“Porta aperta” e status di socio negli enti del Terzo settore

Il Titolo IV del Codice del Terzo settore contiene un insieme di disposizioni che si applicano a tutti gli enti del Terzo settore costituiti in forma di associazione, riconosciuta o non riconosciuta o di fondazione (art. 20).

1. Un primo dato, quasi scontato ma che è opportuno segnalare, è che la disciplina del codice civile in tema di associazioni e di fondazioni non viene affatto superata ma viene declassata dal legislatore della Riforma, nel senso che a mente del comma 2 dell’art. 3 “Per quanto non previsto dal presente Codice, agli enti del Terzo settore di applicano, in quanto compatibili, le norme del Codice civile e le relative disposizioni di attuazione”. La singolarità sta nel fatto che nella gerarchia delle fonti il codice civile perde il suo ruolo di supremazia a favore del CTS. La disposizione ha una sua logica, ma in effetti potrebbe generare o meglio reiterare problemi non di poco conto laddove soprattutto l’applicabilità della disciplina in tema di associazioni a favore delle non riconosciute sia fortemente discusso. Con il che c’è il rischio che si reiterino i profili interpretativi che avevano spesso bloccato gli interpreti e la giurisprudenza prima dell’entrata in vigore del CTS.

2. Che dire però adesso del caso degli enti diversi dalle società citati dall’art. 4? A mente di quest’ultima disposizione che fornisce i requisiti differenziatori degli ETS si fa riferimento non solo alle tradizionali tipologie codicistiche ma anche “agli altri enti di carattere privato diversi dalle società”. Perché la norma dell’art. 20 non ne fa più menzione laddove introduce le disposizioni generali potremmo dire comuni a tutte le associazioni, le non riconosciute e le fondazioni in forza di ETS? Qualcosa è rimasto nella penna del legislatore? Forse sì, ma con tutta probabilità si potrebbe uscire dalle incertezze interpretative laddove si facesse rientrare simile tipologia di soggetto tra gli enti associativi atipici che presentino ad ogni buon conto tratti diversi dalle società. Diversamente non si spiegherebbe come poter far rientrare nel diritto degli ETS profili che sono volutamente modificativi delle linee codicistiche e che debbono valere per tutti gli enti che non appartengono al libro V (esclusi come noto i comitati).

3. In questa sede non interessa esaminare i profili in tema di costituzione e di acquisto della personalità giuridica, seppur rilevanti nell’economia del Titolo IV. Bensì all’interno del Capo concernente l’Ordinamento e l’Amministrazione, esplorare una norma, l’art. 23, che porta in rubrica un titolo di estremo interesse per le tematiche che si andranno qui di seguito esaminando.

La rubrica recita: “Procedura di ammissione e carattere aperto delle associazioni”. L’estensore di queste note è consapevole della circoscritta funzione interpretativa che può avere una rubrica che fa da cappello ad una norma tra l’altro largamente e forse fin troppo dispositiva. Rubrica legis non est lex, recita il brocardo. La rubrica (che in latino significa “scritto con inchiostro rosso”) di una disposizione è il breve titolo che la precede e ne riassume il contenuto. Essa non ha valore di legge, né è decisiva ai fini esegetici. Ma è indubbio che simile dizione e l’accento posto alla seconda parte della frase potrebbero giustificare una chiave interpretativa del quadro normativo generatrice di incertezze quanto a qualificazione dell’ente.

Si ripete. Non si vuole aprire un dibattito esegetico fine a sé stesso. Ma si intende da subito sottolineare un dubbio. La disciplina delle associazioni, quella codicistica e quella del Terzo settore, presentano caratteri tra loro così diversi da non potersi ricondurre al supposto carattere aperto delle associazioni? La risposta, nonostante l’inquadramento fiscale attualmente vigente, largamente equivoco, non può che essere offerta in termini problematici.

Primo assunto. Le associazioni sono enti necessariamente aperti.  Si ritiene per lo più che simile assunto sia falso. Il presupposto di partenza sarebbe il carattere necessariamente democratico dell’ente. La conseguenza, al di là della facciata: se per esempio un ente obbliga il potenziale aderente al versamento di una quota di ingresso di ammontare rilevante, o, peggio, consente il trasferimento di documenti rappresentativi dello status di socio che entro certi limiti circolano o ancora contingenta gli ingressi, è ancora associazione? In caso negativo, che cosa sarebbe?

In verità la disciplina codicistica in tema di associazioni non riconosciute, si presta a queste incertezze ed anche ad impieghi distorti o soltanto anomali del contratto associativo. Ma di qui a sostenere che l’associazione, alias qualunque genere di associazione debba rivestire il carattere di ente aperto, assolutamente aperto perché altrimenti perderebbe i suoi tratti democratici, ce ne passa.

Secondo assunto. In verità parrebbe più consono alla filosofia generale della disciplina del Terzo settore, al netto di complicazioni di natura tributaria che necessiterebbero di un capitolo a parte, affermare che associazione è ente aperto sì ma solo tendenzialmente e quindi non indefettibilmente e necessariamente. Se per l’istituto della società cooperativa vale il principio internazionalmente riconosciuto della “porta aperta”, ciò non significa che l’ente debba accogliere al suo interno chiunque ne condivida lo spirito e si dichiari disponibile a raggiungere l’oggetto sociale. Questo vale sicuramente per le cooperative del fronte lavoro (meno su quello dell’utenza). Il numero indiscriminato non si coniuga con l’impresa, l’accesso indiscriminato porterebbe a far perdere di vista l’obiettivo finale che si prefigge l’ente stesso.

Mutatis mutandis pensare che il principio della porta aperta porti ad autorizzare l’ingresso di chiunque chieda di entrare in un organismo associativo significa non tenere in conto che il numero può compromettere la stessa viability dell’ente, può condizionarne le finalità, può in altri termini condurre a risultati diversi dai propositi che si sono prefissati i fondatori. Ciò se è vero per un piccolo circolo di quartiere non altrettanto può dirsi per un’associazione sportiva che fruisce di grandi strutture per il gioco del calcio.

Nell’apprezzare quindi l’apertura dell’associazione verso l’esterno non si può non tenere conto delle finalità associative perseguite, degli strumenti utilizzati per portarle avanti e dell’organizzazione di cui si dispone. Un ente del Terzo settore che svolge necessariamente un’attività di interesse generale, per essere qualificato nell’ordinamento come tale, ben può limitare, senza peraltro escludere, l’accesso a terzi tutte le volte in cui l’aprire indiscriminatamente porti a rendere estremamente difficile se non impossibile il raggiungimento di quella certa finalità. Pena la sua stessa esistenza come ETS.

A conferma di ciò va sottolineato che, in altra parte del corpo della legge, il CTS ha cura di chiarire che in sede di atto costitutivo devono essere fissati i requisiti per l’ammissione dei nuovi associati così come la relativa procedura, secondo criteri non discriminatori, coerenti con le finalità perseguite e l’attività di interesse generale svolta.

Pertanto se mai volessimo dare un qualche significato nell’interpretazione della legge alla rubrica dell’art. 23, dovremmo concludere che “carattere aperto” significa che non debbono essere posti indiscriminati impedimenti all’accesso di terzi, che l’apprezzamento dell’organo deputato ad accordare l’ingresso oppure no deve essere adeguato e mai immotivato, che ben può essere previsto un momento di ripensamento in capo ad altro organo interno e che l’ingiustificato diniego può essere misura del corretto comportamento dell’organo amministrativo nei confronti dell’assemblea; ma mai portare a sanzioni in capo all’ente tutte le volte in cui siano forniti adeguati riscontri sotto il profilo del corretto perseguimento delle finalità di interesse generale.

Se si vuole ora entrare nella realtà della norma dell’art. 23, ci si rende conto che lo spazio riservato all’autonomia statutaria, “alla faccia” della dizione della rubrica, è immenso. Tre dei quattro commi della norma in parola si aprono con l’inciso “Se l’atto costitutivo o lo statuto non dispongono diversamente”. Le regulae juris essendo a) quella dell’ammissione dell’aspirante per effetto di apposita delibera dell’organo amministrativo, b) quello della necessaria motivazione del provvedimento di rigetto e conseguente onere di comunicazione e c) quello della impugnabilità del provvedimento di rigetto avanti ad altro organo, quello assembleare. Del che ne deriva che sull’ammissione può deliberare anche l’assemblea, che il provvedimento di rigetto può anche non essere motivato e che può anche non essere previsto un rimedio endosocietario in caso di rigetto della domanda di ammissione.

La ratio sottostante a simile complesso di norme mal si concilia in buona sostanza con una rubrica che quindi avrebbe il solo scopo di delineare un trend, ma non di condizionare l’operato degli enti la cui libertà negoziale tende di per sé sola ad espandersi.

Il vincolo associativo è quindi aperto a quanti possiedono i requisiti fissati in statuto in quanto risultino appartenere alla categoria sociologica di cui l’ente è momento di attivazione e quindi espressione organizzata ma è nello stesso tempo chiuso rispetto a quanti non presentano i requisiti richiesti.

Pertanto a mente sia dell’art. 16 che dell’art. 23 sarebbe nulla qualsiasi clausola che consenta indiscriminatamente l’accesso o che impedisca nuove adesioni. La miglior dottrina ritiene ad ogni buon conto che l’elencazione dei criteri e delle modalità di ammissione del nuovo socio non attribuiscano a questi un diritto soggettivo all’accesso una volta che l’aspirante sia in possesso di detti requisiti, ma unicamente un interesse legittimo al rispetto delle regole sostanziali e procedurali fissate in atto costitutivo o in statuto per l’ingresso.  Se non si può parlare di diritto soggettivo neppure si può parlare di obbligo a contrarre in capo all’ente: il candidato respinto non ha quindi rimedio processuale alcuno in presenza di adeguata motivazione proveniente dall’assemblea ed il giudice adito è tenuto unicamente a verificare l’effettività delle motivazioni addotte. In caso affermativo non vi sarebbe spazio per l’accoglimento della domanda, ma in caso negativo si darebbe corso unicamente alla quantificazione del danno, se provato.

Altrettanto invalida sarebbe la clausola statutaria che rimettesse l’ammissione di nuovi soci all’arbitrio degli amministratori. I riferimenti normativi che confortano al riguardo sono sia l’obbligo di motivazione di cui all’art. 24 comma 2 che l’obbligo di prevedere criteri non discriminatori all’accesso contenuto all’art. 21 comma 1.

4. Che dire del caso della cooptazione? Può simile pratica essere compatibile, in astratto, con la disciplina dell’art. 23?

Bisogna intendersi. Se si prescinde da una valutazione anche formale ad opera del consiglio direttivo o dell’assemblea perché è il frutto di una scelta insindacabile del Presidente o del Consiglio direttivo, si potrebbe concludere, come il caso inverso, per la illegittimità della stessa. Se significasse che l’ingresso nella compagine sociale passa necessariamente attraverso una segnalazione del socio perché poi siano osservate le procedure di statuto finalizzate ad una delibera del consiglio direttivo o dell’assemblea, la pratica della cooptazione non è affatto contraria a legge o a statuto. Significa in altri termini che un primo vaglio in termini di valutazione della persona e di apprezzamento della sussistenza dei presupposti di competenza e moralità del soggetto spetta ad un qualsiasi componente della compagine sociale, tanto più comprensibile laddove l’ente è di modeste dimensioni e tende ad avere una vita associativa pressoché giornaliera e partecipata. Fermo restando che la domanda di ingresso va indirizzata al Presidente, specialmente laddove la compagine sociale non sia in grado di esprimere forze nuove sul territorio. Ed ancora che l’assoggettamento della domanda ad un iter interno anche laborioso, non urta di per sé contro il principio della porta “tendenzialmente aperta”.

5. Nulla invece il legislatore dice in merito allo status di socio o associato che pure nella materia potrebbe avere grossa rilevanza.

L’unico dato normativo certo è rappresentato dal comma 1 dell’art. 21 laddove si prevede che è compito dell’atto costitutivo indicare tra gli altri i diritti e gli obblighi degli associati e quindi quel fascio di prerogative che caratterizza lo status di socio.

Ci si può domandare se lo status di socio o associato debba essere unico o se possano essere previste figure che presentano caratteristiche anche in parte diverse da quelle del socio ordinario.

Nel novero delle posizioni giuridiche attive del socio figurano il diritto di partecipare all’assemblea e di votare direttamente per l’approvazione e le modifiche dello statuto, dei regolamenti, e per la nomina degli organi sociali dell’associazione; il diritto di frequentare i locali dell’associazione e di usare le strutture e le attrezzature e più in generale il diritto di partecipare alla vita associativa ed alle attività promosse dall’associazione e di usufruire di tutti i servizi proposti.

Tra i principali doveri dei soci figurano: il rispetto dello statuto e dei regolamenti, l’osservanza delle deliberazioni adottate dagli organi sociali, il pagamento della quota associativa alla scadenza stabilita, il rispetto delle finalità dell’associazione attraverso un comportamento conforme agli indirizzi sociali.

Tutto quanto sin qui descritto consente di delineare la figura del socio ordinario.

Lo statuto può prevedere varie figure di soci come ordinari, fondatori, onorari, sostenitori, attivi ed altri ancora. Fino all’introduzione del CTS era comunque largamente condivisa l’opinione secondo la quale fra gli aderenti all’associazione dovesse esistere parità di diritti e doveri. Infatti, la disciplina del rapporto associativo deve garantire per tutti gli associati, l’effettività del rapporto medesimo.

Le figure di socio dianzi ricordate solo in parte possono definirsi tali.

Il socio fondatore per esempio potrebbe vedersi riconosciuta una posizione preminente legata al merito di aver concorso a dar vita all’iniziativa associativa. Non può però avere diritti o doveri aggiuntivi rispetto agli altri.

Nulla quaestio nel caso del c.d. socio onorario. Il soggetto in parola non è socio pleno iure. L’impiego del termine onorario o benemerito affonda le proprie radici in tradizioni consolidate ma sta ad individuare colui che, per la frequentazione dell’Associazione o per aver contribuito economicamente o esercitato attività in favore dell’Associazione stessa, ne ha sostenuto gli scopi associativi e la sua valorizzazione. Non dovrebbe però essere in alcun modo titolare delle prerogative di socio.

Sono però compatibili con la disciplina del CTS figure che mettano in risalto requisiti particolari del socio, altri rispetto al trinomio sottoscrizione di quota di ingresso e di quota periodica, partecipazione attiva alla vita associativa e di controllo oltre al diritto di elettorato alle cariche sociali attivo e passivo, e che quindi prescindano dal rispetto di una o più di questi requisiti?

La risposta allo stato della legislazione e nell’attesa dell’entrata in vigore della disciplina fiscale è complessa.

Nel codice si rinviene un indizio che porta a ritenere che non siano in contrasto con la disciplina del CTS le categorie di socio. L’“indizio” in parola è rinvenibile nell’art. 26 comma 4 secondo il quale “l’atto costitutivo o lo statuto possono prevedere che uno o più amministratori siano scelti tra gli appartenenti alle diverse categorie di associati”. Si tratta però di riempiere di contenuto l’espressione categoria di associati.

Se si parte dal presupposto che sarebbero possibili figure di socio prive di una delle prerogative principali connesse allo status (la partecipazione continua per esempio alla vita associativa o il diritto di voto oppure ancora l’obbligo di versamento di quote annuali), la costruzione della categoria sarebbe ben possibile nella misura in cui a) gli appartenenti alla categoria sono ritenuti soci e b) ad essi sia ricollegabile un certo fascio di diritti e doveri riconoscibili ed indefettibili. Per cui, in altre parole, se venisse riaffermata, seppur all’interno di ogni singola categoria, quel carattere democratico che è poi sinonimo di partecipazione, solidarietà e pluralismo, a loro volta espressione della funzione sociale degli enti del Terzo settore, non vi sarebbe violazione di norme imperative.

La democraticità a questo punto non sarebbe un profilo valido per tutti, ma intrinseco ad ogni singola categoria di soggetti facenti capo alla compagine sociale. Un unico dato pare certo. Il venire meno del requisito non può condurre a snaturare l’ente sotto il profilo della qualificazione giuridica di ente associativo.

La pratica dei club service (sviluppatasi, come noto, nell’ordinamento nord americano) insegna che vi possono essere contrazioni delle prerogative di socio sul lato della partecipazione attiva ed anche, ma non necessariamente, sul lato del voto. Ma potrebbe anche trattarsi di soggetti che garantiscono fin dall’inizio una partecipazione attiva e che ambiscono a votare, pur senza aver sottoscritto la quota di ammissione o quelle annuali ma solo quelle internazionali che denotano l’appartenenza all’organizzazione, in attesa di divenire socio pleno iure.

Potremmo avere così la figura dell’associato al Club che si è trasferito in altra località o che, per motivi di salute o altre valide ragioni, non può frequentare regolarmente le riunioni di Club pur desiderando rimanerne associato (i.e. socio aggregato forse meglio definibile sostenitore non socio). Analogamente potrebbe darsi il caso, tratto dall’esperienza associativa di una grande organizzazione di servizio, di un associato del Club che è stato tale da almeno quindici anni e che, a causa di malattia, infermità, età avanzata o altre valide ragioni riconosciute dal Consiglio direttivo del Club, sia costretto a rinunciare alla sua qualifica di associato effettivo (i.e. socio privilegiato). O ancora il caso di un associato che ha la principale affiliazione in un altro Club ma che risiede, o si trova per motivi di lavoro, nella comunità servita dal Club di riferimento. Questa qualifica potrà essere accordata dietro invito del Consiglio direttivo e sarà riesaminata di anno in anno. Costui avrà il diritto, quando è presente, di votare su ogni questione sottoposta al voto degli associati ma non potrà ricoprire cariche a livello di Club (i.e. socio “associato”). E ancora. Che dire del caso di chi si distingue nella comunità e che, in prima battuta, non è in grado di partecipare regolarmente alle attività come socio effettivo del Club, ma che desidera supportare le iniziative di servizio rivolte alla comunità ed essere successivamente affiliato allo stesso Club? Questa qualifica verrebbe accordata su invito del Consiglio direttivo del Club. Trattasi dell’ “associato affiliato” (potremmo definirlo socio in itinere?): egli avrà diritto, quando è presente di persona, di votare su questioni riferite al Club, ma non potrà ricoprire cariche sociali. Dovrà versare le quote distrettuali, internazionali ed eventuali quote che il Club locale potrà richiedere.

Nel rispetto del principio di democraticità, delle prescrizioni impartite dalla Sede centrale americana, così come della disciplina in tema di enti del Terzo settore, il Regolamento tipo dei Lions Clubs italiani prevede e disciplina, per esempio, le forme ed i modi più opportuni per incoraggiare e facilitare la partecipazione in ogni caso del socio alla vita del club, tenendo conto delle sue specifiche esigenze.

I tratti distintivi delle figure su delineate riposano sul fatto che i soci in parola non possono garantire la continuità nella partecipazione attiva. Hanno diritto di voto ma non possono essere eletti ad incarichi di club. La ridotta partecipazione è compensata dalla impossibilità di assumere incarichi direttivi o in altri organi dell’ente.

Possono considerarsi ai nostri fini “soci”? Forse si, nella misura in cui contribuiscano al raggiungimento dei fini associativi, siano in posizione sussidiaria rispetto ai soci pleno iure (meglio sarebbe se trovasse riscontro in una percentuale generale rispetto al numero complessivo di soci), trovino riscontro in apposita sezione del libro degli associati, siano delineate chiaramente le loro prerogative, vi siano delibere dell’organo amministrativo che ne contemplino espressamente la presenza e che altrettanta apposita delibera li faccia rientrare nella categoria generale, la loro esclusione sia assoggettata alla disciplina generale in tema di esclusione ed il recesso sia assoggettato alla disciplina di cui infra.

Possono essere contemplati soci finanziatori, privi di elettorato attivo o passivo ma che partecipano alla vita associativa dando un fattivo contributo di idee e di proposte? Avrebbe inoltre senso e risponderebbe a sistema prevedere assemblee di categoria non solo per costoro ma anche per i soci sui generis di cui sopra?

Sotto il primo profilo, la risposta potrebbe essere affermativa laddove il socio finanziatore (potremmo dire sostenitore delle iniziative dell’associazione) non assumesse cariche elettive e non votasse in vista dell’assegnazione delle stesse. Gli si potrebbero invece consentire funzioni di controllo ed anche l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori. Dovrebbe essere però istituita una categoria ad hoc che trovasse pieno riscontro in sede di statuto e di atto costitutivo. Ma non si parlerebbe ad ogni buon conto di socio pleno iure perché non potrebbe esercitare le prerogative legate alla qualifica se non in minima parte. L’esperienza del socio sovventore nel diritto delle società cooperative potrebbe costituire un utile punto di riferimento.

Non paiono da ultimo essere contrarie al sistema generale del CTS la previsione, a fronte di speciali categorie di soci, di assemblee di categoria, laddove siano finalizzate alla tutela dei diritti dei portatori di interessi omogenei (quello alla partecipazione alla vita associativa per esempio senza pero diritto al voto per l’elezione alle cariche sociali ed il diritto di elettorato passivo) ed alla scelta dei rappresentanti al consiglio direttivo a mente dell’art. 26 comma 4.

6. Lo status di socio qualunque esso sia, è intrasmissibile a terzi e quindi anche a causa di morte. Salvo che non sia diversamente disposto dall’atto costitutivo o dallo statuto (art. 24 del codice civile). Parrebbe però incoerente con la disciplina speciale del Terzo settore consentirne il trasferimento. L’intrasmissibilità del resto è legata alla natura intuitu personae del contratto associativo, in particolare di quel particolare vincolo associativo che nasce con l’ente del Terzo settore.

La personalità della partecipazione è garantita sia dal rispetto del principio una testa un voto (art. 24 CTS comma 2 prima parte) che dalla rappresentanza in assemblea ad opera di altro socio, quale eccezione al principio della non delegabilità della partecipazione in assemblea. Ciascun associato può rappresentare sino ad un massimo di tre associati nelle associazioni con un numero di associati inferiore a cinquecento e di cinque associati in quelle con un numero di associati non inferiore a cinquecento (art. 24 comma 3)

L’esclusione del socio può essere decretata dall’assemblea dei soci se non diversamente disposto dall’atto costitutivo o dallo statuto, a favore evidentemente del consiglio direttivo (art. 25 comma 1, lett. e)). L’interpretazione della disciplina civilistica era come noto orientata in prevalenza nel senso della non attribuzione di simili poteri in capo ad organo diverso dall’assemblea anche se la giurisprudenza pareva indirizzata diversamente, nel senso nella non estensione di simile principio alle associazioni non riconosciute.

Null’altro si dice nel corpo del CTS. Né in tema di rimedi endosocietari né di impedimento all’esercizio dell’azione avanti l’autorità giudiziaria. Né ancora di condizioni di procedibilità. Vale quindi nella sua interezza il comma 3 dell’art. 24 del codice civile secondo il quale l’esclusione non può essere deliberata se non per gravi motivi, in questo modo richiamando i principi generali in tema di risoluzione del contratto (e non invece quelli contenuti all’art. 2286 del codice civile). Se i gravi motivi si sostanziano nel rilevante inadempimento degli obblighi inerenti al rapporto associativo, nell’impossibilità sopravvenuta delle prestazioni, nella perdita dei requisiti occorrenti per l’ammissione o nella sopravvenuta indegnità morale valutata alla stregua dei principi suddetti, non pare consentita e va quindi dichiarata nulla la clausola che consenta la esclusione ad nutum, perché in violazione dei diritti sanciti dagli artt. 2, 18 e 24 della Costituzione.

L’esclusione va specificatamente motivata e produce effetti dalla notifica all’interessato o da quando comunque questi ne viene a conoscenza.

Il recesso invece è espressione del generale principio contenuto all’art. 1372 del codice civile. Di recesso non parla il CTS con il che si debbono ritenere trasponibili i principi contenuti nella disciplina codicistica. Si applica al riguardo l’art. 24 comma 2 del codice civile (il diritto di recesso è garantito in ogni tempo salvo che il socio abbia assunto l’obbligo di farne parte per un tempo determinato, esso va manifestato obbligatoriamente per iscritto – ma può, nelle non riconosciute, essere espresso verbalmente e solo successivamente formalizzato – ed è efficace con lo scadere dell’anno in corso purché presentato almeno tre mesi prima della chiusura ad organo deputato a riceverlo perché, in mancanza, sarebbe inefficace).

Il recesso è come noto negozio unilaterale e recettizio: è sufficiente la sua comunicazione per l’efficacia, non l’accettazione.

Sono considerate nulle sia la clausola statutaria che esclude la facoltà di recesso o la rende troppo difficoltosa sia il patto con il quale ci si impegna a restare in associazione per un tempo indeterminato, per esempio per tutta la vita del socio. La rinuncia a recedere è valida solo se a tempo determinato.

Si ritiene che la facoltà di recesso ad nutum sia consentita anche nelle associazioni a tempo determinato perché la pattuizione di un termine di durata non costituisce di per sé un obbligo per l’associato di far parte dell’ente per l’intero tempo fissato.

Il recesso per giusta causa è sempre ritenuto possibile in caso di modificazioni rilevanti dello statuto senza il consenso del socio stesso o di violazione sistematica del diritto di associazione. Anche a questo riguardo dovrebbero sovvenire i principi generali elaborati in sede codicistica in materia di associazione e quindi anche di associazione non riconosciuta.

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