In passato vi sono stati altri riconoscimenti, ma tutti parziali che relegavano implicitamente l’economia sociale in un’area residuale delimitata dai fallimenti o dal disinteresse degli altri attori, sostenendo appunto che essa “arriva dove Stato e mercato non riescono ad operare”, come nelle esperienze assai diffuse dell’inserimento lavorativo di persone con difficoltà occupazionali e nelle imprese sociali in genere.
Dell’economia sociale sono stati ricordati soprattutto i limiti che ne limiterebbero l’azione: costi di governance elevati, lentezza nei processi decisionali, difficoltà di accesso ai mercati finanziari e conseguente endemica sottocapitalizzazione.
Quindi finora: riconoscimenti sì, ma con cautela, senza esagerare e senza spingere troppo avanti la riflessione.
Con l’Action Plan invece e finalmente si riconosce per la prima volta l’intero settore e la sua oggettiva rilevanza sia economica che sociale. E lo si fa in due modi:
- Individuando le caratteristiche comuni: il fatto che si tratta di entità private, indipendenti dai poteri pubblici, in cui l’interesse delle persone e le finalità sociali o ambientali prevalgono sulla ricerca del profitto, vincolate a reinvestire la maggior parte dei propri profitti nell’impresa o nell’attività, e gestite secondo criteri democratici o comunque partecipativi.
- tracciando un chiaro perimetro definito in base a criteri che non lasciano spazio a fumose ibridazioni. Appartengono alla definizione di economia sociale cinque categorie di enti: cooperative, mutue, associazioni, fondazioni e imprese sociali costituite usando altre forme giuridiche ma con tutte le caratteristiche elencate al punto precedente.
Quello che emerge da questa combinazione tra caratteristiche e forme giuridico-organizzative è un identikit piuttosto preciso, in grado di rimuovere l’alibi di quanti finora lamentavano che l’economia sociale fosse un concetto inafferrabile e quindi intrattabile da parte delle politiche pubbliche.
L’Action Plan chiude quindi la fase di riconoscimenti parziali e di generiche perplessità con un riconoscimento pieno dell’economia sociale, della sua presenza più o meno marcata in tutti i settori (la “trasversalità” dell’economia sociale), della rilevanza sua economica e sociale e del potenziale ancora inesplorato. Con ciò riconoscendo, in altri termini, l’economia sociale come un diverso modo di organizzare non singole attività più o meno di nicchia, ma qualsiasi attività economica, senza al contempo negare che esistono ambiti di specializzazione, inclusi quelli caratterizzati dai fallimenti (o più spesso dal disinteresse) di stato e mercato; e riconoscendo come l’economia sociale sia in grado non solo di garantire livelli di efficienza pari o superiori alle altre forme d’impresa, ma anche di favorire uno sviluppo più sostenibile e inclusivo proprio perché non comandata dalla logica del profitto e di promuovere l’attiva partecipazione sociale dei cittadini.
E, con il documento sulle filiere industriali riconosce l’economia sociale come ecosistema autonomo all’interno della strategia industriale europea e sancisce definitivamente il riconoscimento di questo settore come una componente essenziale anche delle politiche industriali (e non solo sociali) della Commissione.
Raggiunto questo importante risultato del pieno riconoscimento e della definizione dei confini, la sfida per gli economisti è capire i fondamenti su cui il settore si basa e cosa va fatto e da chi affinché esso possa dare il massimo contributo in un contesto economico e sociale complicato come l’attuale; ciò appare oltremodo importante, anche per aiutare gli stessi operatori e dirigenti di imprese e organizzazioni del settore che sempre più spesso, a seguito della confusione che ha regnato negli ultimi vent’anni, si percepiscono come operanti in contesti e organizzazioni residuali e, come sta succedendo ad alcune cooperative sociali, vanno alla ricerca di uno status maggiormente legittimato a livello politico e mediatico più che per i risultati ottenuti, ad esempio trasformando o aggiungendo al loro status di impresa sociale quello ben più “socialmente diluito” di società benefit o simili.
Il primo passo in questo lavoro di individuazione dei fondamentali è di carattere teorico, perché, se l’economia sociale è un settore chiaramente diverso da stato e mercato non può essere interpretata usando ipotesi e teorie proposte e sviluppate per altri attori. Infatti, è a tutti chiaro che il maccanismo di coordinamento dei diversi attori che concorrono alla realizzazione di un bene o di un servizio è quello dell’autorità se il coordinamento è affidato allo stato, o quello dello “scambio per il guadagno” se il meccanismo di coordinamento è affidato al mercato, dove infatti lo scambio – tra produttore e consumatore come tra lavoratore e impresa – avviene solo se tutte le parti sono convinte di guadagnarci. Uno degli errori dell’analisi economica delle cooperative è quello di interpretarle come se anch’esse facciano ricorso al meccanismo del mercato.
La domanda diventa allora: qual’ è il meccanismo utilizzato dai soggetti dell’economia sociale? La risposta sta nelle caratteristiche del settore che, considerate nel loro insieme indicano che il meccanismo di coordinamento principale delle organizzazioni dell’economia sociale è quello cooperativo. Indipendentemente dalla forma giuridica adottata, questo è il meccanismo – non certo nuovo, ma a cui l’analisi economica ha dato importanza marginale, se non nel primo ottocento e recentemente con l’attribuzione del premio Nobel a E. Ostrom – il meccanismo che opera quando un gruppo di persone (o istituzioni) che condividono un bisogno o un obiettivo scelgono insieme e liberamente come organizzarsi per soddisfarlo, decidendo direttamente il modo di affrontarlo che a loro risulta più idoneo e conveniente e come suddividere tra i partecipanti (presenti o che si aggregheranno in futuro) responsabilità, costi e benefici. Senza escludere che in determinati casi tra i beneficiari siano ricompresi, anche o soprattutto, soggetti che non partecipano alla costituzione e alla gestione. Senza necessariamente garantire che a maggiori costi personali corrispondano anche maggiori benefici. Il maccanismo di coordinamento cooperativo si distingue da quello del mercato perché non basato sullo scambio per il guadagno e perché costruito attraverso un consapevole percorso decisionale e non come reazione automatica alla comparazione tra bisogno da soddisfare e prezzo, mentre si distingue dal meccanismo dell’autorità perché chi vi aderisce lo fa per libera scelta.
Un maccanismo, quello cooperativo, che non ripudia lo scambio e non nega né la proprietà privata né l’importanza degli altri meccanismi, ma si propone per gestire transazioni economiche in base al principio di reciprocità e spesso di solidarietà. Un maccanismo che gode di vantaggi importanti: la flessibilità, che lo pone in posizione di vantaggio nell’affrontare situazioni di incertezza informativa, perché l’accordo cooperativo è, almeno in teoria, sempre rinegoziabile, oppure la capacità di mettere a frutto motivazioni diverse e più complesse dell’auto-interesse o dell’obbedienza, intrinseche e non solo estrinseche e monetarie. Motivazioni che sono in grado, a parità di condizioni, sia di ridurre i costi di transazione, sia di contribuire in modo originale alla creazione di valore economico e sociale. E che se non utilizzate, come spesso succede con i meccanismi del mercato e dell’autorità, sono semplicemente sprecate.
Questa interpretazione – da approfondire attraverso un auspicabile dibattito – oltre che aiutare a capire le specificità del settore aiuta anche ad analizzare criticamente le forme giuridiche disponibili, l’adeguatezza della regolamentazione, l’applicabilità del meccanismo della concorrenza, le modalità di governance e di gestione e, last but not least, le politiche di sostegno. Tutti temi che dovranno occupare il dibattito nel corso del prossimo anno in attesa dell’adozione definitiva da parte del Parlamento Europeo dell’Action Plan.