto riguarda le associazioni con la qualifica di imprese sociali, dall’art. 1, comma 5, d.lgs. 112/2017.

La qualifica di associazione a base sociale diffusa non ha carattere “statico” poiché dipende da un elemento “dinamico” da accertarsi diacronicamente, cioè il numero degli associati. Assume a tal fine rilievo, anche per scopi di controllo pubblico, il libro degli associati che tutti gli ETS devono tenere ai sensi dell’art. 15, comma 1, CTS. È chiaro che nel computo del minimo potranno farsi rientrare solo coloro che sono tecnicamente “associati”, e non anche figure soggettive (come quelle dei “tesserati” o degli “aderenti”) che nella prassi gravitano attorno a certe associazioni ma potrebbero non avere questo status (il cui elemento indefettibile è il diritto di voto in assemblea).

È chiaro che le disposizioni sopra menzionate saranno applicabili alle associazioni a base sociale diffusa soltanto in presenza del numero minimo di cinquecento associati, sicché il venir meno di questo numero minimo comporta immediatamente, sin dal momento del suo verificarsi, l’impossibilità di applicare ulteriormente queste norme. L’estensione analogica della disciplina di cui agli articoli 32, comma 1-bis, e 35, comma 1-bis, CTS, sarebbe in questo caso improponibile stante la sostanziale diversità delle fattispecie regolate.

Delle quattro norme loro dedicate, due sono automaticamente applicabili alle associazioni a base sociale diffusa, anche in mancanza di apposite disposizioni statutarie (gli statuti, semmai, non devono disporre nulla di diverso o contrario), ovverosia gli articoli 24, comma 3, e 29, comma 2, CTS. Le altre due devono invece trovare fondamento nello statuto. Ne consegue che le associazioni con più di cinquecento associati non possono direttamente avvalersi delle opzioni di cui agli articoli 24, comma 5, e 25, comma 2, CTS, in assenza di disposizioni statutarie che regolino la costituzione e il funzionamento delle assemblee separate e le competenze dell’assemblea in deroga al regime ordinario. Da qui due possibili ipotesi: o gli statuti già dispongono in merito a queste circostanze (anche in via eventuale) oppure devono essere modificati per tenerne conto.

3. Le associazioni di secondo livello

La tipologia delle associazioni di secondo livello può enuclearsi sulla base di una serie di specifiche disposizioni del CTS in cui si fa riferimento ad associati con la natura di enti giuridici. Occorre tuttavia sottolineare che il Codice del terzo settore in generale non impedisce ad un ente con la qualifica di ETS di avere la propria base sociale formata sia da persone fisiche sia da enti e persone giuridiche, sicché l’associazione di secondo livello “pura” in linea di principio non è prevista dalla legge, anche se essa potrebbe ovviamente configurarsi per scelta statutaria (là dove lo statuto limiti la partecipazione agli enti giuridici o escluda la partecipazione di persone fisiche).

Le norme in questione sono le seguenti:

a) l’art. 24, comma 2, là dove prevede che per statuto sia possibile attribuire più voti in assemblea, sino ad un massimo di cinque (ed in proporzione al numero dei loro associati o aderenti), agli associati che siano enti del terzo settore;

b) l’art. 26, comma 2, là dove fa riferimento all’indicazione da parte degli enti giuridici associati degli amministratori da scegliersi in misura quanto meno maggioritaria (rispetto ad amministratori eventualmente individuati in modo diverso);

c) l’art. 26, comma 5, che, fatta salva la nomina maggioritaria da parte dell’assemblea, consente allo statuto di attribuire ad ETS, enti senza scopo di lucro, enti religiosi civilmente riconosciuti (nonché a lavoratori o utenti dell’ente), la nomina (extra-assembleare) di uno o più amministratori, anche se in verità questa disposizione può applicarsi tanto ad enti associati quanto ad enti non associati all’ente del terzo settore il cui statuto tale facoltà di nomina preveda.

Anche nella disciplina particolare di ODV e APS si fa implicito riferimento ad ODV ed APS di secondo livello.

Così è quando si richiede per la costituzione di una ODV la presenza di un numero non inferiore a tre ODV (art. 32, comma 1), e allorché si consente che l’ODV possa assolvere l’onere di avvalersi in modo prevalente del volontariato o impiegando propri associati oppure persone aderenti agli enti associati (art. 32, comma 1). Disposizioni, queste ultime, presenti anche nella disciplina delle APS (art. 35, comma 1).

Associazioni del terzo settore necessariamente di secondo livello (sicuramente non di primo, né, a ben vedere, di terzo o ulteriore livello) devono essere quelle che aspirano all’accreditamento come CSV, e che, una volta ottenuto tale accreditamento, intendano mantenerlo. I profili di governance che interessano questo gruppo (molto ristretto) di associazioni del terzo settore sono molto particolari e specifici, poiché l’accreditamento di un’associazione come CSV presuppone ed esige il rispetto di una serie di vincoli che influenzano la governance dell’ente in maniera sostanziale. Evito pertanto di trattare in questa relazione di questa fattispecie associativa e delle numerose questioni che essa solleva (rinvio l’approfondimento ad altra occasione).

4. Le reti associative

Come si è già cercato di spiegare, le reti associative si pongono su un livello diverso rispetto alle figure soggettive sin qui esaminate, poiché non costituiscono una mera tipologia associativa riconosciuta dal legislatore del terzo settore, ma uno status particolare del nuovo terzo settore in ragione della specifica attività di interesse generale svolta (che è l’assistenza, rappresentanza e tutela degli ETS associati o aderenti). Di conseguenza, alle reti associative è dedicata una sezione del RUNTS, in cui esse si iscrivono secondo regole particolari individuate dal d.m. 106/2020.

Più precisamente, la qualifica di rete associativa può conseguirsi da un ente che:

– abbia la forma giuridica di associazione, con o senza personalità giuridica;

– svolga, anche in via non esclusiva (sebbene, a nostro avviso, quanto meno in via prevalente), “attività di coordinamento, tutela, rappresentanza, promozione o supporto degli enti del Terzo settore loro associati e delle loro attività di interesse generale, anche allo scopo di promuoverne ed accrescerne la rappresentatività presso i soggetti istituzionali” (art. 41, comma 1, lett. b);

– associ, “anche indirettamente attraverso gli enti ad esse aderenti, un numero non inferiore a cento enti del Terzo settore, o, in alternativa, almeno venti fondazioni del Terzo settore, le cui sedi legali o operative siano presenti in almeno cinque regioni o province autonome” (art. 41, comma 1, lett. a); oppure “un numero non inferiore a cinquecento enti del Terzo settore o, in alternativa, almeno cento fondazioni del Terzo settore, le cui sedi legali o operative siano presenti in almeno dieci regioni o province autonome”, nel qual ultimo caso la rete associativa è ulteriormente qualificata come “nazionale” (art. 41, comma 2);

– s’iscriva nell’apposita sezione del RUNTS dedicata alla reti associative (la sezione “e”, sulla quale esercita la propria competenza esclusiva l’Ufficio statale del RUNTS, istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali), anche se è consentita alle reti associative (in presenza dei necessari requisiti) l’iscrizione in un’ulteriore sezione del RUNTS.

Sotto il profilo qualificatorio, si pone la questione di come debba apprezzarsi la consistenza minima della rete, ed in particolare se nel numero minimo necessario affinché possa aversi rete associativa debbano computarsi soltanto gli enti del terzo settore associati alla rete.

Nonostante l’art. 41 parli di una rete che “associa”, il suo riferirsi ad un possibile associare “in via indiretta, attraverso gli enti aderenti” porta a ritenere che nel numero minimo possano rientrare tanto enti associati in senso stretto alla rete, e dunque iscritti nel suo libro degli associati, quanto enti che ad essa non siano associati. Per questi ultimi enti, v’è però da comprendere se essi debbano quanto meno essere associati ad un ente associato alla rete. La legge parla di associare in via indiretta, attraverso gli enti “aderenti” e non già “associati”, sicché tale condizione parrebbe non necessaria, anche se ovviamente, così argomentando, l’ipotesi della “associazione in via indiretta” finirebbe per smarrire il proprio significato (infatti, se un ente del terzo settore aderisce ad una rete associativa in forza di un autonomo rapporto di adesione o affiliazione con la rete, che rilevanza assume l’eventuale circostanza che questo ente aderisca ad un ente a suo volta aderente alla medesima rete?).

Di conseguenza, l’art. 41 CTS, nel qualificare una rete associativa, richiede un numero minimo di “adesioni”, che non necessariamente postulano un rapporto associativo in senso stretto e che da esso, qualora sussistente, non conseguono in maniera automatica. Da un lato, dunque, aderire ad una rete non vuol dire associarsi ad essa. Dall’altro lato, associarsi ad una rete non implica automaticamente aderire alla medesima.

Quanto sopra risulta confermato dalla disciplina delle reti associative contenuta nel d.m. 106/2020 sul funzionamento del RUNTS.

Tale decreto prevede che ciascun ente che s’iscrive al RUNTS possa, “in caso di affiliazione ad una rete associativa”, allegare alla domanda di iscrizione “una attestazione di adesione alla medesima” (art. 8, comma 5, lett. d), d.m. 106/2020).

Dall’altra parte, nell’istanza di iscrizione al RUNTS presentata da una rete associativa (rectius, da un ente che aspira alla qualifica di rete associativa) devono tra l’altro essere indicati “i riferimenti degli ETS aderenti, anche in via indiretta, in modo tale da soddisfare il requisito numerico e territoriale di cui di cui all’articolo 41 comma 1 lettera a) o di cui all’articolo 41 comma 2 del Codice” (art. 10, comma 2, lett. a), d.m. 106/2020).

Peraltro, come si precisa nello stesso decreto, “il numero degli enti aderenti, anche in via indiretta, sarà verificato dal sistema informatico del Registro attraverso il conteggio univoco dei codici fiscali degli enti che hanno dichiarato l’affiliazione alla rete associativa o ad un ente ad essa aderente, ciascuno considerato una sola volta nell’ambito della singola rete” (art. 10, comma 2, lett. a), d.m. 106/2020).

Insomma, quel che conta è che vi sia un (non meglio definito dalla normativa) rapporto di adesione alla rete o di affiliazione alla rete, laddove non assume rilievo il rapporto associativo, né diretto né indiretto, potendo peraltro darsi (come il d.m. 106/2020 più volte sottolinea) un’adesione o affiliazione plurima di un ente del terzo settore a più reti associative, sulla cui opportunità vi sarebbe molto da discutere.

La svalutazione del rapporto associativo ai fini della configurazione giuridica della rete associativa, operata dal d.m. 106/2020 sulla base di una certa interpretazione dell’art. 41, comma 1, lett. a), CTS, e la possibilità di adesioni/affiliazioni multiple, potrebbe dar vita ad un “mercato” delle affiliazioni e delle relative attestazioni di adesione al RUNTS.

Sempre per effetto del suddetto orientamento interpretativo, si amplia l’autonomia organizzativa delle reti associative, nel senso che affinché un ente ottenga questa qualifica è sufficiente che abbia la forma giuridica di associazione (riconosciuta o non riconosciuta), non rilevando la composizione della sua base associativa, che potrebbe essere la più varia. Accanto ad enti del terzo settore (la cui presenza necessaria deriva dal disposto dell’art. 41, comma 1, lett. b), CTS, là dove fa riferimento ad enti del terzo settore “associati”) potrebbero così figurare enti che non sono del terzo settore e financo persone fisiche (occorre al riguardo precisare che non sono reti associative, ma sono soltanto a certi fini equiparate alle reti associative, quelle associazioni di cui parla l’art. 41, comma 2, CTS, ovvero le associazioni del terzo settore formate da un numero non inferiore a centomila persone fisiche associate e con sedi in almeno dieci regioni o provincie autonome).

Alla luce di quanto rilevato, ci sembra di poter dire che l’aspetto da ultimo esaminato richieda un intervento normativo di chiarificazione al fine di evitare che la qualifica di rete associativa finisca per essere troppo evanescente e perciò esposta ad usi impropri ed abusivi, ciò che non potrebbe che riflettersi negativamente sull’immagine complessiva del terzo settore e dei suoi enti.

Non essendovi necessaria corrispondenza tra rapporto di adesione o affiliazione alla rete e rapporto associativo con la rete, non necessariamente le reti associative (incluse quelle nazionali) rientreranno nelle tipologie associative precedentemente esaminate.

Una rete associativa sarà associazione a base sociale diffusa solo qualora abbia almeno cinquecento enti del terzo settore associati (aderenti o non aderenti che siano) e non anche qualora abbia cinquecento enti del terzo settore ad essa aderenti ma non tutti associati. Da qui la (solo) potenziale applicabilità alle reti associative degli articoli 24, comma 3, 24, comma 5, 25, comma 2, e 29, comma 2, CTS.

Dovendo in ogni caso associare enti del terzo settore, una rete associativa sarà comunque un’associazione di secondo livello anche se non necessariamente in via esclusiva (abbiamo infatti detto che in linea di principio essa potrebbe anche associare persone fisiche). Da qui l’applicabilità alle reti associative degli articoli 24, comma 2, 26, comma 2, e 26, comma 5, CTS.

Ciò precisato, vi sono tuttavia alcune disposizioni normative direttamente applicabili alle associazioni con la qualifica di reti associative (ovvero iscritte nella sezione “e” del RUNTS) che non solo consentono di poter comunque applicare loro le soluzioni organizzative già previste per le associazioni a base sociale diffusa e per le associazioni di secondo livello, ma che finiscono per rendere la loro governance financo più elastica e flessibile.

Alle reti associative sono infatti rivolte le disposizioni di cui ai commi 7-10 dell’art. 41 CTS. Esse conferiscono alle reti il potere di derogare ad alcune regole di governance applicabili alle altre associazioni del terzo settore ed in termini generali piena autonomia nel definire la propria struttura di governance interna purché nel rispetto di alcuni principi generali.

Venendo prima alle disposizioni particolari (quelle di cui ai commi 8-10):

a) gli atti costitutivi o gli statuti delle reti associative possono disciplinare il diritto di voto degli associati in assemblea anche in deroga a quanto stabilito dall’articolo 24, comma 2, CTS, e pertanto non solo differenziare il potere di voto tra gli associati, ma anche attribuire ad alcuni di loro più di cinque voti. Nell’ambito del potere di deroga statutaria dovrebbe rientrare anche la scelta del criterio di attribuzione del voto plurimo, che in linea di principio potrebbe dunque essere diverso da quello rappresentato dal numero di associati o aderenti;

b) gli atti costitutivi o gli statuti delle reti associative possono disciplinare le modalità e i limiti delle deleghe di voto in assemblea anche in deroga a quanto stabilito dall’articolo 24, comma 3, CTS, e pertanto consentire non solo la delega a non associati, ma altresì che un delegato possa rappresentare più di cinque associati;

c) gli atti costitutivi o gli statuti delle reti associative possono disciplinare le competenze dell’assemblea degli associati anche in deroga a quanto stabilito dall’articolo 25, comma 1, CTS, e pertanto attribuire ad altri organi associativi i poteri decisionali relativi ad uno o più degli oggetti ordinariamente rientranti nella competenza inderogabile dell’assemblea degli associati.

Queste disposizioni specifiche sono precedute da una disposizione di carattere generale (al comma 7) secondo cui: “gli atti costitutivi o gli statuti disciplinano l’ordinamento interno, la struttura di governo e la composizione e il funzionamento degli organi sociali delle reti associative nel rispetto dei principi di democraticità, pari opportunità ed eguaglianza di tutti gli associati e di elettività delle cariche sociali”.

Dal quadro surriferito emergono alcune questioni fondamentali:

– la prima è se il comma 7 regoli esclusivamente l’esercizio delle facoltà di deroga statutaria di cui ai commi 8-10 (voto plurimo, deleghe di voto e competenze dell’assemblea) oppure sia una disposizione generale applicabile anche ad aspetti ulteriori. Se la seconda risposta è corretta, le facoltà di deroga di cui ai commi 8-10 non sarebbero le uniche riconoscibili alle reti associative. In linea di principio, l’autonomia statutaria delle reti associative non sarebbe limitata agli aspetti di cui ai commi 8-10, ma riguarderebbe la governance complessiva dell’ente;

– la seconda è come dare contenuto e concretezza ai principi-limite dell’ampia autonomia statutaria delle reti, tenendo conto da un lato dell’esigenza di individuare comunque un nucleo minimo inderogabile di norme, dall’altro di evitare interpretazioni eccessivamente restrittive dell’autonomia statutaria.

Provo qui ad individuare alcuni criteri interpretativi che reputo utili ai superiori fini.

Innanzitutto, le reti associative che vogliano anche ottenere un’altra qualifica del terzo settore (in particolare quella di ODV o di APS), devono sottostare alle norme specifiche di tale qualifica: qui non v’è possibilità di deroga. Per fare solo un esempio, una rete associativa ODV (associazione iscritta sia nella sezione “e” sia nella sezione “a” del RUNTS) dovrà (ex art. 34, comma 1, CTS) avere tutti gli amministratori associati o indicati dagli enti associati tra i propri associati. Non saranno dunque ammissibili amministratori “esterni”. Qui la disposizione del comma 7 non può generare un risultato diverso.

In secondo luogo, l’interpretazione ed applicazione di questi principi non dovrebbe condurre a ritenere applicabili regole più restrittive di quelle contemplate in specifiche disposizioni del CTS (dunque già valutate come compatibili con la “democraticità, parità di trattamento, ecc.” dal legislatore), ma semmai a legittimare soluzioni statutarie più liberali. Ad esempio, se in una rete associativa, in ragione di quanto disposto dall’art. 25, comma 2, la previsione statutaria di nomina extra-assembleare di una minoranza di amministratori è sicuramente legittima, a che conclusioni giungere, invece, se la nomina extra-assembleare riguardasse una maggioranza di amministratori? Sarebbe violato il principio di democraticità? L’art. 25, comma 2, sembra ammettere una deroga soltanto per le associazioni a base sociale diffusa, e non già anche per le reti, che come abbiamo spiegato potrebbero non essere tali. Ma il criterio interpretativo che propongo, se ha un senso, dovrebbe consentirlo, a condizione che la nomina degli amministratori sia effettuata da un organo riconducibile all’assemblea, come nel sistema dualistico che comprensibilmente vige già in molte reti associative di rilevanti dimensioni numeriche e territoriali.

In terzo luogo, bisogna sforzarsi di declinare questi principi per individuare limiti ragionevoli alla facoltà di deroga. Ad esempio, con riguardo alla democraticità in rapporto all’art. 25, comma 1, se da un lato dovrebbe ritenersi consentito lo spostamento di alcune competenze ad un organo superiore in un sistema di tipo dualistico, non credo però che questa facoltà possa estendersi a tutte le materie, svuotando così l’assemblea di ogni potere, ad eccezione della nomina e revoca dei componenti dell’organo di livello superiore (tanto meno qualora la rete associativa non abbia, come pure è possibile, una base sociale diffusa).

Sempre con riferimento all’art. 25, comma 1, CTS, occorre poi chiedersi se siano attribuibili ad organi diversi dall’assemblea materie come l’approvazione del bilancio e le modifiche statutarie (quanto meno alcune), mentre le operazioni straordinarie come la trasformazione difficilmente potrebbero attribuirsi ad altro organo, tanto meno lo scioglimento, la migrazione (cioè il cambio di sezione del RUNTS) e la cancellazione dell’ente dal RUNTS.

Un altro profilo problematico è quello che riguarda non proprio le reti-soggetto, cioè gli enti che hanno la qualifica di reti associative essendo iscritti nella sezione “e” del RUNTS, bensì le cc.dd. articolazioni territoriali delle reti (ad es. i cosiddetti “comitati regionali”), ovverosia quegli enti che, secondo il modello vuoi delle associazioni parallele vuoi di quelle complesse, attuano a livello locale gli scopi della rete-soggetto, della cui struttura organizzativa fanno parte, nella misura in cui la loro esistenza e funzione sono contemplati nello statuto della rete-soggetto (che potrebbe financo disciplinarne nel dettaglio ordinamento ed amministrazione, al punto da rendere superfluo uno statuto autonomo dell’articolazione territoriale, come ammette il Ministero del lavoro nella circolare n. 2 del 5 marzo 2021).

Questa fattispecie ha in passato dato vita ad una querelle che oggi, quanto meno per ciò che riguarda gli enti del terzo settore, può forse dirsi superata in virtù del vigente regime pubblicitario basato sul RUNTS.

Il tema era se le articolazioni territoriali rispondessero verso i terzi delle proprie obbligazioni a titolo esclusivo o se i terzi creditori potessero agire anche contro l’associazione di vertice. Oggi, grazie al RUNTS, si sa quali articolazioni hanno soggettività giuridica autonoma, perché le articolazioni, se intendono qualificarsi come enti del terzo settore (non v’è infatti alcun obbligo in tal senso), devono autonomamente iscriversi nel RUNTS (in una delle sue sezioni).

Rimane tuttavia in discussione il profilo dell’autonomia sostanziale che può essere fortemente compressa dallo statuto dell’associazione di vertice, cioè della rete associativa. V’è allora da domandarsi se possa qui esservi spazio per l’applicazione (analogica o diretta ex art. 3, comma 2, CTS) dell’art. 2497 c.c. nei rapporti con i terzi e per l’applicazione (analogica) dell’art. 9 della l. 192/1998 nei rapporti interni tra rete ed articolazione territoriale.

Dall’altra parte, gli enti che fungono da articolazioni territoriali di una rete hanno, proprio in ragione dell’appartenenza ad una rete, un’autonomia statutaria più ampia degli altri ETS, soprattutto per quanto riguarda la governance.

Il Ministero del lavoro, infatti, nella circolare n. 2 del 5 marzo 2021, ha affermato che gli articoli 41, co. 7-10, si applicano anche a loro (nonostante tecnicamente non siano reti associative ovvero enti iscritti nella sezione “e” del RUNTS), anche se non in termini generali, ma soltanto “nella misura in cui detta facoltà sia funzionale alla formazione della rappresentanza all’interno del livello più elevato della rete medesima e a concorrere alla costruzione dell’articolazione organizzativa della rete; a condizione, inoltre, che tale facoltà sia espressamente contemplata nello statuto del soggetto qualificato come rete associativa”. Comprendere i limiti entro i quali tale facoltà possa essere legittimamente esercitata dagli enti che fungano da articolazioni territoriali di una rete associativa è un’altra delle sfide interpretative che il nuovo diritto del terzo settore pone a studiosi ed operatori.

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