Anticipiamo un saggio di Gianfranco Marocchi (di prossima pubblicazione in un Quaderno di Terzjus) dedicato a portare in emersione attenzioni essenziali per una buona amministrazione condivisa
Abstract
Generalmente si tende a identificare l’amministrazione condivisa con il momento del procedimento amministrativo, aperto dalla pubblicazione di un avviso e chiuso con l’approvazione di un documento finale e, nel caso di una coprogettazione, con la stipula di una convenzione o altro atto che sancisce l’intesa sulle azioni da realizzare.
Questa identificazione porta ad un doppio strabismo, da almeno due punti di vista: porta 1) a trascurare il “prima” e il “dopo” il procedimento, che sono altrettanto se non più pregnanti nel determinare la buona riuscita della collaborazione e 2) a concentrare l’attenzione sugli aspetti amministrativi e procedimentali, che sono solo uno degli elementi che è utile considerare.
Introduzione
È abbastanza comune identificare una “coprogrammazione” o una “coprogettazione” con i corrispondenti procedimenti amministrativi previsti dall’art. 55 del d.lgs. 117/207, il Codice del Terzo settore e realizzati sulla base delle previsioni della legge 241/1990. Si considera pertanto come “inizio” della coprogrammazione o della coprogettazione la determinazione o deliberazione che avvia il procedimento approvando l’avviso pubblico e altri allegati; e come suo momento finale l’approvazione del documento conclusivo (nel caso della coprogrammazione) o la stipula dell’atto – generalmente sotto forma di convenzione – con cui i partecipanti al partenariato definiscono reciproci impegni e obblighi al fine di dare attuazione alle azioni che si convenuto di intraprendere.
In questo contributo si intende dare evidenza al fatto che una siffatta visione porta a:
- lasciare in ombra aspetti determinanti per la riuscita dell’esperienza collaborativa che hanno luogo prima o dopo il procedimento;
- sopravvalutare la rilevanza degli aspetti amministrativi e procedimentali, rispetto ad altri concernenti le relazioni e le dinamiche tra gli attori e le politiche.
Si proverà ad argomentare come, pur nell’importanza di realizzare con scrupolo gli atti del procedimento, generalmente il fatto che una coprogrammazione o una coprogettazione siano poi considerati soddisfacenti dai vari soggetti coinvolti e portino a risultati sociali degni di nota, deriva principalmente da elementi estranei al procedimento inteso in senso stretto; rispetto a tali elementi è pertanto utile avviare una riflessione che porti interpretarli e ad operare scelte con una maggiore consapevolezza rispetto a quanto ordinariamente avviene.
Per sviluppare tali ragionamenti si proporrà, nel prossimo paragrafo, uno schema generale relativo alle varie fasi di un’esperienza collaborativa, in prima istanza suddivise tra 1) il “prima” del procedimento, 2) il procedimento in senso stretto e 3) il “dopo” il procedimento; ciascuna di queste tre macro-fasi si compone di alcune sottofasi, non necessariamente sequenziali tra loro, come anticipato nello schema sotto riprodotto che sarà più avanti meglio sviluppato. In prima istanza, non è comunque superfluo notare che, mentre la fase 2 (il procedimento in senso stretto), occupa un tempo definito e limitato in un arco temporale che va da qualche settimana ad alcuni mesi nei casi più complessi, la fase 1 (il “prima”) e la fase 3 (il “dopo”) hanno una durata misurabile in anni. Di questo va tenuto conto, quando si aspira a produrre trasformazioni profonde.

I successivi paragrafi approfondiranno appunto le macro-fasi sopra richiamate e svilupperanno pertanto sfide, criticità, opzioni che caratterizzano ciascuna di esse. Si proverà, facendo ricorso a dati di esperienza, ad intercettare gli aspetti che generalmente contengono maggiori elementi di delicatezza e che pertanto sono rilevanti nel determinare la buona o cattiva riuscita dell’esperienza di collaborazione. La selezione degli argomenti non è stata in altre parole pensata con l’intento di creare un supporto manualistico sistematico, ma cercando di individuare passaggi in cui i diversi attori si trovano in condizione di esercitare una rilevante discrezionalità e così ad indirizzare – in modo però più o meno consapevole – nell’una o nell’altra direzione l’esperienza collaborativa.
Nel paragrafo finale si proporranno alcuni ragionamenti di ordine generale coerenti con le indicazioni precedenti e si evidenzieranno alcune indicazioni di policy.
Prima del procedimento
Con che spirito i partecipanti si siederanno ai tavoli di lavoro di una coprogrammazione o coprogettazione? Saranno collaborativi o reciprocamente escludenti? Si respirerà un clima teso o al contrario ci si accorderà reciprocamente fiducia? Quanto i partecipanti sapranno essere propositivi e innovativi, portando sguardi inediti o quanto, al contrario, si dimostreranno propensi a riprodurre, magari con modifiche minori, il quadro esistente?
Le risposte a queste domande che accompagnano la fase del procedimento trovano origine in buona parte in una fase precedente al procedimento; è una fase di cui è difficile delineare i limiti temporali remoti, dal momento che la qualità dei legami tra i diversi soggetti – aspetto complesso, che investe sia relazioni organizzative, sia relazioni personali – può trovare radici anche lontane nel tempo. I primi due paragrafi (1a, nella figura) riguarderanno elementi non direttamente connessi alla successiva fase del procedimento, ma centrati sulla costruzione delle condizioni generali per collaborare proficuamente; i successivi due paragrafi (1b, nella figura) rappresentano invece antecedenti diretti del procedimento, in quanto si collocano nella fase in cui, a partire da una generale istanza collaborativa, il procedimento viene ideato e se ne delineano le caratteristiche principali.
Si è consapevoli di una possibile deriva di queste argomentazioni, in particolare laddove si identifichino nella fase precedente al procedimento elementi – come la carenza di capitale fiduciario, la conflittualità, l’incapacità di fare sistema – che evidenziano la difficoltà del territorio a sviluppare (nel procedimento) orientamenti collaborativi. Se da una parte è chiaro che ciò non potrà non rappresentare un elemento che incide (negativamente) sulla successiva coprogrammazione o coprogettazione, l’esito di questo ragionamento è lontano dall’essere “rinunciatario”. Se non esistono i presupposti ideali per sedersi ad un tavolo di lavoro, la soluzione non è quella di permanere nel campo della competizione. Si tratta invece 1) di essere consapevoli della situazione preesistente, incluse le difficoltà che la caratterizzano e quindi di 2) configurare coerentemente – ad esempio con gradualità nel tempo, laddove la situazione iniziale fosse particolarmente critica – gli sviluppi collaborativi e di adattare le aspettative al grado effettivo di collaborazione che il territorio può esprimere in un dato momento.
Da un altro punto di vista, queste stesse riflessioni ci spingono ad un ragionamento complementare: devono portarci ad assumere sempre più consapevolezza di quanto talune scelte possono creare o distruggere il capitale sociale di una comunità, avvicinare o allontanare tra loro i soggetti del territorio. Ciò che tanto le pubbliche amministrazioni quanto il terzo settore fanno quotidianamente può essere visto, da questo punto di vista, come una semina feconda o infestante nel campo della collaborazione, può facilitare o ostacolare la capacità degli attori territoriali di agire in modo integrato e sinergico per l’interesse generale. Motivo in più per considerare con attenzione e responsabilità le proprie azioni.
Creare un contesto favorevole alla collaborazione
La fiducia è un bene prezioso, la cui costruzione richiede molto impegno, ma che invece può dissolversi in un attimo; per questo motivo i diversi registri di relazione – quello del controinteresse e quello del partenariato, se si guarda la rapporto tra enti pubblici e enti di Terzo settore; quello della competizione e quello della collaborazione, se si guarda alle relazioni tra Enti di Terzo settore – sono solo relativamente interscambiabili.
Si può, nei giorni pari essere partner che costruiscono insieme, nei giorni dispari avversari? Si può fare, tanto da un punto di vista relazionale, quanto delle tutele organizzative? In altre parole, condividerò la migliore idea (o i miei punti di debolezza) con un soggetto che mi aspetto di rivedere come competitor?
L’aspetto singolare è che questa questione, evidentemente complessa, non viene problematizzata, viene considerata implicitamente irrilevante, laddove si ripete che “in taluni casi è più opportuno l’appalto, in altri la coprogettazione” o cose simili. Si dà per scontato che i diversi soggetti del territorio saranno in grado di modificare in modo sempre reversibile i propri registri relazionali, sfidandosi all’ultimo euro nei teatri competitivi e collaborando fraternamente nei teatri collaborativi.
Se così non fosse (e non è) la questione va, quantomeno, posta.
Con ciò non si intende affermare in modo ultimativo che l’unico modo per collaborare autenticamente sia bandire in termini definitivi procedimenti competitivi, pur nella convinzione che essi, in effetti, abbiano poca ragione d’essere nella maggior parte degli ambiti di interesse generale; ma si intende sottolineare la necessità di essere consapevoli della problematicità della questione: laddove si pongano gli enti di Terzo settore – e soprattutto laddove si continui a contemplare per il futuro la possibilità di farlo – entro un agone competitivo si sta costruendo un significativo fattore potenzialmente ostacolante per future collaborazioni. Se e in che misura i supposti benefici della competizione valgano questo prezzo, è una valutazione che va lasciata a ciascuno; ma non è invece ragionevole ignorare – come generalmente avviene – l’esistenza della questione.
Quello che è certo è che un contesto collaborativo è frutto di una paziente costruzione, deriva dalla credibilità della parola di chi – nell’ente pubblico e nel terzo settore – esplicita che il registro, unico o prevalente, quantomeno delle relazioni future sarà quello collaborativo. È una costruzione che, in un contesto in passato avvelenato dalla competizione, richiede un investimento fiduciario impegnativo, sostenuto dalla coerenza degli agiti di tutti gli attori coinvolti.
Il patrimonio innovativo dei differenti punti di vista
Alcuni tra gli autori più attenti (Fazzi 2021) hanno notato che se coprogrammazioni e coprogettazioni si limitano a rilanciare il confronto tra operatori (pubblici e privati) che generalmente si conoscono da tempo e condividono i medesimi schemi mentali, difficilmente l’esito sarà effettivamente innovativo. D’altra parte, evidenzia Fazzi, vi sono circostanze che mostrano la valenza dirompente dell’introduzione di sguardi diversi, in primo luogo quelli dei destinatari, talvolta in grado di porre l’attenzione su aspetti che le visioni più istituzionali tendono ad ignorare.
Ma, ci si può chiedere, in che misura l’amministrazione condivisa è in grado di accogliere tali punti di vista?
Di nuovo, se la domanda riguarda l’amministrazione condivisa come procedimento, la risposta, in tutta onestà, non può che essere minimalista: certo è possibile, nel corso del procedimento, coinvolgere i destinatari, è possibile superare eventuali vincoli formali nel caso non siano costituiti in ETS, ma questo non sottrae il procedimento dalle derive sopra paventate e dal rischio che comunque la partecipazione di soggetti più solidi finisca per risultare prevalente.
Inoltre, le iniziative specifiche volte a esplorare il punto di vista dei destinatari – ad esempio una iniziativa di ricerca a supporto dell’analisi dei bisogni – richiedono tempi non compatibili con quelli del procedimento.
Anche in questo caso, la risposta è che l’esplorazione di sguardi inediti sarà pregnante nella misura in cui trova uno spazio significativo anche prima (e dopo) il procedimento. Se, ad esempio, si sta lavorando su strategie di intervento nei confronti dei giovani, è certo importante coinvolgerli nei tavoli, ma soprattutto sarà qualificante se negli anni precedenti si è alimentato – con attività di ricerca, di ascolto, con canali di partecipazione aperti sia a giovani che ad operatori – il coinvolgimento dei giovani nella discussione degli interventi loro rivolti, alimentando così il procedimento con il loro specifico sguardo; e se dopo il procedimento, nel momento della gestione, si prevedrà il loro coinvolgimento sistematico nella realizzazione, nella governance e nella valutazione del progetto.
Concepire il procedimento
Quanto sino ad ora trattato riguarda fasi non direttamente connesse ad uno specifico percorso collaborativo: contengono in altre parole orientamenti rilevanti per quando si inizierà a coprogrammare o coprogettare, ma che vanno considerati anche a prescindere dall’approssimarsi di uno specifico procedimento e che possono (dovrebbero) accompagnare negli anni le relazioni tra i soggetti di interesse generale (pubblici e di terzo settore) di un territorio.
Si immagini ora che invece al momento del procedimento si inizi ad approssimarsi. Si ponga quindi di avere raggiunto il convincimento che il modo migliore per dare risposte adeguate ai cittadini su un determinato tema sia avviare processi collaborativi in cui diversi attori condividano visioni, proposte, capacità operative, in cui più soggetti, anche non pubblici, siano coinvolti insieme nel realizzare l’interesse generale.
La consapevolezza che va matura è che passare da questo generale orientamento alla scelta di un percorso collaborativo è un passaggio che richiede di elaborare un pensiero non scontato e non banale.
Cosa fare?
Coprogrammare? Coprogettare? Avviare dei patti di collaborazione conseguenti ad un Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni? Organizzare momenti di democrazia partecipata come assemblee pubbliche per discutere il tema con tutti i soggetti interessati? Dare vita ad una consulta permanente? O adottare altri strumenti? O, ancora, combinare più di uno di questi strumenti (a chi scrive, ad esempio, è accaduto di accompagnare una coprogettazione sul tema dell’attivazione di cittadinanza dalla quale sono scaturiti patti di collaborazione con alcuni cittadini)?
Paradossalmente, la varietà degli strumenti a disposizione è una ricchezza e al tempo stesso un elemento che rischia di disorientare che si approccia alla collaborazione.
E questo è ancora più problematico se si considera che è veramente difficile trovare regole standard su quali strumenti utilizzare: si tratta invece di un lavoro irriducibilmente sartoriale. Si prenda come esempio una delle combinazioni che godono di maggiore condivisione a livello teorico (e, forse non casualmente, di un’applicazione del tutto occasionale a livello pratico): “prima si coprogramma, poi si coprogetta”; ebbene, è del tutto discutibile che questo pur lineare percorso sia in tutti i casi la risposta alla questione di come tradurre l’auspicio collaborativo in un percorso effettivo di amministrazione condivisa (non vi è qui spazio per approfondire la questione, per la quale si rimanda a Marocchi (2024), nel quale si analizzano le diverse forme del “momento coprogrammatorio”, mettendo quindi in dubbio la successione “standard” generalmente ipotizzata di cui sopra).
Si consideri inoltre come ogni strumento collaborativo sia connotato da proprie caratteristiche: ad esempio, la coprogettazione si affatica quando si tratta di includere soggetti diversi dagli ETS (inquadrabili, invece, ad esempio, nella logica dei patti di collaborazione), mentre i patti di collaborazione sono messi in crisi quando si debbano affrontare interventi con rilievo economico (cosa che invece la coprogettazione consente di fare).
Insomma, non è facile orientarsi, non è facile operare la scelta giusta, non è consigliabile agire in modo approssimativo, orientandosi sulla base di riflessi condizionati e formule automatiche.
Per complicare la questione, già di per sé complessa: le professionalità in grado di delineare con cognizione di causa sono piuttosto sfumate: per fare una scelta – se non giusta – quantomeno non troppo fuorviante rispetto all’obiettivo che si ha in mente è necessario padroneggiare le caratteristiche giuridiche di ciascuno strumento (e questa pare vicenda da giuristi amministrativisti), ma al tempo stesso bisogna essere in grado di leggere le dinamiche del territorio e dei soggetti che lo abitano (e questa parrebbe materia da sociologi) e soprattutto riuscire considerare questi ed altri elementi insieme e fare una sintesi.
Sì, non è impresa facile. E, molto spesso, le scelte in merito vengono adottate in modo del tutto casuale, non senza poi impattare in modo fastidioso sul procedimento.
Il procedimento si avvicina, è tempo di scelte
Si immagini di avere definito (in un modo o nell’altro, si spera senza troppo fuorviarsi) il punto precedente. Si è quindi individuato il procedimento (o la combinazione di procedimenti) che meglio traduce la volontà collaborativa. Poniamo che ci si sia orientati – esempio non casuale, essendo la soluzione oggi più frequente – verso una coprogettazione. Siamo quindi pronti per iniziare il procedimento?
No, non lo siamo. O meglio, vi è uno sforzo ulteriore da fare, per orientarsi tra diverse possibili opzioni; cosa che spesso non accede, ad esempio perché si è pressati da tempi che incalzano e che portano a pubblicare l’avviso pubblico senza indugi (senza interrogarsi a sufficienza), con ottime probabilità però, in tal caso, di fare più di una cosa di cui poi pentirsi.
L’oggetto di lavoro
La prima questione è delineare in modo chiaro il tema oggetto di lavoro comune. Per quanto ciò possa apparire banale, vi sono almeno due elementi di estrema delicatezza da affrontare, che, se ignorati, compromettono da principio l’esito del percorso collaborativo. Il primo elemento è la caratterizzazione del tema come insieme di obiettivi da affrontare e non come prestazioni da svolgere; nel primo caso le risposte – le cose da fare – si costruiscono insieme nei tavoli di lavoro e si creano quindi presupposti per una effettiva coprogettazione, nel secondo – quando, cioè, sono esplicitate le azioni da svolgere, talvolta anche puntualizzando perfino unità di personale, orari, mansionari, ecc. – si produce un appalto mascherato.
Il secondo elemento è dato dal “respiro” della questione affrontata. Gli approcci collaborativi danno il meglio quando si offre al tavolo di lavoro l’opportunità di spaziare, di immaginare collegamenti tra ambiti diversi, di rompere gli schematismi che spesso caratterizzano i servizi, di ripensare e riorganizzare sistemi complessi. Quindi, esemplificando, molto meglio lavorare sul nuovo assetto degli interventi rivolti ai minori da immaginare e costruire insieme, rispetto al coprogettare i centri estivi: non perché la seconda cosa sia illegittima, ma perché richiede sforzo per un risultato che generalmente non può che essere piuttosto modesto.
Le caratteristiche del procedimento
Una volta individuato lo strumento e definito il tema, è necessario interrogarsi sulle esigenze specifiche legate a quel particolare percorso collaborativo.
Quale livello di selettività adottare per individuare i partecipanti? Basso o nullo, per aprire il più possibile i tavoli a più soggetti? Alto, per avere a che fare con Enti di Terzo settore affidabili e strutturati per il momento della gestione?
E, se introduco elementi selettivi, su che basi? Chiedo un “progetto di gestione” per mettere alla prova gli ETS sulla concreta capacità di prefigurare le azioni da intraprendere? Scelgo invece elementi diversi – i legami con il territorio, la capacità di analisi – nella convinzione che invece di operatività sia meglio parlare insieme nei tavoli?
Auspico che gli enti di terzo settore si aggreghino preventivamente in cordate ampie? O preferisco che le progettualità si aggreghino come frutto del lavoro dei tavoli?
Quanto dureranno le azioni progettuali? Un tempo limitato – uno o due anni – per prendersi reciprocamente le misure senza vincolarsi per troppo tempo? Un tempo ampio, perché per sfide complesse è irragionevole darsi un orizzonte temporale inferiori a cinque o sei anni?
Chi immagino possa gestire i tavoli? Un funzionario dell’amministrazione procedente, perché è giusto valorizzare e far crescere il personale interno? Un facilitatore, per terzietà e perché per gestire situazioni complesse sono necessarie professionalità specifiche?
Le domande potrebbero continuare. Tutte le alternative sono legittime da un punto di vista giuridico e non si può dire che, anche da altri punti di vista, talune siano sempre e comunque preferibili ad altre. Quello che invece è abbastanza chiaro è che nell’adottare ciascuna di queste scelte si orienta in un modo o nell’altro il procedimento e che adottarle in modo inconsapevole o casuale (come spesso avviene) può portare a conseguenze problematiche.
Se, nella varietà delle scelte possibili, dovessimo individuare una deriva tanto pericolosa quanto frequente, segnaliamo come capiti purtroppo spesso di assistere a casi in cui l’insieme di queste scelte riflette consuetudini mutuate da procedimenti orientati alla competizione: forte selettività, uno o pochi partner selezionati, richiesta di esplicitare in sede di qualificazione ai tavoli il progetto, durate brevi, ecc. Tutto ciò contribuisce a snaturare le coprogettazioni e a farle assomigliare pericolosamente ad appalti.
Il procedimento
Si è giunti quindi al procedimento vero e proprio, che si apre con un atto con cui l’amministrazione procedente – eventualmente su stimolo di un’istanza del Terzo settore – rende pubblica l’intenzione di dare vita ad una coprogrammazione o coprogettazione.
Nelle righe seguenti ci si concentrerà su tre passaggi: gli atti del procedimento, i tavoli di lavoro e la conclusione del procedimento, evitando per quanto possibile l’analisi di elementi giuridici e concentrandosi sugli aspetti relative alla relazione tra i soggetti coinvolti.
Gli atti del procedimento
Vi è una generale sopravvalutazione, da parte delle amministrazioni, della onerosità degli atti. Esistono ormai, oltre a molteplici modelli (Anci 2022; Pesaresi 2022, solo per fare due esempi), numerosi esempi da parte di enti che hanno sviluppato, da soli o con aiuto di consulenti, prassi affidabili. In altre parole, come scrivere una determinazione di avvio del procedimento o un avviso pubblico non dovrebbe rappresentare più di tanto un problema. Resta invece la necessaria attenzione a tradurre in modo non affrettato gli orientamenti discussi nel precedente paragrafo in specifiche disposizioni dell’avviso pubblico, evitando di agire in modo approssimativo; ma si tratta, una volta che le idee su cosa fare sono chiare, di un compito del tutto alla portata della gran parte delle amministrazioni.
Il “documento progettuale”
Semmai qualche attenzione in più va forse dedicata a quegli aspetti – talvolta inclusi integralmente nell’avviso, ma più frequentemente e appropriatamente inseriti in un documento a sé (e variamente denominato: “documento progettuale” “progetto di massima”) – in cui l’amministrazione procedente è chiamata a chiarire i confini della collaborazione da instaurare. Qui di solito si ha il primo test effettivo della qualità del lavoro della fase antecedente al procedimento.
In primo luogo, emerge chiaramente se si sta facendo un appalto mascherato (saranno indicati servizi da attuare, ore da svolgere, ecc.) o se si tratta di una effettiva esperienza collaborativa (e allora troveremo considerazioni sul numero di destinatari, sui loro bisogni, sulle caratteristiche del territorio, ecc.). Inoltre, è da questo documento che emergono generalmente le caratteristiche dell’ingaggio tra ETS e pubbliche amministrazioni – che può essere più o meno sfidante – e il livello di riflessione alla base della scelta di coprogrammare e coprogettare, come evidenziato nei paragrafi precedenti. D’altra parte, vi è da evidenziare come invece generalmente l’attenzione delle amministrazioni sia invece spesso concentrata sugli aspetti formali dell’avviso e la stesura invece dell’allegato progettuale di base sia talvolta non troppo meditata.
Gli aspetti economici
Accanto agli aspetti progettuali, va sottolineata l’importanza di una corretta definizione degli aspetti economici. Tra i caratteri più problematici delle coprogettazioni vi è l’impropria aspettativa da parte degli enti pubblici di estrarre risorse dagli ETS partecipanti prevedendo il cosiddetto “cofinanziamento”; tale censurabile pratica è responsabile della crescente avversità di talune organizzazioni di Terzo settore alle coprogettazioni. Una cosa è la condivisibile aspettativa che tutti i partner, pubblici e di Terzo settore, si sentano corresponsabili nel ricercare risorse – da bandi di fondazioni, regione, Europa, da attività di mercato attivabili nell’ambito della coprogettazione, dall’attivazione di nuovi volontari, dall’utilizzo di capitali latenti come immobili in parte inutilizzati – per perseguire in modo sempre più ampio le finalità condivise; un’altra è l’imposizione di percentuali di risorse a carico del Terzo settore come condizione per essere parte dei tavoli di lavoro. Tale imposizione, oltre a ledere il principio di leale collaborazione tra pubbliche amministrazioni – si sta di fatto chiedendo ai coprogettanti di provare ad estorcere sovraprofitti ad altre amministrazioni o a cittadini di altre (o della propria) comunità per riversare le risorse a vantaggio del proprio bilancio – costituisce un messaggio mortificante alla nascente coprogettazione: si sta in altre parole affermando che la coprogettazione è parte di politiche di disimpegno pubblico rispetto ai propri doveri istituzionali e lo si sta affermando, in piena incoerenza, nel momento in cui si chiede invece ad altri di coinvolgersi e impegnarsi nel perseguire finalità di interesse generale. Da questo punto di vista è importante che l’amministrazione condivisa si stacchi in modo deciso e inequivocabile da ogni associazione con politiche censurabili di tagli della spesa pubblica e di abbandono delle responsabilità istituzionali, prevedendo un corretto rimborso dei costi diretti e indiretti connessi alle azioni progettuali condivise.
Gli schemi di rendicontazione
Va premesso che il tema della rendicontazione rappresenta un aspetto delicato, rispetto al quale non sarebbe superfluo uno sforzo di chiarimento normativo. Ciò detto, pur entro alcuni margini di incertezza che oggi permangono, è possibile ragionare su come evitare affaticamenti eccessivi legati a questo aspetto. Premesso che lo schema generale di una coprogettazione è senza dubbio rendicontativo – si rimborsano costi diretti e indiretti sostenuti, non si contrattano costi sul mercato – si tratta di trovare un equilibrio tra accuratezza e trasparenza della rendicontazione e appesantimento operativo e di costi – sia diretti del pubblico, sia derivati dalle inevitabili richieste di rimborso delle unità amministrative in ciò impegnate da parte del Terzo settore – che un impianto troppo analitico comporta.
Nello ricercare (con fatica) il giusto equilibrio tra tali istanze contrapposte, si suggerisce di non perdere mai di vista un principio: chiedere i documenti che poi si è effettivamente in grado di verificare e la cui verifica offre risultati proporzionati al costo. In altre parole, chiediamo lo scontrino del gelato offerto al minore inserito in un’attività educativa se effettivamente vi è chi quello scontrino lo controllerà e se il costo del controllo è inferiore a quello del gelato; per il resto vi sono le autocertificazioni e i controlli a campione.
Ancora in buona parte da esplorare, invece, è come pensare gli aspetti rendicontativi in modo non disgiunto dal governo della spesa, facendo sì, in altre parole, che le pezze giustificative siano lette non solo con l’ottica della congruità amministrativa, ma anche della sostanza degli interventi realizzati, contribuendo così ad analizzare l’andamento del progetto.
I tavoli di lavoro
I tavoli di lavoro rappresentano il cuore del procedimento e pertanto in questa fase si è posti di fronte ad alcune scelte rilevanti.
Serve il facilitatore?
La prima scelta è tra gestire autonomamente i tavoli da parte dell’amministrazione procedente o incaricare un facilitatore esterno; questa seconda scelta può essere fatta sia per la carenza di tempo o competenze del personale interno, sia per assicurare una terzietà nella conduzione. Ovviamente entrambe le scelte sono legittime, con una attenzione: laddove si scelta un facilitatore esterno, è importante che al tempo stesso si investa nelle competenze dei propri operatori, scelta coerente con il fatto che l’amministrazione condivisa non rappresenti un’opzione occasionale, ma un modo ordinario di operare dell’ente e che dunque vada sviluppato uno staff in grado di gestirne i diversi aspetti, tanto quelli procedimentali quanto il lavoro dei tavoli, anche assorbendo una cultura del proprio ruolo tale da “neutralizzare”, per quanto possibile, l’esigenza di un soggetto terzo.
Nei tavoli si porta quanto si è costruito prima
La seconda considerazione è che spesso i tavoli di lavoro sono i luoghi terminali dove si scaricano tensioni irrisolte preesistenti, di cui si è ampiamente trattato nelle pagine precedenti: conflitti tra ETS presenti, rapporti asimmetrici tra Ente pubblico e Terzo settore, schiacciamento di entrambi su orizzonti prestazionali e difficoltà a vedere le prospettive di cambiamento, ecc. Talvolta vi è l’aspettativa, quasi magica, che un tavolo ben gestito possa risolvere in poche riunioni questioni irrisolte da anni. Purtroppo, non è così. Il momento di lavoro comune, più che altro, rivela quello che il territorio è stato in grado di produrre in termini di coesione, consapevolezza, elaborazione nel corso degli anni precedenti. Questo non significa che, nell’insieme di esperienze che, in una linea continua, si succedono nel corso del tempo, un tavolo di lavoro ben gestito possa rappresentare un elemento positivo – anche “di svolta” – che contribuisce a far evolvere le relazioni in senso collaborativo; ma è invece del tutto fuori luogo l’aspettativa che in un numero limitato di riunioni si possano ribaltare aspetti negativi cristallizzatisi nel corso degli anni. Questo significa, in altre parole, che laddove un procedimento di amministrazione condivisa si attui in contesti problematici è necessario commisurare le aspettative dei tavoli a risultati realistici, nella consapevolezza che per ulteriori evoluzioni positive bisognerà investire sulla fase successiva al procedimento ed accettare che taluni cambiamenti possano verificarsi negli anni a venire anziché nelle settimane in cu si svolgono i tavoli.
Nei tavoli emergono le caratteristiche del procedimento
Ancora, è necessario avere presente che spesso i tavoli rappresentano la prova – o meglio, una delle prime prove – rispetto all’accuratezza della fase delle scelte circa l’impostazione del procedimento. Poniamo, ad esempio, di avere concepito un procedimento altamente inclusivo, con poche barriere di accesso per ampliare per quanto possibile la platea di Enti di terzo settore e di avere chiesto a ciascuno di allegare all’istanza di partecipazione un “progetto” in cui prefigurare le azioni che si proporrebbero di svolgere nel corso della coprogettazione. Bene, il risultato è quello di avere un tavolo assai numeroso, composto da ETS talvolta tra loro alleati, talvolta avversari, ma comunque con aspettative di coinvolgimento ampiamente debordanti rispetto al budget disponibile. Se questa situazione è difficile da gestire non è per incapacità dell’operatore incaricato di coordinare il tavolo di lavoro, ma per una sequenza di scelte discutibili fatte prima.
Premesso che quindi situazioni di questo genere si dovrebbero evitare non creando le condizioni per cui si verifichino – cosa che abbiamo visto possibile laddove si ponga attenzione alla fase di costruzione del procedimento – poniamo di trovarci malauguratamente proprio in un contesto di questo tipo: una situazione affollata da soggetti disordinatamente assemblati, con molte attese rispetto alle poche risorse (o in altre situazioni comunque non ottimali rispetto a quelle che consentono in lavoro produttivo e proficuo). Premesso che non ci sono ricette sicure per uscire dai guai che si sono creati, si può dare un’indicazione certa su cosa è più errato fare (e che si è inevitabilmente tentati di fare; e che, purtroppo, spesso si fa): abbandonare la nave. In altre parole, di fronte a situazioni di questo genere, talvolta la scelta è quella di lasciare gli ETS al loro destino, dicendo loro “adesso accordatevi tra voi”, salvo poi redarguirli se incapaci di trovare una soluzione o se tale soluzione appare un mero accordo spartitorio privo di contenuto progettuale. Il messaggio che qui si vuole dare è chiaro: i problemi, quando si verificano, vanno gestiti. Non vanno negati nella loro esistenza, vanno sempre fatti emergere alla consapevolezza da parte del tavolo, vanno affrontati per quanto possibile nell’immediato e più spesso, almeno in parte, durante la successiva fase di gestione, calendarizzando nei successivi mesi ed anni di gestione progressivi e graduali passi in avanti.
Se ci sono opinioni contrastanti
Così come va affrontata e gestita l’eventuale (e legittima) presenza di opinioni contrastanti? Di fronte ad un problema complesso, non è patologico ma fisiologico che possano esservi orientamenti diversi su cosa sia più opportuno fare. Il disaccordo è un elemento legittimo quanto l’accordo. Anche in questo caso, la questione riguarda i modi e le forme in cui il disaccordo è gestito. Accanto alla gestione rinunciataria (di nuovo, “mettetevi d’accordo tra voi…”), vi è il rischio di una gestione dirigista (“sono l’ente pubblico, quindi decido io!), entrambe fondamentalmente errate. L’ente pubblico ha esercitato il suo potere di indirizzo nel documento progettuale e quello che è corretto fare è, dove pertinente, richiamarsi alla coerenza con tale atto, che però – lo si è evidenziato prima – dovrebbe contenere obiettivi e criteri generali, cosa che spesso non ci aiuta in modo decisivo nel dirimere disaccordi sull’auspicabilità di specifiche azioni. Anche in questo caso, non vi è una regola sicuramente valida, ma un orientamento generale che può contribuire a far evolvere le dinamiche del tavolo in senso positivo. Si tratta di equilibrare il momento della partecipazione e dell’ascolto – tutte le posizioni sono legittime, accolte e considerate – quello della discussione in cui tutti avvertono di avere possibilità di far valere la propria opinione e quello della decisione. Un tavolo decide. Talvolta, certo, con mediazioni, ma decide, non procede all’infinito in uno stallo snervante, fatto di posizioni ribadite per testardaggine senza fare passi avanti. Solitamente decide con un consenso che emerge, intervento dopo intervento, cercando sintesi tra le posizioni precedenti ed è corretto incoraggiare il tavolo in questo senso, su alcuni punti potrebbe non emergere e in quel caso, per quanto possibile, è utile prendere atto della mancanza di accordo e rimandare ad aggiustamenti futuri in corso di gestione la soluzione di questioni aperte.
In sintesi
I tavoli di lavoro – sulla base dell’esperienza e senza che tale affermazione possa assumere alcuna validità generale – nella maggior parte dei casi si articolano su un numero limitato di riunioni, da tre a dieci a seconda della complessità del compito che ci si pone, talvolta con qualche ulteriore incontro istruttorio di sottogruppi se vi sono aspetti tecnici di particolare rilievo da approfondire. Si tratta di non caricare tale fase aspettative irragionevoli. È irragionevole pensare che si risolvano problemi ultradecennali, che rapporti conflittuali creati da pregressi (e magari futuri e attesi) episodi competitivi possano restare estranei alle relazioni tra partecipanti, che un contesto da tempo schiacciato sull’emergenza e la prestazionalità ritrovi come d’incanto capacità di trasformative. I tavoli di lavoro vanno visti, senza aspettative taumaturgiche o messianiche, come un tassello di una storia molto più lunga, tassello che può avvicinare o allontanare il territorio rispetto alla capacità di agire in modo innovativo e sinergico.
La conclusione del procedimento
Da quanto sino ad ora detto risulterà chiaro qual è la valenza della conclusione del procedimento amministrativo di coprogrammazione o coprogettazione: è la conclusione di una fase, temporalmente piuttosto compressa, di una storia che ha degli antecedenti e soprattutto un seguito; e sarà il seguito, oggetto del prossimo paragrafo, in cui si gioca la buona o cattiva riuscita del procedimento collaborativo. Questo ci porta a considerare con saggezza il momento della conclusione del procedimento amministrativo. L’invito è quello di non rammaricarsi se alcuni aspetti non sono pienamente definiti e se l’applicazione di altri è collocata nel futuro: è già un ottimo risultato, soprattutto in casi – frequenti, vista la deriva degli anni che abbiamo alle spalle – in cui la collaborazione è da costruire passo dopo passo. Anzi, a ben vedere, forzare conclusioni non mature solo per l’esigenza di formale completezza dell’accordo da controfirmare probabilmente ci espone a scrivere cose irrealistiche e vissute da partecipanti come imposizioni dell’una o dell’altra parte.
Nel documento finale è importante che vi sia quanto necessario 1) per iniziare ad essere operativi nella fase di gestione delle azioni e 2) per calendarizzare le successive evoluzioni del lavoro comune. “Entro il primo anno…”, “entro il secondo anno…” sono formule che consentono di esprimere orientamenti precisi in un arco temporale definito (e realistico) e che consentono ai progetti di essere realmente trasformativi nel medio periodo; generalmente gli intendimenti futuri si accompagnano ad una corresponsabilizzazione di tutti i partner pubblici e di terzo settore nel reperire o nel generare le condizioni – comprese le risorse economiche e umane necessarie agli sviluppi che dovranno essere implementati nel corso del tempo. Ovviamente di tale flessibilità in corso di progetto è consigliabile dare conto sin dal principio negli atti del procedimento, affinché tutto si attui nella piena trasparenza.
Una ulteriore consapevolezza che è necessario acquisire è che un processo autentico di trasformazione non può riguardare solo il Terzo settore, convinzione che rappresenta un evidente retaggio della precedente impostazione culturale, in cui il soggetto pubblico “chiede” al Terzo settore di impegnarsi in determinate azioni da una posizione esterna ed estranea di committente e poi controllore. Quando invece un tavolo di lavoro è comunemente impegnato nella realizzazione di un progetto trasformativo, è conseguente mettersi tutti ugualmente in gioco. Concretamente, questo significa che nel corso di un procedimento collaborativo autentico è frequente vedere la partecipazione di diversi soggetti pubblici ai tavoli di lavoro, da cui scaturiscono:
- casi in cui più settori o servizi di una pubblica amministrazione (es. welfare e politiche giovanili; welfare e politiche abitative; ecc.) instaurano nuove relazioni e collaborazioni;
- casi in cui amministrazioni diverse (es. comuni e scuole) sperimentano collaborazioni, si coordinano, utilizzano congiuntamente locali, ecc.;
- casi in cui più amministrazioni (es. aziende sociosanitarie ed enti gestori della funzione socioassistenziale; enti gestori della funzione socioassistenziale e servizi per l’impiego) definiscono relazioni strutturate, ad esempio addivenendo a protocolli di intesa o altri atti analoghi.
Dopo il procedimento
Come è a questo punto evidente, ciò che avviene dopo il procedimento, lungi dal rappresentare una mera appendice attuativa di quanto ideato nei tavoli, rappresenta al contrario un elemento centrale per un percorso collaborativo con esiti effettivamente trasformativi. La fase attuativa, infatti, da una parte ha una durata – se si sono fatte le scelte giuste a monte – congrua con l’effettiva realizzazione di cambiamento sociale, dall’altra può alimentarsi della crescente fiducia tra partecipanti al partenariato, che necessariamente richiede tempo e reciproca sperimentazione.
L’attuazione delle azioni progettuali
Nell’attuazione, le azioni definite nel corso del procedimento si incontrano con la realtà pratica, trovando conferme o sperimentando difficoltà; al tempo stesso il contesto in cui le azioni si attuano non è quasi mai statico, anch’esso evolve offrendo via via nuovi spunti di riflessione e richiedendo adattamenti. Come attrezzarsi al meglio in questa fase?
In questo percorso si vogliono evidenziare tre aspetti: il ruolo della cabina di regia, l’importanza delle funzioni trasversali e la rilevanza dell’esperienza di ricerca comune di risorse per le azioni progettuali.
La cabina di regia
Le azioni progettuali vanno governate. Vi deve essere, in altre parole, un luogo che le coordina, assume informazioni su cosa sta accadendo, sui successi e sulle criticità incontrate, ecc. Al di là dei nomi assunti– cabina di regia, coordinamento, ecc. – l’aspetto più rilevante riguarda il fatto che tale luogo, centrale per l’implementazione delle azioni, non tradisca il carattere partecipato dell’amministrazione condivisa. Se, cioè, si progetta insieme, ma poi, una volta firmato l’accordo, si riproducono i ruoli tradizionali – il terzo settore agisce, l’ente pubblico controlla e decide – probabilmente si sono fatti passi in avanti molto relativi. Se, al contrario, la cabina di regia è mista, se le domande “come sta andando?” “cos’altro possiamo fare?” sono affrontate insieme dai soggetti del partenariato pubblici e di Terzo settore, si sta invece consolidando un nuovo modo di concepire le relazioni tra i soggetti di interesse generale del territorio.
Inoltre, una cabina di regia è essenziale nella logica, qui più volte rimarcata, di uno sviluppo progettuale che continua e si rafforza nel corso del tempo e che quindi necessita per tutti gli anni del suo svolgimento di una testa pensate, attiva e reattiva nell’indirizzare l’operatività e al tempo stesso nel monitorare le indicazioni che l’operatività offre.
Le funzioni trasversali
Accanto agli aspetti immediatamente operativi – ad esempio, se si parla di welfare, servizi a cittadini fragili quali minori, anziani, persone con disabilità – un intervento generalmente implica azioni ulteriori: gli operatori devono formarsi e fare supervisione, il progetto deve essere comunicato ai destinatari, è necessario valutare quanto si sta facendo, è utile confrontare le proprie azioni con altre esperienze analoghe, ecc.
Ebbene, è necessario chiedersi in che misura sia ragionevole – quanto sia, ancor prima, coerente con una logica autenticamente collaborativa – allocare nella totalità queste funzioni in capo ai singoli partner e non al partenariato come soggetto collettivo.
Si ipotizzi un partenariato tra un soggetto pubblico e alcuni Enti di Terzo settore impegnato in attività a favore dei minori. Pare ragionevole che ciascuno di questi quattro soggetti organizzi separatamente, soprattutto su temi direttamente connessi all’intervento in corso, la formazione dei propri operatori? Che ciascuno ingaggi singolarmente valutatori, che invii propri operatori in giro per il paese a valutare esperienze esemplari per verificarne la riproducibilità sul proprio territorio, ecc.? La risposta non può che essere negativa, non solo per motivi di evidente duplicazione dei costi, ma soprattutto perché la scelta di agire singolarmente e separatamente tradirebbe una persistente resistenza alla reciproca integrazione e collaborazione. Questo non significa che, ad esempio, tutta la formazione di ciascun ente vada condivisa in tale sede, in quanto ciascuno può ragionevolmente voler trasmettere ai propri operatori valori caratterizzanti, cultura organizzativa, ecc. Ma è comunque ragionevole pensare che una parte – generalmente crescente nel corso del tempo, via via che le diffidenze vengono meno – di queste funzioni venga condivisa a livello di partenariato.
In generale, un partenariato o è pensante – curioso, votato a mettersi in discussione e migliorarsi – o non è. Dalla presenza e dalla vivacità di queste funzioni trasversali deriva in parte consistente la qualità dell’esperienza collaborativa; e questo è un messaggio quanto mai impegnativo – e, per certi versi, dirompente – in un welfare che tende sempre di più a identificarsi con il momento prestazionale e a perdere la capacità di elaborare e innovare.
La ricerca di risorse
Tanto il cofinanziamento appare radicalmente estraneo e confliggente con la logica dell’amministrazione condivisa, quanto la corresponsabilizzazione nella ricerca di risorse appare invece esserne un elemento positivo e caratterizzante. È infatti fisiologico che, ragionando insieme su come affrontare problemi o aspirazioni sociali, emergano tanto proposte immediatamente realizzabili nel quadro delle risorse esistenti, quanto progetti trasformativi che richiedono però di essere sostenuti da risorse ulteriori. Le iniziative virtuose di coprogettazione non prevedono “cofinanziamenti”, ma utilizzano in modo significativo risorse diverse da quelle inizialmente messe a disposizione dall’amministrazione procedente. Si tratta di risorse che, in corso di progetto, il partenariato ha individuato e reperito congiuntamente: può trattarsi di progetti presentati a fondazioni, a valere su fondi europei o ad altri enti, di cittadini che iniziano a offrire la propria disponibilità volontaria, di attività di mercato, ecc.
Tutto ciò, oltre a rappresentare evidentemente un sostegno concreto al progetto, costituisce un’occasione per cementare il partenariato, per diversi motivi: rinsalda la fiducia tra partner, evidenzia le potenzialità del lavorare insieme, spinge i partner a considerarsi come un soggetto integrato. Quando un partenariato – includendo tanto i soggetti di interesse generale pubblici, quanto quelli di Terzo settore – inizia a ragionare come luogo integrato di progettazione, è segno che si è fatto un effettivo salto di qualità.
La valutazione
Il tema della valutazione richiederebbe un approfondimento a sé (si veda, ad esempio, De Ambrogio e Guidetti (2023) e Marocchi (2023), cui si rimanda per uno sviluppo delle argomentazioni qui proposte). In questa sede, in estrema sintesi, si evidenzia come la valutazione assuma un ruolo centrale in un processo che, a differenza di altri tipi di relazione tra Terzo settore e la pubblica amministrazione, si caratterizza per la possibilità di progressive e significative revisioni in corso d’opera.
È proprio qui che la valutazione trova un ruolo specifico e decisivo nelle esperienze di coprogettazione. Non si tratta della valutazione di impatto – la valutazione a breve, medio e lungo periodo delle conseguenze dirette e indirette di un intervento – che richiederebbe ben altri tempi e risorse, ma di uno stile valutativo che, a partire da un atteggiamento riflessivo (Stame 2020) del partenariato, si dota di un metodo per alimentare le periodiche riflessioni tese alla riprogettazione.
Tale metodo può avvalersi di una pluralità di strumenti – l’ascolto dei destinatari, la valorizzazione del punto di vista degli operatori, le indicazioni dei pari, il contributo di esperti, ecc. (Marocchi 2020) – che possono, con tempi e costi compatibili ad una valutazione che deve svolgersi in itinere e, per certi versi, in modo continuativo, offrire elementi decisivi per fuoriuscire dai rischi di approcci autoreferenziali e poco fecondi.
La riprogettazione
Come già evidenziato, generalmente, le cose più interessanti avvengono in corso di progetto, durante gli anni di gestione comune. Questa consapevolezza da una parte deve allentare la tensione circa le aspettative che i tavoli di lavoro possano sciogliere tutti i nodi progettuali: si può anche arrivare a convenzione con alcuni punti interrogativi su quanto si farà nel medio periodo; dall’altra impegna i partenariati a considerare con serietà la fase di gestione, non solo come una fase di ordinaria amministrazione in cui si mette in atto quanto prima definito, ma come fase essa stessa progettuale, in cui la messa in opera delle azioni offre via via indicazioni su come migliorare e implementare le azioni.

Riprendendo un particolare della figura precedente, la fase attuativa si caratterizza quindi per una circolarità (Ciceri, 2023), peculiare di un processo flessibile e condiviso, che non ha corrispondenti nelle relazioni contrattuali instaurate ad esito di appalti.
È per questo che, come si è più volta argomentato, le cose di maggiore interesse accadono “dopo il procedimento” inteso in senso stretto. Sulla fluidità dei meccanismi qui descritti – una cabina di regia curiosa e pensante, una valutazione partecipata, meccanismi fiduciari che si rafforzano nelle successive coprogettazioni – si gioca l’effettiva capacità dell’amministrazione condivisa di portare un valore aggiunto significativo al proprio territorio.
Conclusioni
Generalmente, tanto le pubbliche amministrazioni quanto il Terzo settore chiedono di essere supportate da consulenti esterni nella fase del procedimento; ciò è indicativo di come, in una percezione diffusa, sia il procedimento a rappresentare l’aspetto più rilevante di un’esperienza collaborativa, anzi, a identificarsi in se stesso con l’esperienza collaborativa.
In queste pagine si è tentato invece di argomentare come sia necessario dedicare adeguata attenzione ai diversi “tempi” (Pezzana, 2023) dell’amministrazione condivisa. Una più equilibrata distribuzione delle aspettative tra le diverse fasi e un riequilibrio delle attenzioni tra aspetti procedimentali e aspetti relazionali può consentire un miglioramento della qualità delle esperienze di amministrazione condivisa e in particolare di quelle di coprogettazione, che ne rappresentano la grande maggioranza.
La gran parte delle questioni qui affrontate non riguardano aspetti di legittimità: in linea generale, nessuna delle prassi qui citate e discusse, è “illegale”. Ma ciò non significa che talune opzioni siano – talvolta o anche nella gran parte dei casi – generalmente non auspicabili sulla base di ragionamenti sostanziali, riconducibili ad alcune priorità.
La prima è la costruzione di capitale fiduciario. È una dimensione che non va mai ignorata, nello scegliere come operare. È necessario che tanto da parte della pubblica amministrazione, quanto del terzo settore, vi sia la capacità di cogliere le prospettive di medio periodo, cosa che talvolta implica la capacità rinunciare a gratificazioni immediate, se ciò è utile a costruire capitale fiduciario. I costruttori di fiducia, i leader di territorio che sanno cementare i legami esistenti e crearne di nuovi, si collocano al centro del sistema di relazioni, e questo diventa il metro della leadership in un sistema basato sulla collaborazione. Chi è impegnato in un’esperienza collaborativa – e in primo luogo l’amministrazione procedente – dovrà sempre chiedersi in che misura una certa scelta crea o distrugge legami fiduciari.
La seconda, conseguente alla prima, è la coerenza nelle scelte e nei comportamenti. Se l’impianto è collaborativo, atteggiamenti scorretti, il tentativo di pubbliche amministrazioni o di Terzo settore di spuntare vantaggi economici opportunistici, la mancata condivisione di dati informazioni, l’assenza di trasparenza sono distruttive. Come insegnano gli economisti, la collaborazione è una scelta razionale in uno schema di giochi ripetuti, quando cioè l’aspettativa di ritrovarsi ad interagire in futuro consiglia opzioni diverse rispetto alle tentazioni opportunistiche delle relazioni occasionali.
Questo ultimo aspetto, in coerenza con altre affermazioni delle pagine precedenti, evidenzia le affinità elettive tra amministrazione condivisa e logica di lungo periodo, vera chiave per apprezzare i cambiamenti profondi che la collaborazione può produrre. Nel momento in cui ci si sposta da uno schema prestazionale – che ben si accorda con l’immediatezza dello scambio sinallagmatico, ove i tempi di contrattazione ed esecuzione si restringono nella prospettiva di un possibile maggior vantaggio futuro – ad una prospettiva trasformativa, si adotta un’ottica che richiede di considerare tempi più dilatati: perché la fiducia si costruisce nel tempo, perché gli esiti sono progressivi, perché i percorsi, per essere autentici, richiedono spesso gradualità. Le coprogrammazioni richiedono di interrogarsi sugli sviluppi sociali pluridecennali, le coprogettazioni, quando concepite con il respiro qui auspicato, danno il meglio quando le azioni progettuali hanno davanti a sé almeno cinque – dieci anni. E tutto ciò si accordo con l’idea generale di questo contributo: che l’amministrazione condivisa, lungi dall’identificarsi con il periodo contingentato del procedimento, sia un flusso di relazione ampio e articolato, che richiede cura, consapevolezza e riflessione in ogni suo momento.
Bibliografia
Anci, Co-progetta un’amministrazione condivisa, progetto a valere su PON inclusione 2014-2020, disponibile online all’indirizzo https://www.anci.it/coprogetta/
De Ambrogio U., Guidetti C. (2023), E se provassimo a co-valutare? La valutazione nell’era della coprogrammazione e coprogettazione, in Impresa Sociale 4/2023.
De Ambrogio U., Marocchi G. (2023), Coprogrammare e coprogettare. Amministrazione condivisa e buone pratiche, Carocci, Roma.
Fazzi L. (2021), Coprogettare e coprogrammare: i vecchi dilemmi di una nuova stagione del welfare locale, in Impresa Sociale 3/2021.
Fazzi L., (2023), “Siamo sicuri ne valga veramente la pena?” Amministrazione condivisa e terzo settore in Italia, in Impresa Sociale 3/2023.
Fazzi L. (2023), La co-progettazione tra management amministrativo e politica sociale: un vademecum operativo, in Impresa Sociale 4/2023.
Maino G., Cau M., Coprogrammare e coprogettare: alcune considerazioni sugli approcci partecipativi, in Impresa Sociale 3/2023.
Marocchi G. (2020), Per una analisi critica della valutazione, in Impresa Sociale 4/2020.
Marocchi G. (2021), Coprogettazione: dal cofinanziamento alla corresponsabilità, in Welforum, pubblicato online il 29/7/2021.
Marocchi G. (2022), Coprogettare il welfare consolidato, in Welforum, pubblicato online il 25/3/2022.
Marocchi G. (2023), Valutare l’amministrazione condivisa: quali specificità?, in Impresa Sociale 4/2023.
Marocchi G. (2024), Perché la coprogrammazione arranca?, in Weforum, pubblicato online il 29/2/2024.
Pesaresi F., Coprogettazione: norme, regolamento, schemi, verbali, pubblicato online all’indirizzo https://www.academia.edu/82218829/COPROGETTAZIONE_NORME_REGOLAMENTO_SCHEMI_VERBALI
Pezzana P. (2023), L’amministrazione condivisa: perseguire l’interesse generale tra processi e procedimento, in Impresa Sociale 4/2023.
Stame N. (2020), Valutazione d’impatto sociale. Committenti, Enti di Terzo Settore e valutatori, in Impresa Sociale 4/2020.