I demeriti del reddito di cittadinanza (senza entrare nel merito)

La polemica politica ha ormai trasformato il Reddito di Cittadinanza nel simbolo del divanismo assistenziale, della mollezza statale, del badfare. Sono in troppi a sottolineare quando il sussidio vada nelle tasche sbagliate e pochi a ricordare come lo stesso sussidio tuteli milioni di veri poveri.

Perché i veri poveri non sono pochi: nell’Italia del 2020 i poveri sono aumentati di quasi un milione, dice l’Istat, e ora siamo a 5,5 milioni di concittadini. Come li tuteleremmo, senza il RdC? Anzi, secondo una recente indagine della Caritas, il sussidio arriverebbe a circa la metà dei poveri, quindi ci vorrebbe “più RdC”, non meno. O forse “meglio”.

Il punto è che siamo ormai arrivati alla quarta riforma del sistema di contrasto alla povertà. Nel 2016 è stato introdotto il Sia (sostegno per l’inclusione attiva), nel 2017 il Rei (reddito di inclusione), nel 2019 il RdC e nel 2020 – causa Covid – il Rem (reddito di emergenza). Non è il caso di continuare a cambiare, di distruggere per ricominciare da zero. Semmai serve l’operazione inversa: fermarsi, analizzare gli esiti delle politiche che in questi anni si sono succedute e provare a tirare le somme. Magari facendosi aiutare anche da chi in questi anni ha studiato, elaborato modelli e proposte, a partire dall’Alleanza contro la povertà, e dando il giusto tempo alla commissione presieduta da Chiara Saraceno di portare a termine i lavori per avere una proposta su cui discutere, una base programmatica su cui aprire la riflessione politica.

Il punto, nel merito delle cose, è che ormai abbiamo contezza di come il RdC abbia sottostimato la platea delle famiglie e degli stranieri, fatichi a costruire dei progetti personalizzati per ogni membro del nucleo familiare, non funzioni efficacemente in caso di ricerca del lavoro, non abbia ancora messo a punto un adeguato sistema di in-work benefit per accompagnare e incentivare intelligentemente il passaggio dalla fase di assistenza alla fase lavorativa. Ma su tutti questi punti esistono ormai valutazioni e proiezioni in grado di dirci cosa fare. Le politiche sociali sono sistemi assai delicati, che richiedono competenza, esperienza, lavoro concreto e continui piccoli aggiustamenti, ricalibrazioni. L’errore da non fare è continuare a cambiare. La cosa da fare è modificare in modo incrementale ascoltando chi analizza e chi opera: un approccio riformista.

Infine una precisazione: continuare a sottolineare il tema del lavoro, nel caso della povertà, non è del tutto corretto. Perché esistono una pluralità di cause per cui una persona o una famiglia cadono in povertà. Esistono anche situazioni dove si è poveri proprio perché non si è in grado di lavorare, a causa di una malattia del corpo o della mente, a causa di una condizione familiare molto grave.

Contrastare la povertà richiede dunque una pluralità di interventi, non solo legati alla sfera del lavoro. Siccome dalla povertà si fuoriesce solo grazie a una serie stabile e funzionante di interventi, allora servono provvedimenti stabili ed efficaci capaci di coinvolgere chi si occupa di lavoro, di educazione, di sanità, di assistenza, di previdenza, di accompagnamento sociale. Il RdC non è lo strumento più efficace – il Rei aveva un approccio migliore, più mirato – ma con un buon lavoro politico si può riformare e renderlo più efficiente ed efficace. Ma bisogna entrare nel merito delle cose, non limitarsi a sottolineare genericamente i demeriti.

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