Il patrimonio degli enti ecclesiastici (cattolici) e il Terzo settore

Il patrimonio degli enti ecclesiastici (cattolici) e il Terzo settore: interrogativi e prospettive multilivello a margine di una recente Giornata di studi

di Alessandro Perego

Nei titoli degli interventi e nelle parole dei relatori di una recente Giornata di studi dedicata al patrimonio degli enti ecclesiastici i riferimenti al «Terzo settore» sono stati a tal punto ricorrenti da porre il tema della Riforma al centro degli interessi e del dibattito. Tanto agli organizzatori quanto ai partecipanti è apparso chiaro che una riflessione sul presente e sul futuro della gestione del patrimonio degli enti ecclesiastici cattolici in Italia intercetta inevitabilmente e in modo massiccio le norme sul “nuovo” Terzo settore, ponendo interrogativi di urgente attualità pratica e aprendo prospettive inedite che occorre saper attentamente ponderare.

Tali interrogativi e prospettive si stratificano, per così dire, su quattro differenti livelli, concatenati l’uno agli altri e che devono essere affrontati necessariamente in modo consequenziale. 

Primo livello: convenienza/opportunità dell’accesso al Terzo settore

Il primo livello è quello della convenienza/opportunità per gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti di accedere o non accedere al Terzo settore: quali costi e quali benefici vi sono per un ente ecclesiastico che decida di collocare una propria attività d’interesse generale e le risorse patrimoniali ad essa destinate nello spettro giuridico del Terzo settore

Nel tentare di rispondere a questo primo quesito la mente corre immediatamente alla cosiddetta leva fiscale, cioè a quelle disposizioni del Codice del Terzo settore e del decreto n. 112 del 2017 sull’impresa sociale che consentono (o meglio, dovrebbero consentire) all’ente ecclesiastico un risparmio sul fronte dei «costi tributari». 

Com’è stato efficacemente evidenziato nel corso della citata Giornata di studi, il cuore del disegno normativo della Riforma per ciò che concerne la materia fiscale è rappresentato non tanto da una specifica agevolazione, bensì dall’introduzione, ad opera dell’art. 79 CTS, di un peculiare (rispetto a quanto previsto dal TUIR) criterio di qualificazione fiscale delle attività degli ETS, che tiene conto dell’«interesse generale» nei confronti delle medesime. Così, un’attività sanitaria, socio-sanitaria, di educazione o istruzione, culturale, etc. di un ente ecclesiastico che scelga di accedere al Terzo settore si dovrebbe considerare «di natura non commerciale» «quando s[ia] svolt[a] a titolo gratuito» – e fin qui nulla di nuovo – e qualora produca ricavi (corrispettivi e apporti economici di organismi pubblici in regime di accreditamento, contrattualizzazione o convenzione) che «non superino di oltre il 6 per cento i relativi costi per ciascun periodo d’imposta e per non oltre tre periodi d’imposta consecutivi» (art. 79, commi 2 e 2 bis). 

Illustrando questo nuovo criterio di qualificazione fiscale il ricorso al condizionale è tuttavia d’obbligo essendo l’art. 79 CTS ancora sub iudice, cioè sospeso nella sua efficacia in attesa che la Commissione Europea si pronunci sulla sua compatibilità con il divieto di aiuti di Stato, previsto dall’art. 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea a tutela del mercato comune.

Sempre nel considerare in una prospettiva di vantaggio fiscale l’eventuale ingresso nel Terzo settore di un ente ecclesiastico, si è poi molto opportunamente messo in guardia da facili entusiasmi legati alla novità normativa e dal rischio, per così dire, di guardare al dito senza considerare la luna. Non è affatto infrequente infatti che vertici e amministratori di tali enti operino scelte gestionali particolarmente onerose mossi dalla sola aspirazione a conseguire specifici benefici fiscali che, alla prova dei fatti, si rivelano del tutto effimeri. 

Ogni scelta di pianificazione fiscale richiede, invece, che si consideri l’ente nella sua globalità, cioè guardando al complesso della sua struttura organizzativa, della sua consistenza patrimoniale e del suo andamento economico-finanziario; ancor più, appare indispensabile saper ragionare in una logica di rete, compiendo scelte strategiche che sappiano andare oltre alle esigenze e alle prospettive del singolo ente. 

È un dato noto, ad esempio, che una parte assai consistente del patrimonio degli enti ecclesiastici in Italia sia costituito da beni immobili ma in molti casi manca una pianificazione fiscale immobiliare a livello diocesano o di istituto religioso e le scelte in tale ambito vengono rimesse alle singole parrocchie o case religiose proprietarie degli immobili. Maturare una capacità di visione d’insieme potrebbe riservare positive sorprese sul fronte dei vantaggi fiscali, permetterebbe di sfruttare al meglio le opportunità che il legislatore tributario offre ai singoli enti e consentirebbe magari di evitare spiacevoli “incidenti di percorso” (come quelli relativi alle note vicende che riguardano l’esenzione da ICI-IMU).  

Volgendo brevemente lo sguardo al fronte dei costi determinati da un eventuale accesso dell’ente ecclesiastico al Terzo settore, i principali sono senza dubbio quelli connessi agli obblighi di trasparenza e di rendicontazione nonché al controllo interno. Per citarne solo alcuni: l’obbligo della redazione di un rendiconto della gestione o di un bilancio d’esercizio secondo gli appositi modelli ministeriali (Mlps, d.m. 5 marzo 2020), che presuppone la tenuta di una contabilità ispirata al principio di trasparenza e che permetta, quantomeno, di separare in qualunque momento le voci destinate all’attività istituzionale, all’attività d’interesse generale e all’eventuale attività diversa, in particolare se commerciale; l’eventuale redazione di un bilancio sociale nel rispetto delle linee guida dettate per tale documento (Mlps, d.m. 4 luglio 2019), che presuppone l’adozione di un sistema di pianificazione sociale e di rilevazione dei risultati conseguiti; la rendicontazione delle raccolte fondi e la pubblicità, attraverso il RUNTS, delle relative informazioni; l’eventuale costituzione di un organo di controllo interno composto da soggetti professionalmente qualificati (commercialisti, revisori dei conti, avvocati, etc.) che assolva alle funzioni previste dall’art. 30 CTS; l’eventuale nomina di un revisore legale dei conti quando la legge lo imponga.

Nel ponderare tali (e altri) costi che il legislatore della Riforma ha caricato sulle spalle degli ETS e che possono a prima vista apparire eccessivamente onerosi, occorre tuttavia considerare che essi si contraddistinguono anche un’intrinseca capacità generativa di benefici strutturali. In particolare per gli enti ecclesiastici, l’operare nel rispetto del principio legale di trasparenza, il dover ricorrere a strumenti di pianificazione e rendicontazione, anche sociale, l’obbligo di inserire qualificati professionisti nella governance e così via, non può che rappresentare una preziosa occasione per affrancarsi da modelli gestionali ancora troppo ancorati al passato e per perseguire più efficacemente la loro missione a servizio della Chiesa.

Secondo livello: scelta della categoria particolare di ETS

Una volta che l’ente ecclesiastico, verosimilmente giudicando preponderanti i benefici rispetto ai costi, ritenga opportuno accedere al Terzo settore si passa ad un secondo livello di riflessione, e gli interrogativi e le prospettive si spostano sulla scelta della «categoria particolare» di ETS in cui l’ente stesso dovrà collocarsi e, dunque, della sezione del RUNTS in cui gli sarà maggiormente conveniente iscriversi. 

L’esperienza applicativa di quest’ultimo anno ci ha confermato (la lettera della legge lo consentiva solo implicitamente) che quasi tutte le categorie-sezioni di ETS sono accessibili agli enti ecclesiastici, restandone escluse, per ovvie ragioni d’incompatibilità strutturale, solo quelle delle reti associative e delle società di mutuo soccorso. È però altrettanto vero che il dubbio più diffuso concerne l’alternativa tra l’assunzione della qualifica di «impresa sociale», da un lato, e, dall’altro, l’opzione per una differente categoria di ETS, in genere quella residuale degli «altri ETS». 

La scelta dell’una o dell’altra non può che essere l’approdo di un’attenta analisi relativa al «modulo» con cui l’ente ecclesiastico svolge, o intende svolgere, la propria attività d’interesse generale. Poiché le attività degli enti ecclesiastici diverse da quelle di religione e di culto si caratterizzano in larga parte per essere organizzate secondo un modulo imprenditoriale ex art. 2082 c.c., con riferimento ad esse sarà quantomeno opportuno prendere in considerazione l’assunzione della qualifica di impresa sociale

D’altro canto, anche nel corso della Giornata di studi che offre lo spunto per queste riflessioni si è evidenziato che la disposizione di maggiore convenienza fiscale nel contesto dell’intero sistema normativo del Terzo settore sarà – quando entrerà in vigore a seguito dell’autorizzazione della Commissione Europea – l’art. 18 del d.lgs. n. 112 del 2017, ove si prevede che non concorrano alla formazione del reddito imponibile delle imprese sociali, tra gli altri, gli utili e gli avanzi di gestione destinati allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio.

Terzo livello: ente strumentale o ramo del Terzo settore?

Alla scelta della categoria particolare di ETS più confacente all’attività dell’ente ecclesiastico segue – ed è il terzo livello di riflessione – una decisione relativa alle modalità di ingesso nel Terzo settore

Ancora una volta, l’ente ecclesiastico si trova dinanzi ad un bivio: può affidare l’attività per la quale intende accedere al Terzo settore ad un autonomo ente civile strumentalmente costituito e controllato mediante la nomina degli amministratori (una fondazione, una società di capitali, etc.), che acquisirà la qualifica di ETS; in alternativa, può sfruttare le speciali “previsioni gemelle” contenute nell’art. 4, comma 3 CTS e 1, comma 3 del d.lgs. n. 112 del 2017 e costituire al proprio interno un ramo di attività del Terzo settore. In questa seconda ipotesi, sarà l’ente ecclesiastico stesso a qualificarsi come ETS «limitatamente» al suo ramo di attività.

La prudenza suggerisce di assumere questa determinazione badando, anzitutto, al controllo sui beni ecclesiastici e alla responsabilità patrimoniale connessa allo svolgimento delle attività. Occorre infatti tener in debito conto che la costituzione di un ETS strumentale implica la costituzione anche di un patrimonio autonomo nella disponibilità di un distinto soggetto giuridico e una netta cesura nella catena di controllo dell’autorità ecclesiastica sulla gestione del medesimo. 

Ad esempio, l’omissione dei «controlli» previsti dal Codice di diritto canonico sui beni dell’ETS strumentale è civilmente inopponibile ai terzi, salvo che non si adottino dei correttivi statutari volti a legittimare, nei limiti in cui ciò sia concesso dalle legge dello Stato, una eterodirezione di talune scelte patrimoniali di particolare incidenza per la missione della Chiesa. Ancora, in caso di scioglimento ed estinzione dell’ETS strumentale, quanto residua del patrimonio con cui lo si è inizialmente dotato dovrà essere devoluto ad altri ETS, senza potere ritornare nella disponibilità dell’ente ecclesiastico

Questa stessa cesura si realizza, specularmente, anche sul fronte della responsabilità patrimoniale: l’ETS strumentale, essendo auspicabilmente dotato di personalità giuridica e, dunque, di autonomia patrimoniale perfetta, sarà chiamato a far fronte alle responsabilità connesse allo svolgimento dell’attività affidatagli dall’ente ecclesiastico nei limiti del proprio patrimonio

Nell’ipotesi in cui si opti invece per la costituzione di un ramo del Terzo settore all’interno dello stesso ente ecclesiastico, il tema del controllo e della responsabilità patrimoniale non può che coinvolgere la principale novità normativa della Riforma con riferimento agli «enti religiosi civilmente riconosciuti»: l’obbligo di costituzione di un «patrimonio destinato». Infatti, come ha espressamente previsto il legislatore, a seguito di tale atto «per le obbligazioni contratte in  relazione  alle  attività» del ramo, l’ente ecclesiastico risponderà «nei limiti del patrimonio destinato» e «gli  altri creditori dell’ente [medesimo] non po[tranno] far valere alcun diritto su [tale]  patrimonio». 

Tra le molte ed articolare riflessioni che ha suscitato tale obbligo di destinazione patrimoniale negli interventi della Giornata di studi dello scorso 13 dicembre, basti qui richiamare l’opportuna avvertenza a non intenderlo in modo semplicistico, leggendo cioè in esso un mero aggravio per l’ente ecclesiastico ovvero un sacrificio imposto alle ragioni dei suoi creditori, in deroga al principio di cui al primo comma dell’art. 2740 c.c. Piuttosto, nella prospettiva di un ordinamento ormai contraddistinto da una specializzazione della responsabilità patrimoniale e dall’interruzione della (biunivoca) corrispondenza tra soggetto e autonomia patrimoniale perfetta e, ancora, tra soggetto e responsabilità illimitata relativamente alle attività intraprese dal medesimo, l’atto di destinazione dell’ente ecclesiastico deve essere approcciato quale opzione per un certo modello (tra i molti possibili) di gestione e di organizzazione patrimoniale, di cui il legislatore richiede una corretta informazione (pubblicità) e, conseguente, consente l’opposizione nei confronti dei terzi. 

Quarto livello: incertezze normative

Quando, infine, l’ente ecclesiastico si determini per la costituzione al proprio interno di un ramo del Terzo settore, si apre il quarto livello di riflessione, in cui occorre prendere posizione rispetto a taluni profili di incertezza che ancora residuano nella trama normativa della Riforma. Infatti, la duplice specialità rappresentata dal tipo soggettivo degli enti ecclesiastici e dalla peculiare soluzione normativa del ramo, avrebbe forse meritato, e meriterebbe oggi, una maggiore attenzione da parte del legislatore e indicazioni più puntuali in sede applicativa. 

Per citare solo alcuni tra i fronti di incertezza emersi nel corso della citata Giornata di studi, vi è anzitutto la difficoltà per l’ente ecclesiastico di determinare l’adeguata consistenza del patrimonio da destinare al proprio ramo: per un verso, non sembra infatti ragionevole che un simile patrimonio risulti non congruo all’attività programmata, il che rappresenterebbe, tra l’altro, l’adozione di un assetto organizzativo non adeguato da parte degli amministratori; per altro verso, occorre prendere atto che l’ordinamento propone ormai regimi di autonomia patrimoniale perfetta e di segregazione patrimoniale per i quali non si prevede alcuna soglia minima di consistenza patrimoniale o, comunque, risulta possibile una capitalizzazione solo simbolica

Ancora, interrogativi si pongono anche in relazione all’eventuale modificazione o riduzione del patrimonio destinato che dovesse realizzarsi nel contesto della gestione dinamica del medesimo, financo a determinarne un’insufficienza; a tal proposito l’unico dato che ad oggi appare certo è l’obbligo di dare pubblicità di simili eventi attraverso il RUNTS (art. 20, comma 1, d.m. n. 106 del 2020), così da informarne i creditori presenti e futuri del ramo. 

Forse sono proprio queste incertezze – insieme al termine iniziale di efficacia della disposizioni in materia fiscale – ad aver suggerito agli enti ecclesiastici cattolici e, più in generale, agli enti religiosi civilmente riconosciuti, di adottare un atteggiamento di attendismo rispetto ad un’eventuale ingresso nel Terzo settore: lo ha riscontrato in più occasioni chi gode di un privilegiato sguardo d’insieme sullo stato d’attuazione della Riforma e lo hanno confermato le concordi testimonianze di coloro che hanno la responsabilità della gestione dei patrimoni ecclesiastici

Ebbene, poiché tuttavia la Chiesa offre un contributo non certo trascurabile, anche in termini economico-patrimoniali, a molte delle attività d’interesse generale che sono state incluse nel perimetro oggettivo del Terzo settore, è ora doveroso uno sforzo comune di legislatore, interpreti, studiosi, professionisti e operatori per vincere ogni incertezza e resistenza e per accompagnare gli enti ecclesiastici in una scelta meditata e consapevole. A tal fine, gli atti della Giornata di studi da cui hanno preso le mosse queste brevi riflessioni, di prossima pubblicazione, rappresenteranno certamente un prezioso contributo. 

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