Il Terzo settore si trova in una singolare temperie. Da un lato è spinto misurarsi con la nuova regolazione determinata dalla Riforma del 2017 e a coglierne tutte le opportunità per innovare e trasformarsi. Dall’altro, questo mutamento viene fortemente accelerato dalla ormai imminente messa in opera del PNRR, che si presenta come un’occasione imperdibile sia per mettere mano a questioni a lungo irrisolte, sia per delineare quello che il Terzo settore e l’intero Paese vogliono diventare. E questi anni che ci separano dal 2026 – termine entro il quale i progetti e gli investimenti dovranno essere realizzati – sono il momento della prova più difficile. Ovvero, come far percepire al cittadino comune la grandezza – e forse la nobiltà – della sfida di Next Generation Eu.
La sfida è carica di rischi, ma anche di opportunità: per il Terzo settore non si tratta tanto di occupare spazi, quanto di avviare processi. Facendo innanzitutto leva sulla capacità di stare sulla frontiera della crescita inclusiva; di resistere nei territori interni come nelle periferie più abbandonate; di immergersi nella democrazia digitale senza lasciarsi irretire dal fascino degli algoritmi, continuando a credere e a praticare la democrazia partecipativa.
Ecco, se dovessimo delineare il ruolo del Terzo settore nei prossimi anni potremmo racchiuderlo in queste tre immagini: vettore della crescita inclusiva; sentinella delle persone vulnerabili e dei luoghi dimenticati; attore non subalterno dello spazio pubblico nel tempo della democrazia digitale. Queste tre immagini individuano i processi da attivare per delineare una “transizione sociale”, ancora poco tematizzata, ma forse altrettanto decisiva rispetto alla transizione ecologica. Come nella transizione ecologica è importante ridurre il peso dell’impronta che noi umani lasciamo sul pianeta, passare dalle energie fossili a quelle rinnovabili e utilizzare tecnologie sempre più soft; così, nella transizione sociale è rilevante che la disponibilità dei beni essenziali per la vita sia all’insegna dell’inclusività; che ai processi di atomizzazione della vita quotidiana e alla crescente solitudine, si risponda con la ricostruzione dei legami comunitari; che, alla invasività delle piattaforme informative, mediatiche e dell’ entertainment, si anteponga la cura dei processi partecipativi e democratici e la promozione di una società aperta e plurale.
L’affronto di queste sfide può altresì trovare un contesto di riferimento favorevole in quanto, entro la fine del 2021, sarà varato dalla Commissione Europea, per iniziativa del Commissario Nicolas Schmit, un “Social Economy Action Plan” con l’obiettivo di migliorare gli investimenti sociali, supportare l’innovazione e creare occupazione. La scelta appare convincente ma a due condizioni. In primo luogo, per garantire la costruzione di un ecosistema adeguato e forte per lo sviluppo delle organizzazioni di terzo settore a livello europeo, occorre un più preciso perimetro concettuale che consenta di arrivare ad una definizione giuridica comune. E poi, addivenire alla creazione di un sistema condiviso di misurazione dell’impatto sociale che venga universalmente accettato e applicato. Solo a queste due condizioni avremo una nuova fioritura di imprese sociali, la capacità di orientare le risorse comunitarie verso le organizzazioni in grado di dare risposte innovative ai bisogni più dimenticati e un riconoscimento del Terzo settore come attore sia dell’economia sociale sia dello sviluppo dell’inclusione e della cittadinanza attiva.
Ecco, le tre funzioni prima evocate per il Terzo settore che verrà – vettore della crescita inclusiva, sentinella delle persone e dei territori abbandonati e attore non subalterno della democrazia digitale -, consentono di delineare un orizzonte dell’equità, che rappresenta la chiave per ridisegnare sia le politiche economiche e del lavoro sia quelle sociali e sanitarie.
La prima sfida per il Terzo settore sta nel come diventare un attore rilevante dell’economia sociale intesa non come segmento marginale ma componente strutturale di una libera economia di mercato. Come riuscire a generare valore economico e insieme valore aggiunto sociale. Il percorso in questa direzione non si misurerà unicamente nella crescita del PIL prodotto e dell’occupazione generata, ma altresì quanto questa originale forma di produzione di beni e servizi sia in grado di contaminare le imprese profit, ovvero quanto queste stesse imprese incorporeranno nella loro reputazione sociale indicatori del benessere che avranno saputo generare per i loro collaboratori, per la comunità circostante e per l’ambiente naturale in cui operano. Tale prospettiva, a fronte di una finanziarizzazione sempre più spinta dei processi produttivi, potrebbe apparire un po’ irenica o del tutto irrealistica. Eppure, dopo la crisi pandemica qualcosa si sta muovendo in tale direzione: dalla proposta di una carbon tax ad una tassazione minima di base dei giganti multinazionali che estraggono profitto dai territori senza restituire quasi nulla in termini di tasse versate.
Oppure, su un piano più micro-sociale, si pensi al desiderio sempre più forte nelle generazioni giovani di utilizzare le proprie competenze e i propri saperi non unicamente e non principalmente per fulminee carriere e per accrescere il proprio reddito, bensì per realizzare i propri sogni, tra cui quello di svolgere attività professionalmente qualificate e allo stesso tempo socialmente orientate. Ne derivano un’opportunità e un rischio. Un’opportunità perché questo potenziale di persone motivate e preparate può essere un formidabile volano di innovazione; un rischio, in quanto le imprese profit appaiono più veloci e capaci di assorbire e utilizzare i processi di digitalizzazione dell’economia.
Si pensi alla “sharing economy”, che, a dispetto della parola, è spesso diventata un territorio senza regole dove possono prosperare le forme più sottili e dure di sfruttamento del lavoro delle persone. Ma un’economia della condivisione non è invece l’orizzonte tipico delle imprese sociali, che non sono mosse in modo esclusivo dall’imperativo del profitto e del rendimento a breve termine?
Ancora, nelle grandi imprese evolute, c’è una crescente attenzione alle politiche della “diversity”, ovvero a criteri di gestione delle persone che siano orientate ad includere e valorizzare le molte diversità ormai presenti negli ambienti di lavoro (di genere, di razza, di religione, oltre alle differenti forme della disabilità). Ora, le imprese sociali, che sono state capaci di inventare forme di inserimento al lavoro per quei soggetti che presentavano condizioni di disabilità e di disagio molteplici, potrebbero diventare una qualificata piattaforma di expertise e di formazione anche per le imprese profit, contribuendo così ad arginare la deriva che conduce a considerare le differenze e le disabilità solo un problema, e non anche una risorsa da valorizzare in modo inclusivo.
C’è una seconda sfida che interroga il Terzo settore: come ricostruire legami comunitari in società dominate da un individualismo radicale e dove la solitudine sta diventando una delle più rilevanti patologie sociali. Da un lato, nelle città e nelle metropoli si assiste ad una crescente atomizzazione della vita quotidiana e delle relazioni sociali. Dall’altro, i territori interni e le periferie appaiono come luoghi da cui fuggire perché privi di opportunità e di prospettive specialmente per i più giovani. E’ ben chiaro che la crisi pandemica ha eroso una delle risorse fondamentali delle reti associative, cooperative e di volontariato, ovvero la forza, la persistenza e la qualità delle relazioni interpersonali che sono il capitale invisibile di queste organizzazioni, la miniera nascosta che consente loro di durare, di resistere anche nei momenti più critici.
Ebbene, nel tempo del Covid, la relazione anziché risorsa e potenziale espansivo, è diventata pericolo, rischio da cui guardarsi. E tanto più la crisi è stata profonda, tanto più si è fatta strada la convinzione che sia meglio salvarsi prima e da soli. Vale per le persone, come per le nazioni. Vale nel tenersi ben stretto il proprio reddito garantito, come per l’irresponsabilità delle nazioni ricche nel non attuare un piano globale di accesso universale ai vaccini. Vale per il risorgente razzismo nei quartieri delle nostre città, come per i Paesi che costruiscono muri per fermare i migranti. E’ dentro questo contesto che il Terzo settore può essere foriero di innovazioni nei modi di vivere, lavorare e abitare ispirandosi al principio della convivialità delle differenze. E’ forse il pericolo più grave, la sfida più rischiosa. Eppure, lì vi è un terreno generativo del domani. Lì si gioca la possibilità di far vivere la comunità non come orizzonte nostalgico e ristretto, ma risorsa per superare la crescente incertezza. Mi riferisco alle cooperative di comunità che nascono nei nostri borghi abbandonati; all’avvio di nuove forme dell’abitare grazie all’housing sociale; alle esperienze di coworking; alla resilienza dimostrata dalle Pro loco nel tempo della pandemia, assumendosi compiti di assistenza sociale e solidarietà elementare prima mai svolti; alle nuove imprese sociali che assumono la sfida imprenditoriale di favorire la transizione ecologica degli immobili del Terzo settore per restituirli alla loro missione originaria; alle tante piccole realtà del non profit che decidono, utilizzando le nuove norme della Riforma, di collegarsi ad una Rete associativa, non solo per avere più forza e visibilità nella rappresentanza, ma anche per potersi concentrare meglio sulla propria specifica missione. O ancora, penso ai tradizionali enti di formazione professionale che provano a ripensarsi per fare della formazione e del lavoro luoghi partecipativi e comunitari oltre che strumenti di valorizzazione dei talenti e delle vocazioni di ciascuno; o, infine, ai Municipi che, anziché limitarsi ad attuare esternalizzazioni di servizi sociali verso soggetti di mercato, decidono di mettere in campo processi più complessi e partecipati per realizzare progetti e attività di interesse generale insieme ad enti del Terzo settore, conferendo così un marchio comunitario a servizi di rilievo pubblico. I semi di una nuova stagione comunitaria ci sono, ma non è detto che i venti gelidi dell’individualismo li possano indebolire o far morire.
Infine, c’è una terza sfida che sta di fronte ai soggetti del Terzo settore. E’ forse la più insidiosa, perché più difficile da raccogliere. Consiste nel fatto che le tecnologie digitali stanno cambiando o hanno già cambiato la sfera pubblica, ovvero il luogo dell’azione e del confronto democratico. In un recente saggio, anche lo stesso Giuliano Amato, vicepresidente della Corte Costituzionale, si è chiesto “Cosa è successo alla democrazia”? La domanda non è né retorica né scontata. Perché, oltre alla sclerotizzazione dei partiti, il nostro tempo vede un dominio incontrastato della Rete. Le piattaforme informative, della musica, dei film, dei video sono diventate la spina dorsale della sfera pubblica o meglio l’infrastruttura della stessa. Ma non possiamo essere ingenui. Queste piattaforme rispondono ad interessi privati e dunque sono strutturate così da attirare l’attenzione degli utenti nel modo tendenzialmente più completo possibile. Rispondono ai bisogni di consumo, di emozioni, di relazioni, di divertimento, di informazione: insomma colonizzano tutta la sfera relazionale. Per di più, nell’area delle informazioni/opinioni di carattere sociale e politico tendono a spingere i post che attirano maggiormente l’attenzione: quelli con contenuti conflittuali. Ne deriva una polarizzazione degli orientamenti sociali e politici, che alimenta una crescita del percepito a danno del reale. Cosicché diventa più importante indicare i colpevoli di una situazione di crisi, che cercare soluzioni. Al Terzo settore spettano due compiti nuovi: promuovere un’alfabetizzazione mediatica del cittadino, perché solo un uso consapevole dei questi mezzi può evitare la subordinazione agli stessi e sopratutto può cercare di arrestare la crescita del digital divide.
Il dato Istat relativo all’anno scolastico 2020/21 è inequivocabile: la DAD ha tagliato fuori circa 8% dei bambini e dei ragazzi e tale percentuale diventa del 25% in caso di soggetti disabili. L’altro compito è di utilizzare la propria funzione di advocacy per tutelare i cittadini anche nei confronti delle grandi piattaforme, obbligando le stesse ad adottare criteri socialmente rilevanti nella proposizione dei contenuti. Insomma, come si fa pagare chi inquina, così si deve tassare chi intossica la vita sociale, emozionale e relazionale.
In conclusione, le tre sfide sinteticamente illustrate rappresentano un’opportunità formidabile per il Terzo settore per diventare – come ha detto il Presidente Mattarella – una “struttura portante non di supplenza, ma di autonoma e specifica responsabilità dell’intero Paese.”