L’amministrazione condivisa come possibile risposta alle sfide che abbiamo davanti

Ecco l’intervento del prof. Gianpaolo Barbetta dell’Università Cattolica di Milano in occasione della presentazione del volume a cura di Barbara Boschetti, L’amministrazione condivisa come laboratorio di innovazione (Editoriale Scientifica, Napoli, 2025), quaderno n. 5 della collana di Fondazione Terzjus che raccoglie i risultati di un anno di lavoro del “Laboratorio di Amministrazione Condivisa” (LAC) che la Fondazione ha avviato dalla fine del 2022.

L’AMMINISTRAZIONE CONDIVISA COME LABORATORIO DI INNOVAZIONE. APPUNTI E INDICAZIONI PER IL FUTURO DELLE POLITICHE PUBBLICHE

Università Cattolica 9/4/2025

Gian Paolo Barbetta

E’ un grande piacere, nella mia veste di coordinatore del corso di laurea magistrale in politiche pubbliche (indirizzo MOST) dell’Università Cattolica, dare il benvenuto alla presentazione di questo Quaderno di Terzjus curato da Barbara Boschetti che si occupa di amministrazione condivisa come laboratorio di innovazione; siamo infatti al cuore dei temi che affronta il corso di laurea MOST: l’analisi, la costruzione e la valutazione degli effetti delle politiche pubbliche.

Inoltre, per chi come me si occupa di ricerca oltre che di didattica – concentrandosi da molto tempo sul ruolo del terzo settore e sulla valutazione dell’efficacia delle politiche pubbliche – è anche assai interessante assistere agli sviluppi – normativi, organizzativi e di policy – di cui si discuterà oggi. E ciò per almeno due ragioni complementari.

In primo luogo, perché oggi si porta nuovamente al centro dell’attenzione il tema della sussidiarietà e dunque, dal mio punto di vista, il ruolo del terzo settore nella produzione di servizi alla persona e alla comunità. 

Il ruolo che il nostro paese ha attributo alle organizzazioni che oggi chiamiamo di terzo settore è molto cambiato nel tempo. Quando ho cominciato ad occuparmene (alla fine degli anni Ottanta) il terzo settore non aveva ancora né una identità né un nome chiari: associazionismo, volontariato, privato sociale erano i sostantivi in uso, sostantivi che facevano riferimento tanto alla forma giuridica prevalente quanto alla funzione esercitata dalle organizzazioni.

Il terzo settore non stava neppure nelle statistiche sociali ed economiche; nascoste tra il settore istituzionale delle famiglie e quello della pubblica amministrazione non si riusciva neppure a sapere quante fossero le organizzazioni di cui si cominciava parlare. Era un chiaro indicatore del ruolo che la collettività attribuiva a queste organizzazioni: attività marginali di sostegno delle famiglie, svolte con finanziamento prevalente (ma modesto) da parte della amministrazione pubblica.

Oggi le cose sono cambiate da molti punti di vista. Gli enti di terzo settore sono giuridicamente riconosciuti e regolati, anche se a mio parere ancora in misura insoddisfacente, specie per alcune forme giuridiche. Oltre a ciò, questi enti sono comparsi nelle statistiche pubbliche: un censimento permanente dell’Istat si è sostituito a pionieristiche stime artigianali delle loro dimensioni, cui ho parzialmente contribuito in passato. Abbiamo dunque potuto osservare la crescita del settore nel corso degli ultimi trenta anni, con particolare attenzione a due componenti: le cooperative sociali e le fondazioni di erogazione.

In un contesto di maggiore visibilità e cresciuto peso economico, le relazioni tra terzo settore e amministrazioni pubbliche sono state però caratterizzate da una tensione ancora non completamente risolta, e questa è la seconda ragione di interesse della discussione cui assisteremo oggi. Questa tensione l’ha descritto bene T. Nannicini in un articolo di ieri su “La Stampa” in cui affermava che il paese dovrebbe smettere di considerare “il TS come agenzia interinale a basso costo a cui affidare servizi essenziali attraverso bandi che implicano salari da fame”.

Infatti, a partire dagli anni Novanta, la collaborazione tra PA e TS è cresciuta nel contesto di un modello di “quasi mercato all’italiana” con una chiara separazione tra domanda di servizi, esercitata da una amministrazione pubblica interessata quasi esclusivamente ad acquistare a basso costo, e offerta di servizi da parte del terzo settore che ha dovuto adattarsi a questa prospettiva di ribasso dei costi, spesso dovendo rinunciare alla innovazione.

Badate bene, sono lontano dal dire che la produzione di servizi alla persona debba rinunciare ad affrontare questioni di efficienza tecnica e dunque di contenimento dei costi. Indubbiamente in passato si è assistito a sprechi di risorse nella produzione di servizi alla persona, ma in questo campo il perseguimento dell’efficienza tecnica e produttiva rischia di tradursi spesso (a causa della tecnologia prevalente) in un puro e semplice contenimento del costo del lavoro.

Tuttavia, oltre alla efficienza tecnica, la produzione di servizi deve porsi un problema di efficacia, cioè di capacità di affrontare e risolvere i problemi delle persone. Ad esempio, nel caso dei giovani e dello spreco rappresentato dalla loro bassa scolarizzazione o dai bassi livelli di apprendimento e alti livelli di dispersione implicita, i servizi dovrebbero favorire l’autonomia e lo sviluppo del loro capitale umano. Nel caso delle persone anziane, dovrebbero migliorare la qualità della vita per evitare la prossima pandemia mondiale che, secondo il surgeon general degli Stati Uniti Vivek Murthy non sarà dovuta a un virus o un batterio, ma alla solitudine.

La sfida è dunque duplice e complessa: evitare sprechi e al contempo rendere più efficaci i servizi che non raggiungono gli obiettivi previsti. In questo contesto, innovazione diventa la parola magica. Ma l’innovazione è un processo intrinsecamente sussidiario, perché nessuno degli attori in campo ha capacità e risorse sufficienti per affrontare la sfida della qualità e dell’estensione dei servizi. Allora la sfida diventa risolvibile solo se tre diversi attori si mettono in gioco riconoscendo i reciproci “vantaggi comparati”. 

In primo luogo, le fondazioni di erogazione che debbono favorire la sperimentazione delle innovazioni, sostenendo economicamente quelle più promettenti e producendo evidenza robusta sull’efficacia delle azioni intraprese. Non tutta l’innovazione è best practice, anche se tutta pretende di esserlo; qualche innovazione è persino nociva. Le fondazioni sono nella condizione migliore per sopportare eventuali fallimenti, cioè per riconoscere innovazioni che non funzionano; non lo si può chiedere al resto del terzo settore.

In secondo luogo, gli enti operativi del terzo settore, che potrebbero avere le competenze per comprendere come innovare radicalmente l’erogazione dei servizi per aumentarne qualità ed efficacia, come è successo in passato, ad esempio, nel settore delle tossicodipendenze (dal carcere alla comunità) o in quello della disabilità (dal nascondimento all’autonomia).

Infine, le amministrazioni pubbliche che hanno le risorse economiche per portare a scala le innovazioni efficaci. 

Per questo l’amministrazione condivisa può essere la risposta alle sfide immani che abbiamo davanti.

TUTTI I DIRITTI RISERVATI. È vietato qualsiasi utilizzo, totale o parziale, del presente documento per scopi commerciali, senza previa autorizzazione scritta di Terzjus.
Torna in alto

Ricevi aggiornamenti,
news e approfondimenti sulle attività di Terzjus