D.Dl. Concorrenza: privatizzazioni dei servizi pubblici e terzo settore. Qualche preoccupazione

Il disegno di legge in parola si propone di perseguire le seguenti finalità (art. 1):

  1. Promozione dello sviluppo della concorrenza, rafforzamento della giustizia sociale, miglioramento della qualità e dell’efficienza dei servizi pubblici, nonché potenziamento della tutela dell’ambiente e del diritto alla salute dei cittadini;
  2. Rimozione degli ostacoli regolatori, di carattere normativo e amministrativo, che possono impedire l’apertura dei mercati;
  3. Garanzia della tutela dei cittadini.

Che la legge annuale per il mercato e la concorrenza si “preoccupi” di promuovere la tutela della concorrenza rientra nella sua mission. Come è noto l’architettura istituzionale e valoriale europea non è tuttavia costruita soltanto sul principio di concorrenza, considerato ancora qualche anno fa quale principio che deve godere di “primazia” normativa rispetto ad altre fonti giuridiche (il riferimento è al noto parere del Consiglio di Stato del mese di luglio del 2018, nel quale i giudici di Palazzo Spada ribadirono la superiorità gerarchica del Codice dei contratti pubblici rispetto al Codice del Terzo settore).

Il diritto eurounitario contempla altri principi, tra i quali, il principio della coesione sociale, della giustizia sociale e della tutela dei diritti fondamentali, così come richiamato peraltro nello stesso articolo 1 del ddl in argomento.

E’ proprio con riferimento a quanto dichiarato nell’art. 1 sopra sintetizzato che talune disposizioni del ddl approvato dal Governo destano qualche preoccupazione e domanda. In questa sede, ci si intende riferire alle previsioni contenute nell’art. 6, rubricato “Delega in materia di servizi pubblici locali”. Come è noto, la riforma “Madia”, unitamente al Testo unico sulle partecipazioni in mano pubblica (TUSP, d. lgs. n. 175/2016), avrebbe dovuto prevedere anche un apposito decreto legislativo in materia di servizi pubblici locali, che però non è stato mai approvato. Ora il Governo Draghi prevede nell’art. 6 un’apposita delega da conferire al Governo per disciplinare, tra l’altro, l’istituto dell’autoproduzione, in specie attraverso il ricorso al modello dell’in house providing.

Al riguardo, il comma 1, lett. f), confermando le disposizioni già contenute nel d. lgs. n. 50/2016 e 175/2016, nonché un orientamento costante della giurisprudenza amministrativa, stabilisce in capo alle amministrazioni pubbliche che intendano non fare ricorso al mercato per la gestione dei servizi pubblici locali di motivare adeguatamente tale scelta e sottoponendo quest’ultima a valutazioni in ordine alla loro gestione che potrebbero anche condurre alla revisione del modello gestionale scelto. Si ritiene utile sottolineare che, dunque, gli enti locali devono motivare se e quando intendano impiegare il modello dell’autoproduzione dei servizi in luogo del ricorso al mercato.

Da ciò sembrerebbe conseguire che le esternalizzazioni a favore degli operatori economici di mercato siano considerate di default efficienti ed efficaci, mentre le scelte a favore di soluzioni gestionali ed organizzative interne richiedono sempre ed obbligatoriamente la capacità degli enti locali di dimostrarne, suffragarne, motivarne, giustificarne la “bontà”. La giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 100 del 27 maggio 2020) e quella dei giudici amministrativi, quest’ultima peraltro non sempre lineare (si vedano, Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26 agosto 2020, n. 5237; contra Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 19 ottobre 2021, n. 7023) hanno nel corso di questi ultimi anni rafforzato l’idea di una rilevanza secondaria dell’autoproduzione dei servizi pubblici locali rispetto al ricorso al mercato concorrenziale.

La formula giuridica di diritto privato (sostanziale e formale) può (e in taluni contesti sociali ed economici ha dimostrato) di essere efficiente e di risultare un’alternativa efficace alla gestione pubblica. Tuttavia, proprio in ragione di un principio del diritto eurounitario che lascia le autorità pubbliche degli Stati membri libere di scegliere la/le modalità ritenute più adeguate per la gestione di servizi di interesse generale, la disposizione contenuta nell’art. 6 appare discriminatoria nei confronti degli enti locali che ritengano di costituire una società in house ovvero di autoprodurre il servizio (da ultimo, sulla legittimazione dell’autoproduzione – gestione diretta, si veda Tar Liguria, sez. I, 9 novembre 2021, n. 946). Ancora una volta, il paradigma neoliberista è considerato come prevalente e capace di “autoimporsi” sulle altre possibili alternative (in questo senso, si veda l’articolo di Domenico Gallo, Il disegno di legge concorrenza, ovvero la festa delle privatizzazioni, in www.volerelaluna.it, 12 novembre 2021).

Una simile presunzione è presente anche nell’art. 56 del Codice del Terzo settore, laddove si prescrive agli enti locali che intendano sottoscrivere convenzioni con associazioni di volontariato o di promozione sociale di “motivare” la maggiore convenienza dello strumento convenzionale rispetto al ricorso al mercato.

E proprio agli enti del terzo settore è dedicata la lett. o) dell’art. 6, comma 1 del disegno di legge qui in argomento, laddove si legge che la delega da assegnare al Governo deve prevedere la “razionalizzazione del rapporto tra la disciplina dei servizi pubblici locali e la disciplina per l’affidamento dei rapporti negoziali di partenariato regolati dal decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, in conformità agli indirizzi della giurisprudenza costituzionale”. Benché si tratti di previsione poco chiara nella sua finalità, atteso che non si comprende in cosa dovrebbe consistere la “razionalizzazione” delle due discipline, il richiamo ai rapporti negoziali tra pubblica amministrazione ed enti del terzo settore nel disegno di legge concorrenza desta più di qualche preoccupazione.

E’ forse opportuno ricordare che gli istituti giuridici cooperativi di cui agli artt. 55 e seguenti del Codice del Terzo settore sono stati oggetto di un lungo e difficile cammino di progressiva legittimazione (si vedano, tra l’altro, la sentenza n. 131/2020 della Corte costituzionale, il decreto Semplificazioni del 2020, il decreto del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali n. 72 del 31 marzo 2021). Al momento in cui si scrive, molte amministrazioni pubbliche sono impegnate nella definizione di bandi e avvisi pubblici con i quali attivare i percorsi di co-programmazione, co-progettazione e accreditamento libero con gli enti del terzo settore. E’ possibile affermare che i giudici amministrativi, seppure ancora con qualche tentennamento, stanno sostenendo questo percorso, che dalla legittimazione giuridica si sta avviando all’implementazione delle procedure amministrative attraverso cui “dare voce” a quegli istituti cooperativi.

Azione degli enti locali e interventi degli enti del terzo settore sono ultimamente saldamente ancorati e definiti dalla promozione, tutela e garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni, espressione di un ordinamento fondato sul principio di solidarietà, di coesione sociale e di sussidiarietà orizzontale. La materia della concorrenza, riservata allo Stato dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, non può trasformarsi nel “grimaldello” per recuperare ad essa ciò che con fatica si è riusciti dalla stessa ad emancipare (sul punto, si veda l’articolo di Marco Bersani, Draghi all’assalto dei servizi pubblici locali, in www.volerelaluna.it, 12 novembre 2021). A obiettivi (sociali) devono poter corrispondere modelli gestionali, giuridici ed organizzativi coerenti, che, in specie alla luce dell’emergenza sanitaria e dei finanziamenti previsti dal PNRR, sappiano “intercettare” e rispondere alle domande dei cittadini e, in particolare, ai gruppi più fragili e vulnerabili della popolazione.

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