saggio di Luigi Bobba pubblicato in Leadership Inclusiva. Valorizzare l’unicità delle persone nelle organzzazioni, ed. «Il sole 24 Ore»
Si allarga il campo delle povertà nel paese. Per i giovani è sempre più difficile trovare un lavoro di qualità ed esprimere una progettualità personale. Rispetto a questi temi che ruolo hanno le imprese inclusive negli anni Venti?
In un articolo sul 24 Ore, Alessandro Rosina, coordinatore scientifico dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, uno degli studiosi più attenti alla questione giovanile, definisce la nuova generazione che entra nel mondo del lavoro “esigua, fragile e demotivata”. Le imprese non possono non prendere consapevolezza di questo quadro sociale e scegliere consapevolmente di coltivare i talenti giovani. Questa generazione è esigua in quanto è in corso un processo di “degiovanimento” del Paese. Se si confrontano la fascia di età 30-34 anni e la fascia 50-54, ci si accorge che la prima risulta inferiore del 33% rispetto alla seconda. Ovvero la generazione che sta entrando ora nel mercato del lavoro è di un terzo inferiore a quella che ha occupato la fascia centrale della forza lavoro.
È una generazione fragile che, come Hekman e Kautz hanno sottolineato in “Character Skills”, ha bisogno di essere formata rispetto a cinque competenze trasversali: estroversione, amicalità, coscienziosità, stabilità emotiva e apertura all’esperienza. Oggi, a fronte di transizioni sociali molteplici e differenziate, questi caratteri sono spesso carenti per cui le imprese sono obbligate ad investire sulle competenze trasversali. Nella sperimentazione del sistema duale mediante l’apprendistato formativo, abbiamo compreso che l’apprendimento di tale competenze avviene quando sono attivi sia il tutor formativo sia il tutor aziendale. Se l’azienda non investe nel tutor aziendale, cioè nella figura del maestro di mestiere, viene a mancare la trasmissione non solo di capacità tecniche ma anche di una cultura del lavoro.
Infine le imprese devono investire “nell’employer branding” per riuscire a coinvolgere giovani altrimenti demotivati e far capire loro che lavorare per quell’impresa è ancora un valore. Come abbiamo verificato in una ricerca di Terzjus (1), per riuscire a legare i giovani ad un’impresa, serve anche offrire opportunità sia con il welfare aziendale, sia con il “volontariato di competenza” provando a tenere insieme aspirazioni di crescita professionale e coinvolgimento in interventi sociali a favore della comunità di riferimento. Molte ricerche hanno evidenziato che tra i giovani esiste non solo una domanda di una crescita professionale e di carriera, ma anche la ricerca di un lavoro che manifesti una vocazione sociale. Lavorare su queste priorità è essenziale per evitare che le imprese si trovino prive dei talenti migliori nell’oggi e nel domani.
Le migrazioni sono state percepite, secondo una determinata narrativa, come ostacoli allo sviluppo anziché essere considerate agenti di innovazione e risorse in un contesto demografico così sfidante. Alcuni temi di diversity sono molto discussi, altri, come le migrazioni, non sono al centro dell’agenda dell’ecosistema italiano dell’inglese. I migranti fanno paura perché sono stranieri o perché sono poveri?
I migranti fanno paura se sono maschi, neri e musulmani. Non fanno paura se sono donne, bianche e di cultura cristiana. Del resto le principali correnti di migrazione verso il nostro Paese hanno origine nell’Europa dell’Est e nel Nord Africa. Le donne, bianche e di cultura cristiana, non fanno paura perché hanno lo stesso colore di pelle, provengono da una cultura e una religione meno distanti e sono percepite come fondamentali per reggere un welfare familiare sempre più affaticato. I maschi, neri e musulmani, scatenano sentimenti di distanza razziale e culturale sui quali fanno leva gli “imprenditori della paura”. Credo che l’Italia – tradizionale paese di emigrazione – si sia trovata impreparata a gestire questo fenomeno nuovo e ad affrontarlo con politiche adeguate. Le migrazioni sono state considerate un’emergenza e non una potenziale risorsa. Diversi altri paesi hanno utilizzato i fenomeni migratori cercando di regimarli e indirizzarli. Da noi è successo il contrario. Con i “decreti Salvini”, si era creato un vuoto impressionante nella disponibilità per le imprese, specialmente quelle agricole, di lavoratori stagionali. Dovremmo promuovere politiche che facilitino le imprese nel reclutamento regolare di persone che provengono da altri paesi, contrastando l’uso spregiudicato e illegale della manodopera degli stranieri.
E’ interessante notare che nell’ultimo decennio, vi è stata una notevole crescita di nuove piccole imprese promosse da persone straniere. Ad esempio, la comunità albanese ha creato una filiera di imprese nel campo dell’edilizia intercettando una domanda del mercato e non per una qualche politica pubblica. Serve più che mai un disegno per accompagnare e orientare i fenomeni migratori per riuscire a colmare la drastica riduzione del potenziale di forza lavoro; così potremmo trasformare l’immigrazione da problema a risorsa. Certamente sullo sfondo c’è un quadro di natura culturale che, se lasciato in balìa delle paure, non consente di gestire politiche razionali ed efficaci nella gestione dei complessi processi di integrazione sociale e culturale.
In che misura un ecosistema che mette in connessione il Terzo settore e le imprese può rigenerare un ambiente sociale capace di crescita e di lavoro e quindi capace di contrastare le povertà?
Una recente ricerca di Terzjus (2) ha dimostrato che tende a crescere la componente delle imprese sociali nate dopo il decreto legislativo n.112/17 che non hanno una forma giuridica cooperativa. Senza attribuire alcuna valenza negativa al fenomeno della cooperazione sociale, questa tendenza rimarca la ricerca di flessibilità e adattabilità da parte di queste “nuove” imprese sociali sia per includere soggetti ai margini del mercato del lavoro, sia per attrarre investitori interessati a sviluppare progetti ad alto valore sociale.
Il secondo aspetto interessante è il “volontariato di competenza”. Le imprese medio-grandi stanno sviluppando forme di volontariato aziendale non rivolte unicamente all’attivazione positiva dei dipendenti al fine di creare un clima più favorevole e facilitare una identificazione della persona che lavora con l’impresa stessa. Alcune imprese – ed è questa la novità – esternalizzano o “prestano” personale alle organizzazioni del Terzo settore. Prendono in carico cioè un bisogno della comunità attraverso un ente di Terzo settore mediante la messa a disposizione delle competenze di propri collaboratori. Il prestito di personale non è di breve periodo (una o poche giornate) ma può durare anche più mesi. In questo modo si incorpora nella missione aziendale anche la generazione di bene comune. Questo cambio di paradigma si sta verificando nelle imprese dove la responsabilità sociale non è tesa solo a migliorare la reputazione dell’azienda ma altresì ad includere i bisogni della comunità vicina o lontana connessa alla catena del valore aziendale.
L’evoluzione normativa del Terzo settore genera lavoro in questo ambito e se sì perché?
I dati Excelsior sulle potenzialità occupazionali nelle imprese sociali, che con la riforma sono entrate nel perimetro normativo del Terzo settore, evidenziano la domanda di qualificazione professionale in questo segmento del mercato del lavoro. Il World Economic Forum di Davos ha sottolineato che i lavori di cura e di risposta a bisogni educativi, socio-assistenziali e sanitari, rappresentano un’area innovativa sia in termini di quantità di lavoro sia in termini di qualificazione. E, come è noto, in buona parte le imprese sociali operano nel campo educativo, culturale, socio-assistenziale e sanitario. Questa rilevazione di Excelsior ci porta a guardare con maggiore attenzione a questi comparti nei quali la riduzione di posti di lavoro dovuta alle tecnologie appare, almeno per ora, meno rilevante dal momento che la persona è e sarà ancora un fattore insostituibile.
Note
- Professione volontario, a cura di C. Caltabiano e S. Vinciguerra, Rubbettino, 2022.
- L. Bobba, C. Gagliardi, “Le “nuove” imprese sociali”, in Dal non profit al terzo settore. Una riforma in cammino, Editoriale scientifica, Napoli, 2022.