Lo scritto costituisce una breve sintesi in italiano di uno studio più ampio redatto in lingua inglese dall’Autore su incarico del Parlamento europeo. Lo studio, dal titolo A statute for European cross-border associations and non-profit organizations, è disponibile on line: clikka qui.
Gli enti che non hanno scopo di lucro – ovvero l’obiettivo di realizzare utili per poi distribuirli a soci, amministratori ed altri soggetti che su di essi esercitano il controllo o che sono coinvolti nella loro attività – sono una tipologia organizzativa ben nota in tutti i paesi europei nonché a livello di Unione.
L’Italia, con i suoi circa 360.000 enti non profit (attestati dall’Istat con riferimento al 31/12/2018), non costituisce dunque in Europa né un caso isolato né il paese con il maggior numero di enti in rapporto alla popolazione. Per fare solo qualche esempio, in Francia risultano attualmente registrate 2 milioni di associazioni (in Italia poco più di 300.000). In Belgio (la cui popolazione è circa cinque volte inferiore a quella dell’Italia) potevano contarsi 110.000 associazioni attive nel 2017. In Germania ci sono almeno 23.000 fondazioni (in Italia sono quasi 8.000). L’Irlanda, pur avendo meno di 5 milioni di abitanti, può contare più di 33.000 enti non profit (tra cui circa 10.500 charity registrate).
Le forme giuridiche più diffuse di enti non profit sono l’associazione e la fondazione. Tutti i paesi dell’Ue hanno una disciplina specifica di associazioni e fondazioni. Essa, tuttavia, non solo trova fonte in atti di diversa natura formale (ci sono ad esempio leggi specifiche su associazioni e fondazioni in Francia; in Germania, come in Italia, le associazioni e le fondazioni sono invece disciplinate nell’ambito del Codice civile; qualcosa di molto originale si trova in Belgio, dove è stato approvato nel 2019 il Codice delle società e delle associazioni, in cui peraltro, nonostante il titolo, trovano disciplina anche le fondazioni), ma varia sostanzialmente di paese in paese, ancorché non manchino numerosi elementi in comune.
Le associazioni e le fondazioni (nonché le mutue) non sono peraltro le uniche forme giuridiche di enti non profit. Con sempre maggiore frequenza sono infatti riconosciute negli ordinamenti giuridici degli Stati Membri dell’Ue anche le società di capitali senza scopo di lucro o a lucro limitato, nonché le società cooperative senza scopo mutualistico. In Italia, ad esempio, le società a lucro limitato (ai sensi dell’art. 3, comma 3, lett. a, d.lgs. 112/2017) possono assumere la qualifica di impresa sociale, e le cooperative sociali – che sono imprese sociali di diritto – hanno lo scopo di perseguire l’interesse generale della comunità (art. 1, comma 1, l. 381/1991). Analoghe alle cooperative sociali italiane, sono le società cooperative di interesse collettivo francesi e le cooperative accreditate come imprese sociali in Belgio.
L’area del non profit è dunque sempre più trasversale alle forme giuridiche, nel senso che potenzialmente tutte le forme giuridiche finiscono per poter assumere per legge uno scopo diverso dalla distribuzione di utili. Ciò realizza una crescente “neutralità funzionale” delle società e delle cooperative, non più necessariamente legate rispettivamente allo scopo di lucro e allo scopo mutualistico. In alcuni paesi, come Germania e Irlanda, la legge esplicitamente dispone che le società possono avere “qualsiasi scopo lecito”, e dunque non necessariamente uno scopo di lucro ovvero di divisione degli utili (come invece continua in generale a prevedere il nostro art. 2247 del codice civile).
Oltre a ciò, l’analisi comparatistica rivela che nelle legislazioni degli Stati Membri è anche normalmente previsto e contemplato uno status di pubblica utilità a disposizione di enti senza scopo di lucro che perseguono determinate finalità ritenute dal legislatore di pubblico interesse. Esempi emblematici sono lo status di “charity” in Irlanda (disciplinato dalla nuova legge sulle charity del 2009, entrata in vigore nel 2014) e quello di ente “mit gemeinnützige Zwecke”, cioè con scopi di pubblica utilità, in Germania (ai sensi degli artt. 52 e ss. del Codice fiscale tedesco). Questo status assume denominazioni diverse a seconda dell’ordinamento giuridico nazionale, ma è identificato sostanzialmente sulla base di requisiti analoghi. Il livello di approssimazione delle leggi nazionali europee relative allo status di pubblica utilità è sicuramente maggiore di quello presente nelle leggi relative alle singole forme giuridiche del non-profit.
In alcuni paesi, poi, sono istituiti dal legislatore nuovi status di utilità sociale che vanno oltre i classici status di pubblica utilità per due ragioni principali. Innanzitutto perché acquisirli è consentito anche ad enti caratterizzati dallo svolgimento anche esclusivo di attività d’impresa. In secondo luogo perché acquisirli è consentito anche a società che entro certi limiti distribuiscono utili ai propri soci. Nell’ambito di queste categorie, pertanto, coesistono enti che hanno diversa forma giuridica (associazioni, fondazioni, società, cooperative), nonché tanto enti totalmente senza scopo di lucro quanto enti che lo sono soltanto parzialmente. Gli esempi più significativi sono lo status di ente del terzo settore recentemente introdotto dal legislatore italiano e lo status di ente dell’economia sociale e solidale previsto dalla legge francese del 2014.
La legislazione, pertanto, sembra adeguarsi all’evoluzione concettuale cui ormai da diversi anni si sta assistendo. Al settore non-profit in senso stretto si vanno sempre più sostituendo nel dibattito di economisti e sociologi settori più ampi (variamente denominati in Europa: terzo settore, economia sociale, società civile, ecc.) caratterizzati più dalle finalità di pubblica utilità in positivo perseguite dagli enti che li compongono (nonché dal possesso di altri requisiti, anche di natura organizzativa) che dalla mera assenza di finalità lucrative.
Un tentativo in questo senso molto interessante – dall’evocativo titolo “Oltre gli enti non-profit: In cerca del terzo settore” – è quello recentemente effettuato da un gruppo di studiosi nell’ambito di un progetto di ricerca sul terzo settore in Europa1.
Lo studio si propone infatti di discutere di un più ampio “terzo settore” o “settore dell’economia sociale”, che includa non solo i “classici” enti non profit, ma più in generale tutte le organizzazioni caratterizzate da uno scopo di pubblica utilità, ovverosia “undertaken primarily to create public goods, something of value primarily to the broader community or to persons other than oneself or one’s family, and not primarily for financial gain; exhibiting some element of solidarity with others”. Avendo compreso il loro contributo positivo all’economia e alla società, ma anche la loro prossimità agli enti non-profit più tradizionali, anche le Nazioni Unite stanno mutando il loro approccio al tema. Nel Manuale del 2018 sul conto satellite del non-profit, che costituisce un aggiornamento del precedente manuale del 2003, le Nazioni Unite fanno adesso riferimento al “third or social economy (TSE) sector”, che comprende sia le istituzioni non-profit sia altre istituzioni ad esse collegate, che non sono non-profit, ma che, come quest’ultime, servono primariamente finalità sociali o di pubblico interesse e non sono controllate dai governi2.
Anche a livello di diritto dell’Unione europea gli enti non-profit non costituiscono un oggetto misterioso. Ad essi fa innanzitutto riferimento il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea in maniera apparentemente discriminatoria (art. 54, comma 2)3. Il Trattato sull’Unione europea ne riconosce invece il ruolo fondamentale a cospetto delle istituzioni europee (art. 11, comma 2)4. Gli enti non-profit sono poi oggetto di diverse pronunce di fondamentale importanza della Corte di Giustizia dell’Ue. Alcune di esse rimuovono ostacoli giuridici alla loro attività transfrontaliera5, altre li parificano agli altri enti sotto il profilo del diritto della concorrenza e degli aiuti di stato6, altre ancora ne riconoscono tuttavia quelle specificità che giustificano deviazioni rispetto alla normativa euro-unitaria degli appalti pubblici7.
Ciononostante, gli enti non-profit sono privi di una loro disciplina specifica sul fronte del diritto europeo delle organizzazioni, a differenza di altri enti giuridici – come le società di capitali, le società cooperative e il gruppo europeo di interesse economico – per cui esistono specifici regolamenti europei che creano fattispecie organizzative opzionali di diritto europeo, equivalenti a quelle nazionali, che cittadini ed enti possono utilizzare per condurre attività connotate da dimensione sovranazionale8.
Qualcosa di simile manca invece per gli enti non-profit. Eppure è a partire dagli anni 90’ dello scorso secolo che le istituzioni europee, spinte dagli organismi rappresentativi degli stakeholder, provano ad introdurre una disciplina europea in materia, ma sempre senza successo. La prima proposta sulla associazione europea è del 1991, quella sulla fondazione europea è più recente, da tempo si parla anche di mutue europee, ma tutti questi tentativi non hanno mai avuto esito positivo. Sono tutti falliti.
Il dibattito si è riacceso negli ultimi anni. Di enorme rilevanza è al riguardo la risoluzione del 2018 del Parlamento europeo in cui si chiede alla Commissione europea di attivarsi per introdurre uno statuto europeo delle imprese sociali9.
È possibile ottenere oggi il risultato non conseguito negli scorsi decenni? Si potrà finalmente avere uno statuto europeo di associazioni ed altri enti non-profit?
Premesso che i benefici di questa legislazione sarebbero enormi e di diversa natura (politica, sociale ed economica), le difficoltà insite nel progetto non sono tuttavia da trascurare. Le differenze di disciplina tra paesi europei rimangono molto significative, e ciò, unitamente ad altri fattori, rende l’obiettivo di complessa, seppur non impossibile, realizzazione. Occorre infatti interrogarsi sulle forme e le modalità di questa possibile legislazione europea sul non-profit per valutare se vi siano strade praticabili. Scartate le due ipotesi estreme, cioè mantenere lo status quo ed armonizzare i diritti nazionali, tre ipotesi appaiono degne di specifica considerazione.
La prima è ritornare sull’ipotesi di introdurre forme giuridiche europee di associazione, fondazione e mutua, mediante regolamenti europei simili a quelli già utilizzati per istituire la società europea e la cooperativa europea10. Si tratta però di una strategia di complessa realizzazione per le medesime ragioni che hanno condotto al fallimento i tentativi precedenti svolti negli ultimi trenta anni. La difficoltà sta soprattutto nel fatto che occorrerebbe approvare diversi regolamenti (uno per ogni forma giuridica), e che per ogni regolamento sarebbe necessario ottenere l’unanimità ai sensi dell’art. 352 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. A ciò deve aggiungersi il fatto, non meno rilevante, che questa legislazione per forme giuridiche sarebbe oggi in un certo senso anacronistica, perché non terrebbe conto degli sviluppi avvenuti a livello di diritti nazionali, dove, come detto, nuovi status di utilità sociale vengono creati che prescindono dalla forma giuridica di costituzione dell’ente e sono principalmente fondati sulle finalità perseguite e la governance (rilassando invece l’elemento della non distribuzione di utili).
La seconda consiste nel far ricorso al meccanismo della cooperazione rafforzata di cui all’art. 20 del Trattato sull’Unione europea, soprattutto al fine di bypassare l’unanimità dei consensi11.
Tuttavia, la sua limitata applicazione (solo agli Stati membri firmatari) e il fatto che la legislazione sarebbe pur sempre una legislazione per forme giuridiche, rendono questa ipotesi, sebbene più realistica in concreto, non raccomandabile per le medesime ragioni per cui non lo è la precedente.
La terza consiste infine nell’istituire per direttiva lo status giuridico di “ente europeo del terzo settore”: una sorta di marchio a rilevanza transfrontaliera, acquisibile in ciascuno stato membro da tutti gli enti che posseggano i requisiti minimi individuati nella normativa stessa.
Questa strategia – teorizzata per la prima volta da chi scrive in un precedente studio sull’impresa sociale12 e poi accolta anche dal Parlamento europeo nella già menzionata Risoluzione del 201813 –
avrebbe il vantaggio di risolvere numerose questioni poste dall’attuale mancanza di una disciplina europea ad hoc, senza però la necessità di superare tutte le difficoltà che una legislazione puntuale basata sulle forme giuridiche dovrebbe affrontare e risolvere. Lo status europeo sarebbe infatti fondato sul possesso di alcuni requisiti essenziali, mentre per il resto l’ente sarebbe governato dal diritto nazionale competente per territorio. Gli enti muniti della qualifica sarebbero però riconosciuti da tutti gli stati membri, i quali sarebbero tenuti a garantire loro una disciplina analoga agli enti di diritto nazionale che abbiano il medesimo status. Ciò varrebbe anche sul fronte fiscale. Ad esempio, se un ente nazionale in possesso della qualifica di “ente europeo del terzo settore” ha la possibilità di ricevere donazioni fiscalmente agevolate (per intenderci, come quelle di cui all’art. 83 del nostro Codice del terzo settore), anche un ente straniero in possesso della medesima qualifica dovrà esserlo, in maniera automatica e senza bisogno di superare alcun test di comparabilità o compatibilità, anche se la qualifica è stata acquisita in un altro paese dell’Unione europea.
Quanto ai requisiti dello status di “ente europeo del terzo settore”, traendo spunto dalle leggi nazionali vigenti in materia, essi potrebbero essere:
1) la natura di ente privato (né pubblico né controllato da enti pubblici), indipendentemente dalla forma giuridica di costituzione (associazione, fondazione, società, ecc.);
2) il perseguimento esclusivo di fini di pubblica utilità (o di utilità sociale);
3) l’obbligo di usare le risorse, inclusi utili annuali ed avanzi di gestione, per l’esclusivo perseguimento delle finalità di pubblica utilità, essendo tuttavia ammessa entro precisi limiti la remunerazione del capitale conferito dai soci (negli enti che hanno la forma di società di capitali), per le medesime ragioni per cui dovrebbe essere consentito corrispondere compensi ragionevoli ad amministratori e lavoratori; tale asset-lock dovrà operare anche in caso di scioglimento dell’ente (sicché il patrimonio residuo dovrà essere devoluto “disinteressatamente” ad altri enti col medesimo status);
4) l’obbligo di rispettare alcuni oneri organizzativi e di trasparenza, necessari ad assicurare la coerenza tra azione e finalità;
5) l’iscrizione in pubblici registri (necessaria a fini di conoscenza del possesso dello status, specie in paesi diversi da quello di costituzione, e del successivo controllo pubblico);
6) la sottoposizione a controlli pubblici volti ad accertare il possesso dei requisiti per l’acquisizione e il mantenimento dello status.