L’amministrazione condivisa come metodo per preservare il principio personalista

Di Luca Antonini Giudice Costituzionale

1. La radice del principio personalista.

Il libro «Per un laboratorio dell’amministrazione condivisa», curato da Barbara Boschetti e pubblicato all’interno della collana dei Quaderni di Terzjus, che oggi presentiamo, è veramente interessante e riflette una duplice coordinata metodologica: quella della interdisciplinarietà e quella di ascoltare la voce dell’esperienza.

Queste due coordinate lo rendono davvero utile per avere il polso di cosa sia l’amministrazione condivisa oggi in Italia.

Questo è importante, perché penso che l’amministrazione condivisa sia veramente la possibilità, – forse l’unica possibilità – per il nostro welfare locale di mantenere viva una dimensione personalistica.

La dimensione personalistica è quella che anima tutta la nostra Costituzione.

La sintetizzo in quella straordinaria frase di La Pira, tagliente – diremmo oggi – come  un tweet:  «non è la persona per lo Stato ma lo Stato per la persona» e sulla quale, in Assemblea costituente si trovò la condivisione anche di Togliatti.

I Padri costituenti avevano letto tutti Maritain, «La personne et le bien commun», il libro uscito nel 1946, e si ritrovarono su questo aspetto del personalismo.

Io penso che l’amministrazione condivisa rappresenti una declinazione moderna di questo personalismo.
            In Italia, infatti, la società solidale è sempre esistita e oggi mantiene una straordinaria vitalità: proprio Terzjus, pochi mesi fa, ha messo in evidenza che esistono quasi 363 mila enti non profit in Italia, di cui tanti ormai iscritti nel registro del terzo settore.

2. Il corto circuito italiano e le sue cause.

Il cortocircuito che si è verificato in Italia è che a questa società solidale raramente è stata data la possibilità di rapportarsi adeguatamente con la pubblica amministrazione, che da sempre si è mossa su altro binario, quello – lo sostengo da tempo – dell’antropologia negativa.

È l’homo homini lupus, perché la pubblica amministrazione italiana è rimasta impostata su questa matrice culturale, che va da Plauto a Hobbes, da Machiavelli a Lutero.

L’articolo 55 del codice terzo settore, rappresenta quindi una novità straordinaria, perché in una logica hobbesiana una simile previsione non può esistere: in quella dimensione culturale che la programmazione, ovvero il propium dell’azione politica, sia condivisa non può essere concepito. 

C’è però un’altra matrice culturale, che è quella dell’antropologia positiva, già adombrata in Sant’Agostino, nel De vera religione, quando dice che l’ordine della società è ferito dal peccato originale, ma nasce dalla natura umana creata buona da Dio e dalla sua esigenza di socialità: “…Habet quippe et ipse modum quemdam pulchritudinis suae”.

È una radice che si sviluppa in San Tommaso, Tocqueville e che continua, più recentemente, in  Ropcke, uno dei fondatori dell’economia sociale di mercato, in Arrow.

Quest’ultimo parla di “desideri socializzanti” e li considera l’antidoto che impedisce a una democrazia di rimanere una democrazia solo formale o peggio ancora di degenerare in un’autocrazia.

La medesima radice si ritrova nelle capabilities di Sen e Nussbaum e ancora in quel contratto sociale senza spada prefigurato da Elinor Onstrom.

Si tratta di teorie moderne, molto più moderne di quelle a matrice hobbesiana, da cui deriva un metodo. Mentre un’antropologia negativa porta a sviluppare dinamiche repressive, una positiva privilegia quelle premiali e favorisce il passaggio dalle logiche assistenzialistiche a quelle di sviluppo delle “capacitazioni”; inoltre tende a considerare il cittadino, prima che un controllato della P.A., come una risorsa della collettività; infine considera l’interesse generale (cioè il bene comune) non più come monopolio esclusivo del potere pubblico, ma come un’auspicata prospettiva dell’agire privato.

La logica che ha dominato, e tutt’ora spesso domina, la pubblica amministrazione italiana è invece che solo essa ha il monopolio dell’interesse pubblico. E se dialoga con il Terzo settore lo fa con gli stessi strumenti con cui dialoga col mercato, che è il mondo degli egoismi.

Non si è resa conto che c’è un altro mondo, che è quello della società solidale, cui si riferisce appunto l’art. 55 del codice del terzo settore e che è valorizzato dalla sentenza 131 del 2020 della Corte costituzionale, che nasce proprio come reazione a un parere del Consiglio di Stato che aveva ridotto tutto al principio di concorrenza e dimenticato quello di solidarietà.
            Si trattava di un parere decisamente contestato dalla dottrina, che ha rimarcato l’esistenza di un mondo non lucrativo, che se richiede risorse non lo fa per scopo di lucro, come il mondo del mercato, ma lo fa per reinvestire nei bisogni, nella società, nell’aiuto alle persone.

3. La differenza tra principio di gratuità e quello di non lucratività.

C’è quindi una radicale differenza tra le società del mercato e la società solidale, il mondo non lucrativo. La sentenza 131 si struttura su questa differenza, mostrando come anche l’Unione Europea l’abbia riconosciuta. C’è peraltro una recente sentenza della Corte di Giustizia che rimarca ulteriormente la possibilità di non rapportarsi con gli strumenti del mercato a quello che è un mondo non lucrativo e che può portare progressi nella gestione dei servizi sociali.

Da questo punto di vista sorprende che il volume che presentiamo debba evidenziare che ancora diverse sentenze dei Tar siano ferme sul principio di gratuità, senza rendersi conto che c’è un’altra categoria che deve essere valorizzata, che è quella della non-lucratività.

Il principio di non-lucratività è diverso da quello di gratuità.

La riduzione della non-lucratività alla gratuità è stata smentito sia dalla sentenza 131, sia da un successivo parere del Consiglio di Stato, sia dall’Anac. Non si può quindi continuare ad affermare che tutto deve essere gratuito altrimenti si deve fare la gara. Questo è sbagliato.

Perché esiste  il mondo della non-lucratività, che coincide con quello della società solidale, che è quello che la nostra Costituzione valorizza con l’articolo 2 e che, con una serie di ulteriori disposizioni, come l’articolo 118, richiede sia valorizzato anche con strumenti diversi da quelli del mercato.

Peraltro il legislatore si è adeguato alla sentenza 131 con la riforma anche del Codice degli Appalti e il Governo ha emanato linee guide in cui ha procedimentalizzato ulteriormente questo principio.

Sono quindi piuttosto a disagio, in conclusione, nell’aver letto che c’è ancora giurisprudenza, che con un pensiero rachitico, continua a marciare sul binario di vecchi luoghi comuni.

4. Persone e non “pratiche” burocratiche.

In positivo, sono invece stato sorpreso da interessanti sviluppi legislativi, come quelli della Toscana e dell’Umbria, che forniscono anche cassetti degli attrezzi per valorizzare l’amministrazione condivisa.

Questo perché davvero – e ritorno sul pensiero iniziale – penso che l’amministrazione condivisa sia una delle chiavi di governance più importanti per il futuro dell’Italia, a livello del welfare locale.

È una rivoluzione, nel senso che fa tornare all’origine, alla centralità della persona. L’amministrazione condivisa, infatti, getta un ponte fra una pubblica amministrazione – questo l’ha recentemente ribadito Giuliano Amato – che rimasta chiusa in se stessa.

Questa rivoluzione, pertanto, permette alla pubblica amministrazione di aprirsi alla società solidale e di realizzare un plus valore enorme.

Fa capire, ad esempio, che i soggetti assistiti non sono “pratiche burocratiche”, ma persone.

E questo i funzionari pubblici lo possono capire dentro questo dialogo con la società solidale, perché il mondo non profit è quello che, se raccordato con la pubblica amministrazione, permette non solo di portare il pezzo di pane, ma di dire anche che “tu vali” a una persona. E questo “tu vali”, in genere, è quello che ne permette il riscatto. Con solo un pezzo di pane si risponde a un bisogno, ma non si riscatta una vita.

5. La potenzialità del welfare locale grazie alla amministrazione condivisa.

Pensiamo cosa vorrebbe dire strutturare così i sistemi di welfare locale: le esperienze che vengono descritte nel volume lo dimostrano, nel senso che mostrano proprio il plus valore che l’amministrazione condivisa è in grado di generare.

Ad esempio nell’esperienza dell’Umbria è stata avviata una scuola di innovazione sociale dove si predispongono laboratori di amministrazione condivisa per l’utilizzo dei fondi strutturali.

È quanto mai importante: in Calabria, ad esempio, alcuni comuni che hanno i fondi non autosufficienza, in alcuni casi davvero risalenti, non spesi e così non vengono impiegate risorse essenziali per soggetti affetti da disabilità gravissima e che potrebbero garantire l’assistenza domiciliare integrata e servizi di supporto sociale.

Invece questi fondi restano non impiegati perché i comuni non sono in grado di predisporre i progetti. Ora sappiamo la sofferenza e il calvario di persone come i malati di SLA, che vengono abbandonati per questo banale motivo da un ente che ha le risorse ma non le impiega per assisterli.

Questa situazione è davvero inconcepibile. Quanto lontano ci sia in questa situazione dalla concezione personalistica della nostra Costituzione è evidente a tutti!

L’amministrazione condivisa sarebbe invece la soluzione: con le associazioni i comuni potrebbero raccogliere i bisogni dei territori e organizzare interventi strutturali, con un costo di progettazione irrisorio, affidandosi alle competenze e alla conoscenza delle problematiche delle associazioni che, appunto, si occupano di questi problemi.

Questo secondo me è importantissimo. Il nostro welfare, che purtroppo ha sempre meno risorse, potrà sopravvivere solo se si sviluppa a questa apertura, a questa sinergia.

Molto interessante, allora, è l’esperienza del Consiglio di indirizzo del welfare della città di Brescia, descritta nel volume; ma possiamo anche pensare sviluppi ulteriori: ad esempio le missioni M5 e M6 del PNRR riguardano gli ospedali di comunità e qui l’apporto degli ETS potrebbe essere straordinario grazie alla amministrazione condivisa. Infatti, il deficit che abbiamo registrato con il Covid è stato proprio la mancanza di ospedali di comunità e questo con l’apporto del Terzo settore potrebbe essere colmato.

6. Una conclusione: l’amministrazione condivisa anche come metodo per ridare un’anima alla politica.

Nel nostro sistema politico i partiti hanno evidentemente perso il ruolo di corpi intermedi, risultando dominati da una “leadercrazia”, che vive essenzialmente sui social. Perdere il principale corpo intermedio del nostro sistema non è stato indolore: questa disintermediazione ha pesato molto sulla nostra democrazia.

Una volta, infatti, era proprio nel corpo intermedio rappresentato dal partito che avveniva, in una vita associativa fatta di discussione, di selezione dei temi, di assunzioni di responsabilità, una educazione al bene comune. Si discuteva e si riusciva ad arrivare a decisioni importanti anche su temi eticamente controversi. Oggi su questi temi il Parlamento non legifera più, perché attraversato trasversalmente da posizioni diverse che non hanno più un luogo dove trovare un punto di sintesi.

In questo vuoto può essere riscoperto il ruolo del Terzo settore.

La sentenza n. 72 del 2022 accenna a questa possibilità, dove dopo avere evidenziato che: «all’origine dell’azione volontaria vi sia l’emergere della natura relazionale della persona umana che, nella ricerca di senso alla propria esistenza, si compie nell’apertura al bisogno dell’altro», precisa che «il volontariato costituisce una modalità fondamentale di partecipazione civica e di formazione del capitale sociale delle istituzioni democratiche».

In altre parole, la sentenza evidenzia come una educazione al bene comune oggi avviene dentro il mondo degli Enti non profit.

Allora, l’amministrazione condivisa può diventare una palestra di educazione al bene comune, perché l’assessore, il dirigente comunale, il funzionario, si troveranno a dialogare con soggetti che, animati da una mission ideale ed educate al bene comune, trattano le persone come persone e non come pratiche burocratiche.

L’amministrazione condivisa rappresenta quindi, oltre a tutto ciò che abbiamo detto, anche un punto di sintesi tra enti del Terzo settore e la politica; può diventare, in altre parole, una palestra di educazione al bene comune e al principio personalista: forse ciò che erano una volta i partiti oggi lo possono fare le “palestre” di amministrazione condivisa.  

Anche da questo punto di vista penso quindi che sia estremamente interessante l’amministrazione condivisa, perché può non solo gettare un ponte tra la società solidale e la pubblica amministrazione, ma anche con la politica; contribuendo, così, a ridarle un’anima.

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