Il terzo settore nella sentenza della Corte Costituzionale n. 131 del 26 giugno 2020

Sommario:

  1. L’oggetto del giudizio;
  2. La decisione della Corte;
  3. Considerazioni finali.

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L’oggetto del giudizio

Con la sent. del 26 giugno 2020, n. 131 la Corte costituzionale, scorrendo abilmente il filo rosso che tiene insieme la complessa e frammentaria disciplina del Terzo settore, con una sentenza interpretativa di rigetto ha ritenuto infondata una questione di legittimità costituzionale sollevata su una disposizione di una legge regionale contenente la disciplina delle cooperative di comunità.

La legge in questione è la l. reg. Umbria 11 aprile 2019, n. 2, adottata con la dichiarata finalità di riconoscere e promuovere il ruolo e la funzione delle cooperative di comunità (art. 1)1, vale a dire delle società cooperative locali, costituite ai sensi degli articoli 2511 ss. c.c. e iscritte all’Albo delle cooperative di cui agli artt. 2512 c.c. e 223-sexiesdecies disp.att. c.c., che perseguono l’interesse generale della comunità in cui operano, promuovendo la partecipazione dei cittadini alla gestione di beni o servizi collettivi, nonché alla valorizzazione, gestione o acquisto collettivo di beni o servizi di interesse generale, e che prevedono adeguate forme di coinvolgimento dei soggetti appartenenti alla comunità di riferimento interessati alle attività della cooperativa (art.2)2.

La norma censurata è, in particolare, l’art. 5, co. 1 lett. b), ai sensi del quale “[i]n attuazione dell’articolo 1, riconoscendo il rilevante valore sociale e la finalità pubblica della cooperazione in generale e delle cooperative di comunità in particolare, la Regione […] disciplina le modalità di attuazione della co-programmazione, della co-progettazione e dell’accreditamento previste dall’articolo 55 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 (Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106) e le forme di coinvolgimento delle cooperative di comunità e adotta appositi schemi di convenzione-tipo che disciplinano i rapporti tra le cooperative di comunità e le stesse amministrazioni pubbliche operanti nell’ambito regionale”.

Nel ricorso, proposto in via principale dal Presidente del Consiglio dei Ministri, si sosteneva che tale disposizione, coinvolgendo nelle attività di cui all’art. 553 del Codice del Terzo settore (di seguito CTS) tutte le tipologie di cooperative di comunità, avrebbe operato un’indebita omologazione di tali soggetti agli enti del Terzo settore (di seguito ETS), con il risultato di ampliare illegittimamente il novero di questi ultimi e di estendere gli strumenti della co-programmazione, della co-progettazione e dell’accreditamento a soggetti privi dei requisiti necessari a conservarne la finalità. Per tali ragioni, si chiedeva di dichiarare l’incostituzionalità della norma regionale per contrasto con l’art. 55 CTS, e, di conseguenza, con l’art. 117, co. 2, lett. l), Cost., che assegna alla competenza esclusiva dello Stato la materia dell’ordinamento civile, entro la quale ricadono non soltanto la conformazione specifica e l’organizzazione degli ETS, ma anche la definizione delle regole essenziali di correlazione di questi con le autorità pubbliche4

La difesa regionale replicava alle censure statali sostenendo che le cooperative di comunità, in forza delle loro evidenti finalità di carattere sociale, sarebbero per definizione degli ETS (nella specie, imprese sociali) e che, pertanto, il legislatore regionale non avrebbe fatto altro che riconoscere l’applicabilità dell’art. 55 CTS a tali soggetti, senza in alcun modo ampliare il novero degli ETS.

La decisione della Corte

Nel risolvere la questione, la Corte costituzionale coglie l’opportunità per ricostruire la ratio più profonda della disciplina del Terzo settore, a partire da un’interpretazione sistematica della disposizione statale su cui era stato incardinato tutto il giudizio, vale a dire dell’art. 55 CTS, definito dalla Corte come “una delle più significative attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale valorizzato dall’art. 118, quarto comma, Cost.5.

In primo luogo, il Giudice delle leggi mette opportunamente in luce come l’introduzione del principio di sussidiarietà nella Costituzione repubblicana abbia esplicitato “le implicazioni di sistema derivanti dal riconoscimento della «profonda socialità» che connota la persona umana6: esso costituisce una presa d’atto della capacità di quest’ultima di realizzare una “azione positiva e responsabile”, come risulta peraltro empiricamente provato dal fatto che “[p]rima ancora che venissero alla luce i sistemi pubblici di welfare, la creatività dei singoli si è espressa in una molteplicità di forme associative (società di mutuo soccorso, opere caritatevoli, monti di pietà, ecc.) che hanno quindi saputo garantire assistenza, solidarietà e istruzione a chi, nei momenti più difficili della nostra storia, rimaneva escluso7

Per queste ragioni, con l’espressa previsione contenuta nell’art. 118, co. 4, Cost., il legislatore costituzionale ha inteso “superare l’idea per cui solo l’azione del sistema pubblico è intrinsecamente idonea allo svolgimento di attività di interesse generale e si è riconosciuto che tali attività ben possono, invece, essere perseguite anche da una «autonoma iniziativa dei cittadini» che, in linea di continuità con quelle espressioni della società solidale, risulta ancora oggi fortemente radicata nel tessuto comunitario del nostro Paese8.

In tale contesto, risulta chiara la ratio sottesa alle forme di collaborazione tra pubblico e privato previste dall’art. 55 CTS, che “non si basa sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico9. È la perfetta coincidenza di scopi tra l’ente privato e il soggetto pubblico a giustificare e, addirittura, a richiedere la sottoposizione del primo a un modello di amministrazione condivisa, a un duplice fine: per un verso, tale modello vuole consentire lo sviluppo di un’azione sinergica volta al perseguimento degli obiettivi comuni; per altro verso, ponendo sui soggetti privati particolari oneri e sottoponendoli al controllo pubblico, esso intende garantire che costoro svolgano effettivamente un’attività di interesse generale e di utilità sociale, perseguendo realmente gli obiettivi solidaristici a essa connessi. 

Esiste, pertanto, “una stretta connessione tra i requisiti di qualificazione degli ETS e i contenuti della disciplina del loro coinvolgimento nella funzione pubblica”. Per questo motivo, il legislatore statale, nell’esercizio della sua competenza esclusiva, con l’art. 4 CTS ha inteso garantire la permanenza di questa connessione, tracciando il perimetro legale all’interno del quale devono necessariamente ricadere i soggetti privati per poter essere qualificati come ETS e, di conseguenza, accedere al modello di condivisione della funzione pubblica di cui all’art. 55 CTS. In particolare, questi sono gli enti che rientrano in specifiche forme organizzative tipizzate (le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le società di mutuo soccorso, le reti associative, le imprese sociali e le cooperative sociali) e gli altri enti “atipici” (le associazioni riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di diritto privato diversi dalle società) che perseguono, “senza scopo di lucro, […] finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi”, e che risultano “iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore”.

Sulla scorta di tali considerazioni, il Giudice delle leggi osserva che, se la disposizione censurata avesse realmente esteso la qualifica di ETS a soggetti diversi da quelli aventi i requisiti di cui all’art. 4 CTS, essa avrebbe effettivamente violato la riserva di competenza attribuita allo Stato dall’art. 117, co. 2, lett. l). Tuttavia, nel caso di specie, poiché la l. reg. Umbria n. 2 del 2019 non contiene un’espressa qualificazione delle cooperative di comunità come ETS, è possibile darne un’interpretazione che non si pone in contrasto con i princìpi costituzionali e con la normativa statale di settore; pertanto, la Corte rigetta il ricorso statale, ma, al contempo, offre l’interpretazione conforme a Costituzione della normativa oggetto del giudizio10.

La legge umbra, richiamando nel suo articolo di apertura gli artt. 45, 117 e 118 Cost. e riconoscendo la particolare meritevolezza delle cooperative di comunità, all’art. 2 fa riferimento in via generale alle società cooperative, lasciando ai privati la piena libertà di scegliere in quale sottotipo di società cooperativa costituirsi (cooperativa sociale, cooperativa a mutualità prevalente o cooperativa a mutualità non prevalente). È da tale scelta, cristallizzata negli statuti delle singole cooperative di comunità, che dipende l’applicabilità alle stesse dell’art. 55 CTS richiamatodall’art. 5. Si danno infatti tre possibilità:

  1. che la cooperativa di comunità sia costituita come cooperativa sociale, con tutti i requisiti previsti dalla l. 8 novembre 1991, n. 381;
  2. che la cooperativa di comunità sia costituita in forma diversa da quella della cooperativa sociale, ma sia qualificata come impresa sociale, in quanto rispetti i requisiti costitutivi previsti dal d.lgs. n. 112 del 2017 – tra i quali in primo luogo l’assenza di scopo di lucro – e si iscriva nell’apposita sezione del registro delle imprese;
  3. che la cooperativa di comunità sia costituita in forma diversa dalla cooperativa sociale che non sia qualificata come impresa sociale (perché il suo statuto non contempla la clausola di non lucratività di cui all’art. 2514 c.c. o perché, in ogni caso, non ha ritenuto di acquisire la qualifica di impresa sociale).

Nei casi sub a) e sub b) è chiaro che, ai sensi della legge statale (in particolare degli artt. 4 CTS e 1 del d.lgs. n. 112 del 2017) le cooperative in questione, in quanto cooperative sociali o imprese sociali rientreranno nel perimetro degli ETS, cosicché sarà loro pienamente applicabile l’art. 55 CTS. 

Nel caso sub c), invece, “rimane fermo – contrariamente all’assunto della difesa regionale secondo cui le evidenti finalità di carattere sociale perseguite dalle cooperative di comunità farebbero sempre ricomprendere quest’ultime nell’ambito delle imprese sociali – che alle stesse non sono riferibili le forme di coinvolgimento attivo disciplinate dall’art. 55 CTS11.

Ad avviso della Corte, la norma impugnata può (e deve) essere interpretata in conformità con tali conclusioni, in quanto essa affida alla Regione non uno, ma due compiti, da tenere reciprocamente ben distinti in ragione del fatto che l’uno si riferisce alle cooperative di comunità che siano anche ETS, mentre l’altro ha per oggetto le cooperative che si collocano al di fuori del perimetro legale che recinta tali soggetti. Il primo compito, quindi, consiste nel disciplinare “le modalità di attuazione della co-programmazione, della co-progettazione e dell’accreditamento previste dall’articolo 55 del [CTS]”, in riferimento alle cooperative di comunità che siano anche ETS; il secondo, significativamente separato dall’altro mediante l’uso della congiunzione “e”, consiste nel disciplinare “le forme di coinvolgimento che le cooperative di comunità, in quanto tali (quando cioè non qualificabili come ETS), possono avere con i soggetti pubblici”. Infatti,“essendo gli ambiti concettuali dei due sistemi riconducibili a fonti diverse, questi non sono assimilati quanto a regime12.

In virtù di tali considerazioni, deve dunque escludersi che gli strumenti e le modalità di coinvolgimento degli ETS previsti dall’art. 55 CTS possano estendersi a cooperative di comunità che ETS non sono e per le quali la Regione, in attuazione dell’art. 5 della l. r. n. 2 del 2019, dovrà prevedere forme di coinvolgimento autonome e diverse da quelle previste nella summenzionata norma statale. In conclusione, lanciando un monito anche agli organi regionali deputati all’attuazione della legge umbra, la Corte precisa che anche “gli schemi di convenzione-tipo, richiamati dalla disposizione impugnata e da adottare da parte della Regione, sono necessariamente diversi, quanto a presupposti e contenuti, dalle forme di coinvolgimento tipicamente disciplinate per gli ETS, perché, qualora attengano a cooperative di comunità non qualificabili all’interno di tale perimetro, la relazione convenzionale con l’ente pubblico si pone su basi diverse da quella accordata ai primi13.

Considerazioni finali

La soluzione adottata dalla Corte con la pronuncia in commento appare apprezzabile per una pluralità di ragioni.

Anzitutto, è da ritenersi particolarmente appropriata la lettura della disciplina del Terzo settore alla luce del principio di sussidiarietà, che, nel quadro di un sottosistema normativo caratterizzato da un grado di complessità e di frammentazione decisamente elevato, viene indicato come una sorta di stella polare cui far costante riferimento per orientarsi nell’implementazione e nell’interpretazione della normativa riguardante tale ambito. 

Sembra inoltre meritevole di considerazione la stessa ricostruzione che la Corte ha dato del principio di sussidiarietà, che risulta intimamente connesso a tutto il sistema dei diritti e dei doveri della Costituzione, nonché al riconoscimento della “profonda socialità della persona umana” in quanto tale (art. 2 Cost.), con effetti rilevanti sul modo di concepire il rapporto tra il potere pubblico e l’agire privato in relazione allo svolgimento di attività di interesse generale dirette a obiettivi solidaristici14. A tale riguardo, particolarmente significativo appare l’esplicito riferimento ad assistenza, solidarietà e istruzione, a conferma del fatto che le finalità perseguite dalla disciplina del Terzo settore trovano il loro radicamento nel complessivo disegno costituzionale, che, da un lato, pone sulle istituzioni statali (potremmo dire sullo Stato-persona) l’obbligo di dare attuazione ai diritti sociali riconosciuti ai cittadini in vista dell’obiettivo indicato dall’art. 3, co. 2, Cost.; dall’altro, all’art. 2, impone agli stessi cittadini (potremmo dire sullo Stato-comunità) degli “inderogabili doveri di solidarietà”, al cui spontaneo assolvimento ben può servire l’autonoma organizzazione della società civile attraverso enti, anche costituiti in forme associative differenziate (cooperative, associazioni, fondazioni ecc.), ma aventi come scopo comune lo svolgimento di attività di interesse generale volte a perseguire gli obiettivi sociali indicati dalla stessa Costituzione, tra i quali rientrano senz’altro quelli contenuti nel CTS.

Degna di nota è anche l’affermazione che l’attuazione del principio di sussidiarietà non si pone in contrasto con il diritto eurounitario, il quale mantiene in capo agli Stati membri la possibilità di apprestare, in relazione ad attività a spiccata valenza sociale, un modello organizzativo ispirato non al principio di concorrenza ma a quello di solidarietà15.

In terzo luogo, la Corte, sottolineando la distinzione che corre tra le cooperative di comunità e gli ETS, ha correttamente scisso la promozione della “funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata”, la cui base costituzionale è contenuta nell’art. 45, co. 1, Cost., dalla promozione della “autonoma iniziativa dei cittadini, per lo svolgimento di attività di interesse generale”, a cui fa riferimento l’art. 118, co. 4, Cost. Sebbene entrambe le attività perseguano finalità considerate altamente meritevoli di tutela dal legislatore costituzionale, esse costituiscono pur sempre attività di natura diversa e volte alla realizzazione di scopi diversi, che concretamente possono venire a sovrapporsi in un medesimo soggetto (com’è il caso delle cooperative sociali e delle cooperative che abbiano i requisiti e la qualifica di imprese sociali), ma che devono essere sempre logicamente tenuti distinti. Allo stesso modo, diversa rimane la ratio delle forme di controllo pubblico previste per le società cooperative e di quelle previste per gli ETS. 

Da ultimo, sembra opportuno sottolineare che, nonostante la spiccata valorizzazione dell’agire privato resa esplicita dal principio di sussidiarietà, la Corte tiene ferma l’importanza fondamentale dell’intervento del potere pubblico e, in particolare, del legislatore statale, cui è rimesso il compito di individuare stringenti requisiti e adeguate forme di controllo sugli enti privati che si propongono come ETS, al fine di prevenire l’abuso degli strumenti posti a loro disposizione e di scongiurare qualsiasi pervertimento delle finalità da essi perseguiti. Imprescindibile resta inoltre l’attività delle amministrazioni dello Stato, delle Regioni e degli enti locali, alle quali spetta il compito di controllare che quei soggetti abbiano effettivamente i requisiti formali richiesti dalla legge e che l’attività da essi concretamente svolta possieda e mantenga quei caratteri che soli giustificano l’applicazione della speciale disciplina prevista per gli ETS (ivi incluso l’art. 55 CTS).

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[1]

L. reg. Umbria, n. 2 del 2019, art. 1: “Finalità – 1. La Regione, nel rispetto degli articoli 45, 117 e 118, quarto comma della Costituzione e della normativa nazionale, nonché in attuazione dell’articolo 15 dello Statuto, con la presente legge, riconosce e promuove il ruolo e la funzione delle “cooperative di comunità”, che abbiano come obiettivo la produzione di vantaggi a favore di una comunità territoriale definita alla quale i soci promotori appartengono o eleggono come propria nell’ambito di iniziative a sostegno dello sviluppo economico, della coesione e della solidarietà sociale volte a rafforzare il sistema produttivo integrato e a valorizzare le risorse e le vocazioni territoriali e delle comunità locali nonché a favorire la creazione di offerte di lavoro”.

[2]

L. reg. Umbria, n. 2 del 2019, art. 2: “Cooperative di comunità – 1. Ai fini della presente legge ed in assenza di norme nazionali che le riconoscano, sono considerate “cooperative di comunità” le società cooperative, costituite ai sensi degli articoli 2511 e seguenti del codice civile ed iscritte all’Albo delle cooperative di cui all’articolo 2512 del codice civile e all’articolo 223-sexiesdecies delle disposizioni per l’attuazione del codice civile, le quali, anche al fine di contrastare fenomeni di spopolamento, declino economico, degrado sociale urbanistico, perseguono l’interesse generale della comunità in cui operano, promuovendo la partecipazione dei cittadini alla gestione di beni o servizi collettivi, nonché alla valorizzazione, gestione o all’acquisto collettivo di beni o servizi di interesse generale, e che, fermo il rispetto di quanto previsto dalle norme del codice civile in materia di società cooperative:

a) stabiliscono la propria sede ed operano in uno o più comuni della Regione;

b) prevedono nello statuto o nel regolamento adeguate forme di coinvolgimento dei soggetti appartenenti alla comunità di riferimento interessati alle attività della cooperativa;

c) prevedono nello statuto o nel regolamento modalità di partecipazione all’assemblea dei soci dei soggetti appartenenti alla comunità di riferimento interessati alle attività della cooperativa;

d) prevedono nello statuto la possibilità di nominare nel consiglio di amministrazione soggetti appartenenti alla comunità di riferimento interessati alle attività della cooperativa.

[3]

D.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, art. 55: “Coinvolgimento degli enti del Terzo settore – 1. In attuazione dei principi di sussidiarietà, cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità, copertura finanziaria e patrimoniale, responsabilità ed unicità dell’amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare, le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi nei settori di attività di cui all’articolo 5, assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore, attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento, poste in essere nel rispetto dei principi della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché delle norme che disciplinano specifici procedimenti ed in particolare di quelle relative alla programmazione sociale di zona.

2. La co-programmazione è finalizzata all’individuazione, da parte della pubblica amministrazione procedente, dei bisogni da soddisfare, degli interventi a tal fine necessari, delle modalità di realizzazione degli stessi e delle risorse disponibili.

3. La co-progettazione è finalizzata alla definizione ed eventualmente alla realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni definiti, alla luce degli strumenti di programmazione di cui comma 2.

4. Ai fini di cui al comma 3, l’individuazione degli enti del Terzo settore con cui attivare il partenariato avviene anche mediante forme di accreditamento nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento, previa definizione, da parte della pubblica amministrazione procedente, degli obiettivi generali e specifici dell’intervento, della durata e delle caratteristiche essenziali dello stesso nonché dei criteri e delle modalità per l’individuazione degli enti partner”.

[4]

C. cost., sent. 26 giugno 2020, n. 131, Considerato in diritto, § 2.3, in cui si ribadisce quanto già stabilito dalla sent. 17 ottobre 2018, n. 185.

[5]

Ivi, § 2.1.

[6]

Ibidem.

[7]

Ibidem.

[8]

C. cost., sent. n. 131 del 2020, § 2.1.

[9]

Ibidem.

[10]

Com’è noto, il principio che, di norma, “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali”, fu enunciato per la prima volta nella celebre sent. 22 ottobre 1996, n. 356. In realtà, la più recente giurisprudenza costituzionale ha fortemente mitigato la portata preclusiva di tale regola, che spiegava effetti particolarmente nocivi sulla dinamica dei giudizi in via incidentale, in quanto condannava all’inammissibilità le questioni di costituzionalità sollevate senza previo tentativo di interpretazione conforme e incentivava così i giudici comuni a adeguare le norme legislative ai princìpi costituzionali anche a costo di far uso di una certa inventiva. In direzione di un positivo superamento della formulazione più radicale dell’obbligo di interpretazione conforme sembra attualmente muoversi il recupero delle sentenze interpretative di rigetto, tra le quali si annovera la decisione assunta nel nostro caso. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che la pronuncia in commento trae origine da un ricorso proposto in via principale, per il quale sarebbe stata decisamente poco appropriata una decisione di inammissibilità per mancato tentativo di interpretazione conforme: nel giudizio instaurato in via principale, infatti, non c’è un giudice rimettente (che è il soggetto su cui ricade l’obbligo di interpretazione conforme) né è presente quell’elemento di concretezza che caratterizza il giudizio incidentale, nel quale la norma dev’essere interpretata dal giudice a quo per essere applicata a una fattispecie concreta. Nondimeno, in passato si sono comunque registrati dei precedenti di inammissibilità per mancato tentativo di interpretazione conforme anche rispetto a questioni sollevate in via principale (v. C. cost., sent. 14 luglio 2015, n. 153). A proposito delle distorsioni cagionate dall’uso delle pronunce di inammissibilità per mancato tentativo di interpretazione conforme, v. M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione (ad vocem), in Enc. dir., Ann., vol. IX, Milano, 2016, pp. 391-477, in particolare pp. 466-472.

[11]

C. cost., sent. n. 131 del 2020, § 2.3.1.

[12]

Ibidem.

[13]

Ibidem.

[14]

Già nel 2011 la dottrina civilistica suggeriva di indagare la ricaduta del principio di sussidiarietà sull’esercizio dell’autonomia privata, con particolare riferimento all’attività privata funzionale agli interessi generali della collettività: “[u]na riflessione a parte meriterebbe un tema ancora piuttosto inesplorato nei suoi riflessi privatistici […]: la ricaduta sull’esercizio dell’autonomia privata del principio di sussidiarietà – introdotto nel testo costituzionale (artt. 118, comma 4° e 120, comma 2°) da una riforma del 2001 – la cui dimensione sociale – cd. orizzontale -, che una ampia corrente di pensiero riteneva già compresa nel testo del 1948 (artt. 2, 3, 29 cost.), vuol demandare alla comunità sociale, e dunque all’iniziativa privata, la competenza e la legittimazione ad assumere determinazioni, rilevanti nell’interesse della collettività, commisurate sui titolari degli interessi coinvolti. La sede della previsione – il titolo V della Costituzione, relativo agli enti pubblici territoriali, nella parte dedicata all’ordinamento della Repubblica – non lascia subito presagire la rilevanza privatistica del principio. Ma ciò non deve condizionare l’interprete nel senso di sottovalutarne le reali potenzialità anche in funzione della tutela costituzionale dell’autonomia privata funzionale agli interessi generali. In questa direzione il testo dell’art. 118, comma 4° cost. impone di intraprendere qualche indagine volta a sondare i corollari del principio nella fenomenologia delle attività private e dei modelli di tutela che possono ricavarsene, segnatamente tra atti di esercizio dell’autonomia e disciplina inderogabile”. Così E. Del Prato, Lo spazio dei privati. Scritti, Bologna, 2016, pp. 52-53.

[15]

C. cost., sent. n. 131 del 2020, § 2.1.

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