Per un welfare che non sia la terapia del dolore dei problemi sociali

Nel tempo in cui le disuguaglianze dilagano e finalmente si legge nella versione aggiornata del recovery plan italiano, per bocca del ministro Carfagna, che sarà questa l’occasione per avere più welfare al Sud (o meglio, come emerso in un webinar organizzato dalla Regione Puglia e dall’Osservatorio giuridico per il diritto del terzo settore, della filantropia e dell’impresa sociale TerzJus e dal Forum del Terzo Settore pugliese in cui è stato presentato uno studio dettagliato, diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni uguali a prescindere dal luogo di nascita e residenza), il tema della giustizia si salda con quello del benessere e della felicità della popolazione in modo plasticamente percepibile.

Questa strada non può che essere sostenuta e percorsa, ma anche supportata e orientata.

Infatti, nel Paese in cui il 20% dei giovani, non lavora e non studia, dove quindi il 20% della società futura non si occupa del presente che è e del futuro che sarà, bisogna interrogarsi se al diritto alla giustizia e alla felicità, non debba associarsi quello alla fatica, al sacrificio, alla sofferenza per ottenere qualcosa. Diritto un po’ atipico perché porta un presunto disagio, ma dalla grande carica pedagogico-popolare, a guardar bene anch’esso connesso al tema della giustizia e pure della felicità, quella piena però, quella sostanziale.

Non esiste infatti giustizia o felicità individuale se questa cozza con l’utilità comune. Non esiste giustizia o felicità individuale nell’immobilismo paralizzante di chi non fa nulla per carenza di opportunità offerte dalla società o per incapacità a crearsele da sé, specie se il soggetto che patisce è un giovane, cioè il futuro di una società. Faticare, sacrificarsi per raggiungere un obiettivo porta un valore in sé, un valore educativo, quel trar fuori ciò che si è (dal latino ex-ducere) a cui è chiamata la società tutta, attraverso il ruolo della famiglia e delle Istituzioni.

Tale prospettiva traccia il solco di un welfare diverso, che assiste ma anche promuove opportunità.

Il tempo che viviamo in cui abbiamo finalmente trovato la consapevolezza di colmare ogni disuguaglianza, sarà vano se confineremo questa strada senza imboccare l’autostrada del benessere vero che vuole prendere in carico tutti coloro, nessuno escluso, che vivono delle fragilità, ma contestualmente creare opportunità, finalizzando la presa in carico a superare il problema e non semplicemente ad accompagnarlo come una sorta di terapia del dolore sociale.

Concretamente ciò significa molte cose.

È diritto collettivo e individuale alla fatica, per esempio, pretendere misure di contrasto alla povertà economica totalmente vincolate alla restituzione di quanto ricevuto dalla società in servizi pubblici, ancora una chimera in tantissimi territori, dove non è solo colpa dei furbetti, ma anche dell’incapacità pubblica di progettare strumenti di impiego di risorse umane che costano qualche miliardo di euro allo Stato, il primo impreparato a modernizzare e a efficientare il sistema delle politiche attive del lavoro e a integralo con quello di welfare.

Associare al benessere e alla felicità la fatica di raggiungerli, porta con sé la soddisfazione di essere realizzati, appagati. Realizzazione e appagamento individuale, che sul versante collettivo diventa educazione al sacrificio e diritto alla speranza, speranza di “guarire” dai mali sociali e non solo di sopportarne il dolore.

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