articolo di Valentino Santoni pubblicato in Percorsi di Secondo Welfare del 29 giugno 2022
Sono sempre di più le imprese che promuovono e organizzano attività di volontariato per i propri dipendenti durante l’orario di lavoro. Per questo Terzjus, in collaborazione con Eudaimon e Fondazione Roche, ha promosso una ricerca per capire le opportunità che questo strumento offre all’organizzazione, ai suoi collaboratori e al Terzo Settore.
Donare il proprio tempo a un’associazione del Terzo Settore anche durante l’orario di lavoro è possibile. È l’obiettivo del volontariato d’impresa, una pratica attraverso cui un’impresa incoraggia, supporta e – in molti casi – organizza la partecipazione dei propri lavoratori ad attività di organizzazioni non profit. Il tutto proprio durante l’orario lavorativo.
Questo strumento produce un impatto per l’azienda, i lavoratori e le organizzazioni non profit. Queste ultime possono infatti contare sul coinvolgimento di un numero maggiore di volontari per portare avanti i loro scopi sociali. I dipendenti delle organizzazioni che investono nel volontariato d’impresa hanno, invece, la possibilità di apprendere nuove competenze, mettersi in gioco e – al tempo stesso – sostenere delle organizzazioni del Terzo Settore. Cosa che spesso fanno al di fuori dell’orario di lavoro: secondo un recente report pubblicato da Istat, CSVnet e Fondazione Volontariato e Partecipazione, nel nostro Paese ci sono infatti oltre 6,6 milioni di volontari.
Cogliendo l’occasione della pubblicazione di una recente ricerca s curata da Terzjus, Fondazione Roche e Eudaimon, di seguito andiamo ad approfondire questo argomento.
Come funziona il volontariato d’impresa
Come accade anche per il welfare aziendale, il volontariato d’impresa offre un duplice vantaggio all’impresa che lo incoraggia. Da un lato è uno strumento utile per migliorare il clima aziendale e il rapporto con i collaboratori, dall’altro consente di avere dei vantaggi di natura fiscale.
Da questo punto di vista, il volontariato d’impresa è infatti una forma di erogazione liberale fatta dall’azienda verso una organizzazione di Terzo Settore con qualifica di Onlus. In merito, l’art. 100 del TUIR – a cui si fa riferimento anche quando si parla di welfare aziendale – consente all’azienda di dedurre nel limite del 5 per mille le spese relative all’impiego di lavoratori dipendenti per prestazioni di servizi erogate a favore di Onlus.
E la Riforma del Terzo Settore prevede nuove opportunità su questo fronte. Se, ad oggi, le agevolazioni fiscali si applicano solo nel caso in cui i lavoratori sono coinvolti in percorsi di volontariato all’interno di organizzazioni senza fine di lucro, Onlus appunto, in futuro potranno essere ricompresi tutti gli Enti del Terzo Settore di natura non commerciale.
La completa applicazione della Riforma, consentirà dunque alle imprese di poter “prestare” i propri dipendenti agli ETS senza rinunciare ai vantaggi fiscali del TUIR. L’unico vincolo previsto riguarda il fatto che i dipendenti che svolgono le attività di volontariato durante l’orario di lavoro abbiano un contratto a tempo indeterminato.
Quanto è diffuso il volontariato d’impresa
Anche per queste ragioni, la pratica del volontariato d’impresa pare essere sempre più diffusa, sia a livello nazionale che internazionale.
Secondo uno studio condotto nel 2009 dal Boston College Center for Corporate Citizenship sulle imprese statunitensi più grandi e rilevanti, 9 big company su 10 hanno avviato programmi formali di volontariato aziendale o hanno devoluto donazioni in favore di charity (associazioni benefiche e senza scopo di lucro) e realtà del Terzo Settore.
Anche in Italia il trend sembra positivo. Lo mostra l’indagine realizzata da Fondazione Sodalitas e GfK Italia che ha coinvolto un campione di aziende italiane di diverse dimensioni, rappresentative di oltre il 9% del PIL e di 255.000 dipendenti. Dallo studio emerge che oltre il 61% delle aziende del nostro Paese promuove attività di volontariato d’impresa in modo consolidato, e lo fa da almeno 3-4 anni nel 70% dei casi. Principalmente sono azioni a favore di progetti per l’ambiente (44%), i giovani (43%), l’infanzia (41%) e le persone con disabilità (38%).
La ricerca di Terzjus, Fondazione Roche e Eudaimon
Il contesto emergenziale dettato dalla pandemia ha mutato molte cose anche per il volontariato di impresa. I limiti imposti dal diffondersi del virus e dalle realtive normative anti-contagio hanno costretto molte aziende a ripensare i loro progetti.
Per cercare di comprendere come le imprese si sono riorganizzate, Terzjus, in collaborazione con Eudaimon e Fondazione Roche, ha realizzato una ricerca i cui risultati sono presentati nell’e-book “Il volontariato di competenza. Imprese e lavoratori insieme nella produzione di bene comune”. Il lavoro ha coinvolto 10 organizzazioni: 3M Italia, Boehringer Ingelheim, Chiesi, Edison, Gruppo Marazzato, Novacoop Piemonte, Novartis, Roche, Snam, Unipol Sai.
L’indagine, che ha previsto una serie di interviste in profondità a dipendenti e manager di queste imprese, è stata presentata lo scorso 20 giugno nel corso di un evento pubblico (rivedibile qui). L’obiettivo è stato quello di comprendere lo sviluppo del cosiddetto volontariato “di competenza”, quindi svolto da figure con competenze medio-alte, come manager e professionisti. Si tratta quindi di attività di volontariato – sostenute dalle imprese – molto specifiche, come ad esempio delle consulenze legali, attività riguardanti il design creativo, oppure la progettazione di percorsi formativi.
Come si legge dal rapporto, si tratta di pratiche di volontariato d’impresa finalizzate a “mettere al servizio della comunità un «saper fare» maturato attraverso un’esperienza lavorativa più o meno prolungata nel tempo”. Questa attività, come indicato dalla nuvola di parole che segue, può essere motivata da varie ragioni: volontà di aiutare la collettività, voglia di mettersi in gioco, condividere il proprio sapere, ma anche migliorare le proprie competenze.
Che forme assume il volontariato di competenza
Secondo i risultati della ricerca esisterebbero quattro tipologie di volontariato d’impresa “di competenza”.
La prima è una forma di volontariato professionalizzante (o di carriera), rivolta in prevalenza a giovani quadri o esecutivi. Si tratta di periodi – spesso suggeriti dal top management dell’azienda – finalizzati a far crescere queste figure e quindi a sviluppare nuove competenze. Ad esempio, vengono proposti periodi di tirocinio presso ONG che operano in Paesi emergenti che possono essere un’occasione per permettere a queste persone di coltivare il loro potenziale.
C’è poi il volontariato educativo, che vede i lavoratori di un’impresa impegnarsi come mentori o come modelli di ruolo nei confronti di bambini e ragazzi. In questo caso ci sono svariate attività: dal sostegno a bambini o ragazzi all’interno di doposcuola, all’orientamento di soggetti fragili, fino alla sensibilizzazione degli studenti di scuole primarie o secondarie su alcuni temi sociali.
La terza forma di volontariato è quella definita di consulenza, in quanto è fortemente collegata al saper fare e alle abilità tecniche di chi la compie. In genere viene praticata da alti profili di manager o quadri tecnici che mettono a disposizione il proprio tempo (non solo durante l’orario di lavoro) per aiutare un’associazione, un’impresa sociale o altri soggetti del Terzo Settore a svolgere compiti complessi, come presentare il bilancio, rendicontare un’attività, organizzare un evento a scopo benefico, raccogliere fondi, ecc.
Vi è infine il volontariato d’emergenza, legato cioè a uno specifico momento storico e a uno specifico avvenimento. Questa forma riguarda tutte quelle iniziative e attività che molte organizzazioni hanno promosso – coinvolgendo i loro collaboratori – nel corso dell’emergenza Covid-19; viene citato l’esempio di Roche che, durante il lockdown del 2020, ha mobilitato circa 250 dipendenti per operare in un call center di pubblica utilità per dare informazioni rispetto al virus e più in generale alla condizione straordinaria che si stava vivendo.
Il volontariato d’impresa e il welfare aziendale
L’indagine si concentra anche sul possibile legame che può esistere tra il volontariato d’impresa e il welfare aziendale.
Come già visto, c’è di fatto un “filo rosso” che collega le due tematiche. Si tratta di due strumenti che sempre di più le aziende mettono in pratica sia per investire in azioni di carattere sociale, sia per coinvolgere i propri dipendenti e creare un legame forte con loro.
Come spiega lo stesso rapporto, “welfare aziendale e volontariato di competenza sono due dei segni più tangibili della responsabilità sociale di un’azienda, possono collocarsi in questo nuovo contesto come leva per promuovere il benessere dentro e fuori le mura aziendali, per migliorare la percezione interna ed esterna con ritorni positivi in termini di reputazione, coesione aziendale e di sostenibilità sociale”.
Dalle testimonianze rilevate emerge in particolare come welfare aziendale e volontariato d’impresa siano spesso parte di una strategia aziendale più ampia. In questo senso, essi sono normalmente integrati in una visione dell’organizzazione attenta a tutti i suoi stakeholder – dai lavoratori fino alla comunità locale – allo scopo di far divenire il tema della sostenibilità parte integrante della strategia di business.
Spesso però i due strumenti sono ancora percepiti dai lavoratori come due sfere separate. Per questo sarebbe necessario per il management investire sulla comunicazione dei loro percorsi, allo scopo di coinvolgere attivamente tutti i collaboratori aziendali e quindi valorizzare a pieno l’investimento. Come accade per il welfare aziendale, anche gli interventi di volontariato promossi dalle imprese sono concretamente efficaci e generano un impatto quando sono adeguatamente raccontati e comunicati. E su questo sembrano esserci ancora molti margini per migliorare.