Gli ultimi mesi di vita terrena del Pontefice danno testimonianza della sua disposizione d’animo nei confronti della sofferenza, che diventa occasione di consolazione
[di Stefano Zamagni*, pubblicato in «Corriere della Sera» del 21 aprile 2025]
Per ricordare papa Francesco, ospitiamo una riflessione del professor stefano Zamagni, chiamato proprio da Bergoglio , prima volta di un laico, a presiedere l’Accademia pontificia delle Scienze sociali.
Letum non omnia finit. (Non tutto finisce con la morte). Cosa resta della esemplare figura di papa Francesco? Tantissimo davvero. Mi piace dapprima fare memoria della non comune capacità del Nostro di accogliere la sofferenza come occasione di consolazione. Che un afflitto possa essere beato nell’afflizione non è proprio di agevole comprensione. Ma con papa Francesco è stato così. Chi lo ha frequentato, negli ultimi mesi di vita terrena, può dare testimonianza della sua disposizione d’animo nei confronti della sofferenza. Fino all’ultimo ha mantenuto per sé e per chi gli era vicino una atmosfera di normalità; non ha permesso che la malattia occupasse interamente la sua esistenza e che colorasse di nero tutta la sua vita.
Lo spazio qui a disposizione mi consente solo un paio di considerazioni, quelle che contrassegnano, in modo speciale, la riflessione teologica e la pratica di vita di papa Bergoglio. È dall’inizio del pontificato che Francesco ha dimostrato di avere compreso cosa significhi la fine della cristianità – che è l’involucro storico del Cristianesimo – quale si è materializzato al temine della lunga stagione della modernità. Celebre, al riguardo, il discorso rivolto ai membri della Curia Romana nel novembre 2019 nell’occasione degli auguri natalizi. In quella sede, sottolineò con forza la differenza tra Cristianesimo e cristianità, chiarendone le implicazioni concrete.
Francesco ha affrontato, da par suo, il dilemma in cui si dibatte la Chiesa di oggi: se vuole restare ancorata al suo fondamento deve affermare che il Cristianesimo non è un’etica; d’altro canto, per convincere il mondo della sua cogenza, la Chiesa deve portare il suo messaggio sul piano dell’etica. Sciogliere un tale dilemma è stato lo sforzo continuo del Nostro – uno sforzo non sempre apprezzato e non sempre compreso.
Il fatto è che l’evangelo è bensì un messaggio di speranza, ma non esclude, anzi esige che ve ne siano altri. Nello svolgere la sua missione, la Chiesa cerca e incontra la risposta di un uomo soggetto alle onde della storia. Come viva quest’uomo, quali siano le sue possibilità di realizzarsi non sono fatti estranei e indifferenti alla evangelizzazione, poiché da essi dipende la risposta che l’uomo darà. Ecco perché la Chiesa – insisteva Francesco – non può non interessarsi alla sorte dell’uomo in questo mondo e allo sviluppo della sua esistenza naturale. È questo il nucleo duro del realismo storico di papa Francesco.
Si è soliti attribuire al nihilismo morale a Nietzsche, ma in verità esso va fatto risalire a Giuda. Gli evangelisti fissano l’inizio del suo tradimento nel momento in cui Gesù viene unto da Maria nella casa di Lazzaro. Di fronte allo sconcerto dei presenti, testimoni del fatto che Gesù è proclamato Messia (l’unto) da una donna, Giuda prende la parola: «Perché questo olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi distribuirli ai poveri?» (Gv. 12,5). Sollevando il «velo del denaro» di fronte ai discepoli, Giuda ottiene che questi «non vedano» più Gesù – la vera ricchezza – ma solo i trecento denari. Al pari di chi non resiste alla tentazione pelagiana, Giuda dichiara che il fine che lo muove è quello di aiutare i poveri. I quali, oltre che soffrire, sono strumentalizzati per coprire la perversità dei disegni dell’apostolo infedele.
È contro questo subdolo rischio di neo-machiavellismo che Francesco si è sempre costantemente battuto. L’altra considerazione che desidero avanzare concerne lo straordinario impulso che l’Evangelii Gaudium (2014), la Laudato Sii(2015), e soprattutto la Fratelli Tutti (2018) hanno dato all’affermazione della fraternità come principio di organizzazione sociale e al progetto dell’ecologia integrale. La portanza della fraternità non è la medesima di quella della fratellanza e neppure della solidarietà. Mentre la fratellanza è il principio che dice dell’appartenenza di un insieme di persone ad una specifica comunità di destino, la fraternità è un principio trascendente che ha il suo fondamento nel riconoscimento di una universale appartenenza. La fratellanza unisce gli amici, ma li separa dai non amici; rende soci – come si legge nella Fratelli Tutti – e chiude gli uniti nei confronti degli altri. La fraternità, invece, è universale e crea fratelli, non soci. Il gesto di Caino suggerisce che la fraternità non deriva dal sangue. Il suo presupposto è piuttosto nel riferimento al legame che ci rende custodi gli uni degli altri. Pure distante è la fraternità dalla solidarietà. Mentre questa è il principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali, quella è il principio che consente ai già eguali, nei loro diritti e nella loro dignità, di esprimere in modo diverso il proprio potenziale di vita, permettendone la fioritura umana. La compresenza di eguaglianza e diversità (non già, si badi, differenza) è ciò che distingue in modo singolare il principio di fraternità, che è il vero presupposto della libertà in senso positivo, cioè della libertà come autodeterminazione.
Le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l’800 e il 900, hanno conosciuto grosse battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona. Si pensi alla storia del movimento operaio e alle lotte per la conquista dei diritti civili. Ma la buona società in cui vivere non può accontentarsi dell’orizzonte dalla solidarietà, dato che mentre la società fraterna è anche solidale, il viceversa non è vero. Cosa fa la differenza? La gratuità. Dove questa manca non può esserci fraternità. La gratuità non è virtù etica, come è la giustizia. Essa concerne la dimensione sovra-etica dell’agire umano; la sua logica è quella della sovrabbondanza e non quella dell’equivalenza come è il proprio della giustizia. Innumerevoli le volte in cui papa Francesco ha insistito sul punto che la fraternità va oltre la giustizia.
In una società solo giusta non vi sarebbe posto per la speranza, dato che questa si nutre di sovrabbondanza. Riusciamo allora a comprendere il senso proprio di quella sorta di «Stele di Rosetta» dell’opera di Francesco che è il «Progetto dell’Economia di Francesco», da lui lanciato il 1° maggio 2019 e rivolto in primisalle giovani generazioni. (Oltre novanta sono già i paesi in cui tale progetto sta avendo risultati concreti).
Per chiudere. Sono dell’idea che papa Francesco avrebbe condiviso quello che Bach scrisse nel suo diario nel 1750, poco prima di morire: «Non piangete per me, io vado dove la musica è nata». Francesco non correrà certo il rischio dell’oblio, né quello della pietrificazione in un mito. Il suo messaggio e la sua testimonianza di vita si espanderanno, tanto più quanto meglio, fuori da pregiudizi ideologici, ne verrà compresa la forza profetica. Termino con le parole dell’Ipponate: «Non ti chiediamo, Signore, perché ci hai tolto Francesco. Ti ringraziamo piuttosto per avercelo donato».
*Presidente emerito dell’Accademia pontificia delle Scienze sociali, membro del Comitato scientifico di Fondazione Terzjus