Il Reddito di Cittadinanza e la possibilità di creare la più grande azienda sociale pubblica.

Il Reddito di cittadinanza ha due “marchi”: quello del traguardo di civiltà che ha cancellato l’Italia, dal fanalino di coda in Europa, quale Paese privo di una misura di contrasto alla povertà assoluta e quello di essere la misura di welfare più costosa e più criticata nella storia repubblicana.

Pochi hanno però pensato di dargli una vera prospettiva sul versante dell’efficacia della misura stessa (o perlomeno gli sforzi sono stati abbastanza vani), nata per contrastare la povertà, ma in misura inclusiva, facendo sì che il beneficiario (il nucleo familiare) uscisse dalla trappola della povertà e non rimanesse nella condizione psicologica di essere eternamente assistito.

La realtà ci ha detto finora che sono 1.343.624 i nuclei familiari beneficiari  della misura: 3.238.931 persone coinvolte con un importo medio per nucleo di 582,53 euro (dati INPS al 7 aprile 2021). Le pensioni di cittadinanza sono invece 140.820 con 159.672 persone coinvolte con un importo medio di euro 269,57. Totale percettori 1.484.444, di cui 817.487 residenti tra Sud ed Isole, 336.929 nelle regioni del nord e 230.028 al centro.

È noto che il beneficio del Reddito di cittadinanza è condizionato, fatte le eccezioni previste dalle condizioni di esenzione, alla partecipazione a progetti di utilità collettiva e alla disponibilità ad entrare nel mercato del lavoro. Quest’ultima parte è la nota dolente dell’inefficacia della misura e anche del suo scarso consenso nel Paese.

Ciò non significa che bisogna però buttare il bambino con l’acqua sporca, confondendo la meritevolezza della misura con la sua attuazione che, come tutte le cose degli esseri umani può essere migliorata. Anzitutto ci vuole però la consapevolezza che l’assistenzialismo va contrastato unitamente alla liberazione dall’alibi della fragilità delle infrastrutture delle politiche attive del lavoro e di progetti di utilità collettiva che, non funzionando, non consentirebbero di “occupare” (meglio includere attivamente) i beneficiari.

Una strada risolutiva da perseguire c’è e trova un precedente innovativo (in corso) nella Regione Puglia che sta sperimentando nell’ambito della misura regionale Re.D. (Reddito di dignità) una procedura di cooprogettazione ai sensi del Codice unico del terzo settore, incardinata nella cornice di linee guida regionali e nell’attività su scala territoriale per ambito territoriale sociale con i soggetti del terzo settore (e non solo) che vi operano, comprese agenzie per il lavoro private accreditate, associazioni, imprese sociali, enti di formazione, ecc., scelti con l’unico requisito di essere soggetti coerenti dal punto di vista progettuale. 

Si tratta di scegliere se fondare la più grande azienda sociale pubblica sussidiaria del Paese o di continuare a spendere svariati miliardi di euro in toppe sociali. Un Paese inclusivo o un Paese rattoppato socialmente? Ovviamente la strada da intraprendere è la prima e richiede, come avvenuto per il contrasto alla povertà educativa in un recente bando del Ministero dell’Istruzione, di utilizzare strumenti normativi innovativi come quelli previsti dal D.Lgs. 117/2017 (Riforma del Terzo Settore), negli artt. 55 e 56 per avviare una stagione della sussidiarietà verticale e orizzontale nello stesso tempo, che salvi la ratio meritoria delle misure di contrasto alla povertà e non riporti i poveri a essere privi di risposte (conseguenza possibile alla luce dello scarso consenso popolare che la misura sta subendo). Si tratta altresì di fare in modo che i furbetti non facciano del reddito di cittadinanza il loro lavoro part time o peggio ancora l’unica attività alla luce del sole.

La collaborazione tra Pubblica Amministrazione e Terzo settore può essere la strada giusta. Anzitutto perché consentirebbe a soggetti non lucrativi di fare dei PUC esperienze lontane dalla logica keynesiana di far fare qualunque cosa a chi percepisce il beneficio purché faccia qualcosa. Una tale azione darebbe altresì un ruolo pubblico, e di interesse generale, al Terzo settore che garantirebbe l’efficacia della misura (ed il controllo conseguente sul corretto utilizzo delle risorse pubbliche) e, attraverso mirate procedure di cooprogettazione, la possibilità di ricette sartoriali per il rientro stabile nel mercato del lavoro dei beneficiari. Il tutto potrebbe essere del resto sostenuto economicamente con il vincolo di destinazione di un parte delle risorse ministeriali del “Piano Povertà” a modelli procedurali e sociali di questo tipo per il tramite di Regioni e Ambiti Territoriali Sociali (Comuni).

Una tale prospettiva e un tale modello aiuterebbero la misura a recuperare il consenso che merita il compito a cui ambisce e a imboccare l’incrocio tra sussidiarietà orizzontale e verticale, ma anzitutto salverebbe il senso di umanità della popolazione, facendo sì che nessuno gridi allo scandalo se lo Stato aiuta un povero e che nessuno possa dire altresì che lo Stato aiuta i falsi poveri. Del resto la beneficienza e l’assistenza materiale e morale ai fragili nasce storicamente nella cultura del dono degli individui singoli e associati e trova fondamento nell’umanità degli uomini e dei popoli: ha, insomma, natura sussidiaria. E nella sussidiarietà può rifocillarsi e trovare il giusto equilibrio l’impegno stabile dello Stato per i più poveri nella delicata fase storica ed economica che stiamo vivendo.

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