- Introduzione
- Nozione e disciplina dell’impresa sociale nel nuovo diritto del terzo settore
- L’impresa sociale come qualifica
- L’attività
- Le finalità
- L’impresa sociale e le altre imprese del terzo settore
- Alcune ipotesi applicative
Introduzione
“Impresa sociale” è il nomen iuris di una particolare fattispecie soggettiva appartenente a quello che oggi costituisce, formalmente ed ufficialmente, il “terzo settore”. Più precisamente, ai sensi del d.lgs. 117/2017, recante il Codice del terzo settore (CTS), il terzo settore risulta composto da un insieme di organizzazioni con comuni caratteristiche e suddiviso in più tipologie di enti cui si applica una disciplina particolare che le specializza rispetto alla fattispecie generale di ente del terzo settore e le distingue tra loro (art. 3, comma 1, CTS)1. L’impresa sociale è una di queste fattispecie particolari del terzo settore, essendo disciplinata dal d.lgs. 112/2017 (art. 40, comma 1, CTS) e conseguentemente iscritta in un’apposita sezione del Registro unico nazionale del terzo settore o RUNTS (art. 46, comma 1, CTS)2.
L’impresa sociale non è dunque un nuovo e differente tipo di impresa (come, per intenderci, lo sono l’impresa agricola o l’impresa commerciale), bensì una fattispecie soggettiva, peraltro non qualificabile come “tipo” bensì come “categoria”, essendo “qualifica” o “status” assumibile da vari tipi di enti, societari e non3. Allo stesso modo, quella sull’impresa sociale di cui al d.lgs. 112/2017 non è una disciplina “di attività” ma “di soggetto”4.
Quanto procede serve soltanto a sgombrare il campo da possibili equivoci emergenti da una denominazione non allineata alla più tradizionale terminologia, per la quale “impresa” è il nome proprio di una certa attività, quella con le caratteristiche di cui all’art. 2082 c.c., laddove “imprenditore” è il soggetto che la esercita.
Il nome vuole però evocare (riuscendo nell’intento) una certa sostanza del fenomeno: quella di un soggetto che svolge un’attività d’impresa con connotati di socialità. In questo senso, la formula non costituisce un unicum a livello internazionale, poiché – nonostante le inevitabili varianti dipendenti dalle specificità di ciascun ordinamento – è con il termine “social enterprise” che a questa tipologia organizzativa si fa riferimento (quasi) ovunque5, anche là dove – come negli Stati Uniti – le figure di riferimento assumono diversa denominazione legislativa6. La legislazione italiana sull’impresa sociale non è perciò isolata nel panorama comparatistico, nell’ambito del quale rientra tra le più evolute e convincenti, ponendosi come possibile modello di riferimento per legislatori interessati ad occuparsi della materia7.
Nozione e disciplina dell’impresa sociale nel nuovo diritto del terzo settore
L’impresa sociale, fattispecie soggettiva già istituita dal d.lgs. 155/2006, trova dunque adesso disciplina particolare nel d.lgs. 112/2017 che abroga il precedente (art. 19)8. Cionondimeno, la circostanza che l’impresa sociale sia oggi parte dell’insieme “terzo settore” non è irrilevante sul piano delle fonti. All’impresa sociale, infatti, si applicano, se ed in quanto compatibili con le norme di cui al decreto 112/2017, anche le disposizioni del CTS, nonché, in mancanza e per gli aspetti (che rimangono ancora) non disciplinati, le disposizioni del codice civile concernenti la forma giuridica in cui l’impresa sociale è costituita (art. 1, comma 5).
Lo stesso Codice, del resto, menziona più volte l’impresa sociale: in primo luogo, al fine di chiarire che essa è, a tutti gli effetti, un ente del terzo settore (art. 4, comma 1, e art. 46, comma 1, lett. d), CTS); in secondo luogo, al fine di escludere l’applicabilità all’impresa sociale di alcune sue disposizioni (art. 5, comma 1; art. 11, comma 3; art. 71, comma 2; art. 79, comma 1; art. 82, comma 1, CTS) ed in rari casi, invece, al fine di ammetterla espressamente (art. 82, comma 4; art. 101, comma 8, CTS); infine, allo scopo di operare un collegamento con la sua fonte particolare di disciplina, cioè il d.lgs. 112/2017 (art. 40, comma 1; art. 93, comma 2, CTS).
Pertanto, l’intervenuto inquadramento della disciplina dell’impresa sociale nell’ambito del nuovo diritto del terzo settore ne arricchisce e complica la disciplina, ed è questa la prima novità sostanziale con cui interpreti ed operatori dovranno confrontarsi. Potranno derivarne ulteriori vincoli e limiti, ma anche nuove opportunità, come ad esempio quella, per associazioni e fondazioni “imprese sociali”, di acquisire la personalità giuridica ai sensi dell’art. 22 CTS (piuttosto che del d.P.R. 361/2000). A tal fine, l’iscrizione dell’associazione o fondazione “impresa sociale” nel registro delle imprese dovrebbe surrogare l’iscrizione nel RUNTS, in forza di quanto previsto dall’art. 11, comma 3, CTS (e dall’art. 53, comma 1, CTS), e considerato che le imprese sociali devono sempre essere costituite per atto pubblico (art. 5, comma 1), l’unico onere aggiuntivo per le associazioni sarebbe quello di avere un patrimonio minimo di 15.000 euro (che per le fondazioni è invece pari a 30.000 euro). Per le medesime ragioni, dovrebbe poi operare, anche per le associazioni e fondazioni “imprese sociali” già riconosciute come persone giuridiche ai sensi del d.P.R. 361/2000, la sospensione d’efficacia di cui all’art. 22, comma 1-bis, CTS.
L’impresa sociale come qualifica
Il legislatore della riforma ha riordinato, migliorato qualitativamente e rinnovato la disciplina previgente dell’impresa sociale, anche al fine di “rilanciare” questo modello organizzativo del terzo settore, ma non ne ha tuttavia rivoluzionato l’architettura complessiva9.
In particolare, quella di impresa sociale rimane una qualifica soggettiva che enti privati costituiti (per atto pubblico) in una qualsiasi forma giuridica, anche societaria, possono assumere e mantenere se di essa presentano e conservano nel tempo i requisiti essenziali, operando altresì in conformità alle disposizioni del decreto (art. 1, comma 1)10.
Si reitera, così, la decisione (già assunta mediante il d.lgs. 155/2006) di non trattare l’impresa sociale alla stregua di un nuovo, particolare tipo di ente (ovverosia di contratto associativo), bensì di una figura trans-tipica o meglio sovra-tipica, cioè gruppo o categoria normativa (e perciò prescrittiva, in quanto finalizzata all’applicazione di una determinata disciplina11) di enti tipici con comuni caratteristiche attinenti all’attività, allo scopo e all’ordinamento interno. Oggi, la scelta si estende all’ente del terzo settore in generale, poiché anche quella di terzo settore è una categoria normativa cui i tipi legali dell’associazione (riconosciuta o non riconosciuta) e della fondazione possono liberamente accedere (risultando in possesso dei requisiti essenziali), così come successivamente fuoriuscire per scelta volontaria o atto dell’autorità preposta alla vigilanza12.
Si ha conferma di come il “tipo” stia sempre più smarrendo la capacità di dominare la complessità del reale e soddisfare gli obiettivi legislativi13. Al contrario, elementi tradizionalmente estranei alla definizione del tipo e connotati da maggiore concretezza, come l’oggetto e le modalità di conduzione dell’attività, diventano a tal fine fondamentali, assurgendo a requisiti della categoria (art. 2) e giustificandone l’istituzione.
Per di più, la categoria – quale disciplina trasversale di più tipi legali di enti – “appiattisce” i tipi, li “riduce” ed “uniforma”, perché il comune denominatore che aggrega i tipi di enti nella categoria dell’impresa sociale non è così “minimo”. Tutt’altro. A prescindere dal tipo di appartenenza (ovvero dalla forma giuridica di loro costituzione), le imprese sociali sono vincolate alla medesima attività ed al medesimo scopo, e soggette a comuni principi e regole di governance. Anche se il legislatore della riforma ha, come noteremo, positivamente discriminato, rispetto al passato, l’impresa sociale societaria, lo spazio per l’applicazione delle disposizioni concernenti la forma giuridica in cui l’impresa sociale è costituita (art. 1, comma 5) non è così ampio. Eppure esso rimane14. E ciò continua a giustificare la scelta tra costituire associazioni “imprese sociali”, fondazioni “imprese sociali”, società cooperative “imprese sociali” o società per azioni “imprese sociali”, ecc., che deve fondarsi sulle specifiche esigenze sottostanti alla costituzione di un’impresa sociale, essendo ciascuna forma organizzativa la sintesi di un diverso modello di governance, e dunque di una diversa combinazione di risorse umane, patrimoniali e non patrimoniali, oltre che di una diversa cultura organizzativa, che può anche avere radici storiche o ideologiche.
Questo approccio, tuttavia, non deve leggersi in termini di “neutralità” delle forme giuridiche dell’impresa sociale, bensì semmai di loro “pluralità”.
Il concetto di “neutralità” è infatti elaborato con riguardo al tipo, ed esprime indifferenza, ovvero appunto “neutralità”, della struttura organizzativa rispetto allo scopo perseguito ed in particolare a quello eventualmente tipico per legge15.
Diversamente, il legislatore dell’impresa sociale non si disinteressa dell’organizzazione interna del soggetto, ma si preoccupa anzi della coerenza della sua governance rispetto allo scopo istituzionale, e per questa ragione individua un nucleo comune di norme che riduce fortemente (pur senza eliminarla del tutto) la differenza tra le diverse forme giuridiche d’impresa sociale. Da qui la pluralità delle forme giuridiche dell’impresa sociale, attenuata dalle norme comuni fondanti la categoria, le quali si applicano con priorità rispetto a quelle del tipo (art. 1, comma 5), a meno che queste ultime non siano ancora più conformi agli obiettivi del legislatore di quanto non lo siano quelle della categoria (come ad esempio nel caso di cui all’art. 10, comma 1, che fa salve eventuali disposizioni più restrittive presenti nella disciplina del tipo legale).
Lo status di impresa sociale è accessibile solo agli enti giuridici e non già anche agli individui. Si tratta di una scelta legislativa che recente dottrina ha imputato al fatto che “solo nelle imprese collettive, nelle quali l’attività è svolta per realizzare una finalità esplicitamente dichiarata, è possibile la verifica della mancanza di lucro e degli altri requisiti posti dalla legge”16. Ma che forse sarebbe più appropriato ricondurre alla volontà legislativa di ritenere la gestione collettiva dell’impresa un fattore discriminante della sua socialità (rectius, della socialità dell’organizzazione imprenditoriale), come dimostra la circostanza che la società con un unico socio persona fisica è anch’essa esclusa dalla qualifica (art. 1, comma 2), pur essendo un ente giuridico cui uno scopo di utilità sociale sarebbe attribuibile in via esclusiva, e in cui la verifica della non lucratività sarebbe possibile così come in ogni altro ente.
Nemmeno le amministrazioni pubbliche possono acquisire la qualifica di impresa sociale (art. 1, comma 2), mentre le cooperative sociali e i loro consorzi l’acquisiscono “di diritto” (art. 1, comma 4). Ancora più particolare è la situazione degli enti religiosi civilmente riconosciuti (art. 1, comma 3)17.
Come stabilisce l’art. 1, comma 1, la qualifica è riservata agli enti che operano in conformità alle disposizioni del decreto, che cioè osservano e rispettano tutte le regole in esso contenute, da quelle relative all’attività da esercitarsi (art. 2) a quelle relative all’assenza di scopo di lucro (art. 3), alla redazione e deposito del bilancio sociale (art. 9, comma 2) e al coinvolgimento di lavoratori ed utenti (art. 11), ecc. Tali precetti, pertanto, costituiscono, tecnicamente, non già veri e propri obblighi di comportamento, bensì oneri di qualificazione. Servono più a delineare i confini e il perimetro dell’impresa sociale quale fattispecie normativa, che di per sé a prescrivere condotte. Conseguentemente, le irregolarità accertate e non sanate in sede di controllo pubblico danno luogo alla perdita della qualifica di impresa sociale (e alla sua conseguente cancellazione dalla omonima sezione speciale del registro delle imprese) e non già alla liquidazione dell’ente, ferma restando la devoluzione obbligatoria del suo patrimonio (art. 15, comma 8).
La qualifica di impresa sociale si ottiene con l’assolvimento del primo onere di qualificazione, cioè con l’iscrizione dell’ente nell’apposita sezione del registro delle imprese (art. 5, comma 2), cui al riguardo deve dunque attribuirsi efficacia costitutiva18. Affinché l’impresa sociale sia considerata ente del terzo settore non serve invece un’ulteriore iscrizione nel RUNTS (art. 11, comma 3, CTS)19.
La qualifica può perdersi per atto dell’autorità vigilante o anche sulla base di una scelta dell’ente20. Se nel caso di imprese sociali societarie la rinuncia volontaria alla qualifica di impresa sociale non può che determinare l’uscita dell’ente societario dal terzo settore (posto che gli enti del terzo settore diversi dalle imprese sociali non possono avere forma societaria: cfr. art. 4, comma 1, CTS), nel caso invece di associazioni e fondazioni imprese sociali, la scelta potrebbe anche in concreto dipendere dalla volontà dell’ente di assumere una diversa qualifica del terzo settore, ovverosia di mutare sezione del RUNTS, come è in generale concesso agli ETS dall’art. 50, comma 3, CTS. In quest’ultima ipotesi, pur in mancanza di deroga legislativa espressa, non dovrebbe operare la devoluzione obbligatoria del patrimonio residuo ai sensi dell’art. 12, comma 5, che serve ad evitare che il patrimonio accumulato fuoriesca dal circuito del terzo settore assieme all’ente che ne abbandona i confini. L’associazione o fondazione “impresa sociale” che abbia finito per assumere un’altra qualifica del terzo settore, cambiando sezione del RUNTS, dovrebbe pertanto poter continuare a disporre del proprio patrimonio, che rimarrà comunque “blindato” in forza di quanto previsto dall’art. 50, comma 2, CTS.
Possono naturalmente acquisire la qualifica di impresa sociale tanto enti di nuova costituzione quanto enti già costituiti, inclusi quelli eventualmente qualificatisi in precedenza come enti del terzo settore21.
L’attività
In linea con quanto si sottolineava poc’anzi, una circostanza di fatto, cioè lo svolgimento di una particolare attività in una determinata forma e/o con certe modalità, costituisce uno dei (principali) requisiti essenziali della qualifica di impresa sociale. Segnatamente, l’art. 2 fornisce un elenco di attività d’impresa che si considerano d’interesse generale ai fini del decreto: per assumere la qualifica di impresa sociale un ente deve svolgerne una o più nel rispetto di eventuali norme particolari che ne disciplinino l’esercizio (art. 2, comma 1) e non limitandone, neanche indirettamente, l’offerta ai soli soci o associati (art. 1, comma 2).
Tali attività d’impresa sono individuate sulla base del loro oggetto: dagli interventi e servizi sociali (lett. a) alla riqualificazione di beni pubblici inutilizzati o confiscati alla criminalità organizzata (lett. v). Il legislatore non si è dunque affidato ad una clausola generale (come hanno invece fatto altri legislatori europei)22, e si è per questo motivo attirato le critiche di chi ritiene che le attività debbano sempre essere contestualizzate per poter essere definite di interesse generale, e ciò sulla base del luogo nel quale si svolgono, delle persone che ne sono i beneficiari, della difficoltà ad accedervi e dei benefici che generano23. Invero, nessuno dubita che un approccio casistico ex post, eventualmente fondato su una clausola generale, possa condurre ad una identificazione più rigorosa delle attività di interesse generale rispetto ad un elenco astratto e tassativo di attività di interesse generale tali considerate ex ante dal legislatore. Ciononostante, simile approccio richiederebbe un’autorità terza incaricata di valutare se l’attività in concreto svolta da un ente possa considerarsi d’interesse generale24. Va dunque incontro a costi amministrativi elevati, di cui il legislatore della riforma ha evidentemente tenuto conto nel momento in cui ha preferito non optare per l’istituzione di una Authority del terzo settore, pur prospettata in sede di dibattito parlamentare25.
L’elenco di cui all’art. 2, comma 1, è molto lungo (più di quello presente nell’art. 2, comma 1, dell’abrogato d.lgs. 155/2006), ma non comprende tutte le attività di cui all’art. 5, comma 1, CTS. Ciò non deve sorprendere, perché l’art. 5 CTS è per sua natura norma generale rispetto all’art. 2, ed include alcune attività (come ad es. la beneficenza) che, per la loro natura necessariamente gratuita o erogativa, non potrebbero essere svolte in forma d’impresa. Al contrario, nell’art. 2 sono inserite attività che non lo sono nell’art. 5 CTS, poiché evidentemente ritenute dal legislatore esercitabili solo da imprese sociali societarie (come nel caso del microcredito). L’elenco può altresì essere aggiornato, e dunque altre attività essere aggiunte, con le modalità e le procedure di cui all’art. 2, comma 2.
L’impresa sociale non è tenuta ad esercitare esclusivamente un’impresa di interesse generale. È sufficiente, infatti, che quest’ultima sia almeno principale rispetto ad eventuali altre attività, ciò che si realizza quando i relativi ricavi siano superiori al settanta per cento dei ricavi complessivi dell’impresa sociale, tenendo conto di criteri di calcolo da stabilirsi con un decreto interministeriale ancora da emanarsi26.
Un ente che aspiri alla qualifica di impresa sociale ha a disposizione un’alternativa, che è quella di svolgere una qualsiasi attività d’impresa (dunque anche attività non rientranti tra quelle di cui all’art. 2, comma 1) nella quale occupare una percentuale minima di “lavoratori molto svantaggiati” di cui alla lettera a) del comma 4 dell’art. 2, o di “persone svantaggiate o con disabilità” ovvero delle altre persone indicate alla lettera b) della medesima norma. Tale percentuale minima è pari al 30% ed è da calcolarsi per teste, nonché in rapporto al numero totale dei lavoratori, esclusi quelli del cui 30% si tratta27. Tuttavia, ai fini del computo del 30%, i lavoratori molto svantaggiati di cui alla lettera a) del comma 4 non possono contare per più di un terzo e per più di ventiquattro mesi dall’assunzione28. In sostanza, in quest’ultimo caso, al fine di qualificare l’attività come di interesse generale, al legislatore non interessa il tipo di bene o servizio che l’impresa sociale produce ovvero il settore di attività in cui essa opera, ma solo la circostanza che determinate persone siano impiegate nell’attività d’impresa (qualunque essa sia)29. Il modello è quello, conosciuto da tempo, delle cooperative sociali cc.dd. di tipo b), di cui alla legge 381/1991.
Le finalità
Tra i (principali) requisiti che un ente deve soddisfare per assumere la qualifica di impresa sociale, il legislatore colloca l’agire “senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” (art. 1, comma 1)30. L’orientamento dell’attività d’impresa (rectius, dell’ente che la esercita) verso queste finalità è ribadito dall’art. 2, comma 1, mentre l’assenza di scopo di lucro – che deve peraltro essere espressamente indicata nell’atto costitutivo dell’impresa sociale (art. 5, comma 1) – rinviene la sua disciplina particolare nell’art. 3.
Lo scopo assegnato all’impresa sociale quale fattispecie soggettiva emerge con chiarezza dalle disposizioni testé menzionate. È uno scopo palesemente diverso sia da quello di dividere gli utili (art. 2247 c.c.), sia da quello mutualistico (2511 c.c.), sia da quello meramente non lucrativo. Ma in che cosa consiste esattamente?
Invero, il contenuto normativo del precetto di perseguire finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale non è chiaro, anche perché il legislatore non ne offre alcuna definizione31, e va compreso in che rapporto si ponga con il vincolo allo svolgimento di un’impresa di interesse generale32.
Di sicuro v’è, innanzitutto, che il perseguimento delle suddette finalità non si identifica con l’agire senza scopo di lucro, ma tutt’al più lo presuppone.
Quanto al lucro oggettivo, ciò lo si ricava dall’art. 3, comma 1, allorché stabilisce che “l’impresa sociale destina eventuali utili ed avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio”. Esercitare l’impresa con metodo lucrativo è dunque senz’altro consentito ad un’impresa sociale, cui è però imposto il reinvestimento del surplus generato33.
Quanto al lucro soggettivo, può essere sufficiente menzionare la definizione di impresa sociale, nella quale coesistono l’agire senza scopo di lucro e l’agire per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale (art. 1, comma 1). Se poi si analizza con attenzione l’art. 3, che all’assenza di scopo di lucro è dedicato, si potrà notare come, in realtà, il suo primo comma non contenga un divieto di lucro (soggettivo), bensì un obbligo di destinazione delle risorse generate dall’impresa “allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio”. Il successivo divieto di lucro (soggettivo), di cui al secondo comma, sia nella sua versione “diretta” che “indiretta”, è solo strumentale al predetto obbligo, come si evince dalle parole di apertura “ai fini di cui al comma 1”.
Che l’impresa sociale sia un ente senza scopo di lucro (soggettivo) non è contraddetto dalla possibilità ad essa accordata (peraltro soltanto se costituita in forma di società) di destinare una quota inferiore al cinquanta per cento degli utili e degli avanzi di gestione annuali (dedotte eventuali perdite maturate negli esercizi precedenti) alla distribuzione di dividendi ai soci nel limite dell’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato (art. 3, comma 3, lett. b)).
Questa facoltà è stata riconosciuta all’impresa sociale societaria al fine di favorirne l’accesso al capitale di rischio quale forma di finanziamento dell’attività d’impresa, superando così il divieto assoluto di distribuire dividendi ai soci contenuto nella precedente normativa34.
Se è comprensibile discutere in merito all’opportunità di questa innovazione legislativa, confrontandosi al riguardo commenti positivi e giudizi più cauti35, non sarebbe però corretto inferire da essa che l’impresa sociale non sia un ente senza scopo di lucro o sia un ente anche (parzialmente) con scopo di lucro, valutando così la rubrica dell’art. 3 (“Assenza di scopo di lucro”) contraddittoria o imprecisa.
In realtà, la distribuzione di dividendi non solo è consentita esclusivamente in alcune imprese sociali (quelle societarie), ma è legislativamente trattata alla stregua non già di un fine bensì di un mezzo per raggiungere altri obiettivi (quelli di natura sociale propri dell’impresa sociale). Nelle società imprese sociali remunerare entro certi limiti il capitale versato dai soci è permesso così come è permesso retribuire i lavoratori entro i limiti di cui all’art. 3, comma 2, lett. b). Da questo punto di vista, non è fatta differenza tra capitale e lavoro quali fattori della produzione remunerabili dall’imprenditore entro limiti compatibili (e perciò congrui e coerenti) con le sue finalità istituzionali. Del resto, allo stesso modo e per le medesime ragioni, nessuno potrebbe mai sostenere – dopo che la riforma del diritto societario ha modificato gli articoli 2511-2513 c.c. – che una società cooperativa a mutualità prevalente che distribuisca dividendi ai soci nei limiti di cui all’art. 2514, comma 1, lett. a), c.c., non abbia scopo mutualistico o abbia uno scopo misto, mutualistico e lucrativo insieme.
Da qui anche l’evidente differenza a livello causale (ovvero di scopo perseguito) tra l’impresa sociale e la società benefit, poiché quest’ultima persegue finalità di beneficio comune accanto allo scopo di dividere gli utili, ed ha dunque uno scopo “misto” che l’impresa sociale invece non ha (essendo esclusivamente orientata verso le proprie finalità sociali)36.
L’impresa sociale non è però – giova ribadirlo – una fattispecie soggettiva puramente e semplicemente “senza scopo di lucro”, ma qualcosa di più e di diverso. Invero, dalle norme sin qui richiamate emerge la stretta relazione esistente tra il profilo delle finalità (“scopo-fine”) e quello dell’attività (“scopo-mezzo”). In una legislazione come quella italiana, dove le attività che un’impresa sociale può svolgere sono predefinite dal legislatore, che le seleziona sulla base della loro (presunta) natura “di interesse generale”, è lo svolgimento di una (o più) attività di interesse generale (in via esclusiva o quanto meno prevalente), cioè lo “scopo-mezzo”, l’elemento di per sé sufficiente a proiettare l’impresa sociale verso il perseguimento delle sue finalità tipiche, null’altro dovendo a quest’ultima ulteriormente richiedersi37. In definitiva, le finalità sono di natura civica, solidaristica, ecc., quando l’attività svolta dall’impresa sociale sia di interesse generale e venga condotta nel rispetto delle diverse regole operative di cui all’art. 3. Obiettivo istituzionale dell’impresa sociale è esercitare un’attività d’impresa di interesse generale, indirizzando verso quest’ultima ogni risorsa residua. In definitiva, nella fattispecie soggettiva dell’impresa sociale, “scopo-mezzo” e “scopo-fine” si sovrappongono e finiscono sostanzialmente per coincidere.
Con quanto sin qui chiarito non si vuole tuttavia negare che la complessiva “socialità” dell’impresa sociale sia conseguenza non soltanto dello svolgimento di un’attività di interesse generale senza finalità lucrative, ma anche degli specifici aspetti di governance che la connotano, tra i quali spiccano la gestione responsabile e trasparente e il coinvolgimento di lavoratori, utenti e stakeholder, non a caso contemplati nella sua stessa definizione (art. 1, comma 1)38.
L’impresa sociale e le altre imprese del terzo settore
Tra le attuali tipologie soggettive del terzo settore, l’impresa sociale è quella specificamente concepita dal legislatore per lo svolgimento di attività d’impresa. Non costituisce, tuttavia, l’unico modello di ente del terzo settore legislativamente ammesso ad esercitare un’impresa di interesse generale. Da qui la possibilità di enucleare, a fini classificatori, la categoria delle “imprese del terzo settore” (nel senso, soggettivo, di “enti imprenditoriali del terzo settore”), che comprende le imprese sociali ma non si esaurisce in esse, e che a sua volta potrebbe farsi rientrare nell’ancora più ampia categoria descrittiva delle “imprese non speculative”, di recente elaborazione da parte di un’attenta dottrina39.
Il legislatore della riforma assume una posizione molto netta con riguardo alla possibilità che gli enti del terzo settore svolgano le loro attività d’interesse generale in forma d’impresa. Ciò è infatti loro generalmente consentito, come si deduce con certezza da una serie di disposizioni.
Innanzitutto, dall’art. 4, comma 1, CTS, allorché, nel definire gli enti del terzo settore, da un lato richiama le imprese sociali (“sono enti del terzo settore … le imprese sociali”), dall’altro include la “produzione o scambio di beni o servizi” tra le possibili forme di svolgimento dell’attività di interesse generale, accanto all’azione volontaria, all’erogazione gratuita e alla mutualità.
In secondo luogo, dall’art. 5 CTS, che nell’elencare le attività (di interesse generale) il cui svolgimento contraddistingue legislativamente gli enti del terzo settore, non fa riferimento ad alcuna specifica modalità di loro esercizio, risultando dunque anche quella imprenditoriale implicitamente ammessa.
In terzo luogo, dal riferimento nell’art. 8 ad eventuali ricavi e utili conseguibili dagli enti del terzo settore; termini tecnici che evocano entrate da corrispettivi e margini positivi di una gestione economica.
Infine, dalla previsione dell’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese (oltre che nel RUNTS) per gli enti del terzo settore “che esercitano la propria attività esclusivamente o principalmente in forma di impresa commerciale” (art. 11, comma 2, CTS), nonché dall’imposizione ai medesimi enti dell’obbligo di tenuta delle scritture contabili di cui all’art. 2214 c.c. (art. 13, comma 4, CTS) e di redazione e deposito del bilancio di esercizio presso il registro delle imprese (art. 13, comma 5, CTS).
Alla luce delle norme summenzionate, è dunque fuori discussione la generale possibilità per gli enti del terzo settore (anche diversi dall’impresa sociale) di esercitare un’attività economica con tutte le caratteristiche di cui all’art. 2082 c.c. In forma d’impresa potranno da essi svolgersi non soltanto le attività “diverse” di cui all’art. 6 CTS, ma anche le stesse attività “di interesse generale” di cui all’art. 5 CTS; ed anzi, se per le prime sono fissati limiti qualitativi (la “strumentalità”) e quantitativi (la “secondarietà”), nessun limite vige invece per le seconde, fermi restando, naturalmente, il rispetto degli obblighi di trasparenza e pubblicità di cui agli artt. 11 e 13 CTS e di destinazione dei ricavi ed utili di cui all’art. 8 CTS, nonché le ricadute sul fronte fiscale (in ragione della distinzione tra enti del terzo settore “commerciali” e “non commerciali”).
Il terzo settore viene pertanto definitivamente affrancato da una dimensione esclusivamente gratuita, erogativa, volontaria. Si riconosce così, in termini generali, la generale compatibilità dell’impresa con il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e con la qualifica di ente del terzo settore. L’ente del terzo settore può svolgere attività d’impresa senza alcun limite, non essendo questa circostanza incompatibile con i requisiti soggettivi della fattispecie40. Esso potrebbe pertanto acquisire la qualifica di imprenditore in generale e di imprenditore commerciale in particolare, ed essere così sottoposto al relativo statuto normativo.
A quest’ultimo specifico riguardo, non è chiaro tuttavia se, in forza di quanto previsto dagli articoli 11, comma 2, e 13, comma 4, CTS, acquisti la qualifica di imprenditore commerciale (e sia sottoposto al relativo statuto) soltanto l’ente del terzo settore che eserciti un’impresa in via almeno prevalente. La tesi preferibile è che il legislatore della riforma del 2017 non abbia inteso prendere posizione su un tema che ha a lungo occupato la dottrina41, essendosi semplicemente limitato a favorire, mediante le norme citate, enti del terzo settore che non esercitano un’impresa commerciale in forma prevalente, ma sono comunque sottoposti all’obbligo di iscrizione al RUNTS (art. 4, comma 1, CTS), all’obbligo di redazione di un documento economico-patrimoniale (art. 13), e ad un sistema di controllo pubblico. Pertanto, la volontà legislativa sembra essere stata quella di non appesantire ingiustificatamente il regime degli enti del terzo settore, piuttosto che di escludere l’applicazione della residua parte dello statuto dell’imprenditore commerciale agli enti del terzo settore che non svolgono impresa né in via principale né esclusiva42.
L’impresa sociale non è dunque, in teoria, l’unica “impresa del terzo settore”, perché l’esercizio d’impresa è consentito anche alle altre fattispecie soggettive del terzo settore. L’unica differenza è che l’impresa sociale è necessariamente legata all’attività d’impresa, poiché lo svolgimento di una o più imprese di interesse generale costituisce un requisito essenziale della relativa fattispecie, che peraltro si perfeziona con l’iscrizione nel registro delle imprese. Al contrario, l’imprenditorialità degli altri enti del terzo settore è soltanto eventuale, con l’ulteriore conseguenza che essi acquistano la qualità di imprenditore solo con l’effettivo inizio dell’attività d’impresa43.
Tuttavia, nonostante l’esercizio di impresa, persino in via esclusiva, non costituisca prerogativa delle imprese sociali, il legislatore riserva a queste ultime un trattamento particolare, che può di fatto fortemente condizionare il ricorso all’impresa da parte di enti del terzo settore diversi dall’impresa sociale, ovvero contribuire a rendere l’impresa sociale l’unica tipologia particolare di ente del terzo settore concretamente impiegata per lo svolgimento in via esclusiva o prevalente di un’attività d’impresa di interesse generale.
A questa conclusione si giunge analizzando la complessiva disciplina, ed in particolare quelle norme che impongono alle imprese del terzo settore oneri che le imprese sociali non hanno, come la doppia iscrizione nel registro delle imprese e nel RUNTS (art. 11, comma 2, CTS); o quelle norme che attribuiscono all’impresa sociale possibilità che alle altre imprese del terzo settore non sono accordate, come quella di qualificarsi (anche) per l’inserimento lavorativo di persone o lavoratori svantaggiati in una qualsiasi attività d’impresa (art. 2, commi 4 e 5, d.lgs. 112/2017). Ma ciò che più conta è il diverso regime tributario. Solo alle imprese sociali si rivolge infatti la misura di cui all’art. 18, comma 1, d.lgs. 112/2017, che prevede la totale detassazione degli utili reinvestiti nell’attività o destinati al patrimonio, mentre gli enti del terzo settore diversi dall’impresa sociale, i quali, in ossequio all’art. 8, comma 1, CTS, cioè in attuazione di una norma di legge che a ciò li obbliga, reinvestano gli utili eventualmente generati dalla loro impresa, non sono beneficiari della medesima agevolazione.
La disparità di trattamento è talmente palese da non poter essere che imputabile alla precisa volontà legislativa di favorire l’impresa sociale rispetto alle altre imprese del terzo settore, ovverosia di promuovere la costituzione di imprese sociali (rispetto ad altri enti del terzo settore imprenditoriali) e la conversione di enti del terzo settore (già di fatto) imprenditoriali in imprese sociali44. Non si tratta di incongruenze involontarie, bensì di scelte legislative consapevoli.
Conseguentemente, ove non decideranno di assumere la qualifica di impresa sociale, è molto probabile che gli altri enti imprenditoriali del terzo settore (cioè quelli diversi dalle imprese sociali) finiscano per esercitare imprese soltanto secondarie e strumentali (rispetto ad un’attività gratuito-erogativa svolta in via principale) o mutualistiche (da gestire nella prospettiva del pareggio di bilancio) oppure imprese piccole e non bisognose di ingenti capitali di rischio o di patrimoni rilevanti. Ciò tanto più se si pensa che le forme giuridiche delle imprese del terzo settore (diverse dalle imprese sociali) sono soltanto quelle dell’associazione e della fondazione, sottoposte al totale divieto di lucro soggettivo (art. 8, comma 1, CTS), mentre l’impresa sociale può anche avere forma societaria, (oggi) ammessa alla ripartizione di dividendi in misura limitata, nonché beneficiaria di significativi incentivi alla capitalizzazione (quelli di cui all’art. 18, commi 3 e 4, d.lgs. 112/2017)45.
Alcune ipotesi applicative
Come già sottolineato, il legislatore della riforma del 2017 si proponeva di rilanciare lo strumento dell’impresa sociale, introdotto nel 2006 con scarso successo. A tal scopo, ha tra le altre cose rilassato alcuni vincoli, come quello sulla distribuzione di dividendi ai soci (adesso ammessa entro certi limiti), ampliato le possibilità operative dell’impresa sociale (aumentando i settori di attività), introdotto strumenti di suo potenziale sviluppo (come i fondi di cui all’art. 16) e soprattutto inserito misure fiscali agevolative (all’art. 18).
Ad esito del processo di riforma, l’impresa sociale appare oggi una figura organizzativa del terzo settore estremamente duttile e perciò capace di soddisfare diverse esigenze concrete connesse al perseguimento di finalità non lucrative e di utilità sociale attraverso lo svolgimento di attività d’impresa d’interesse generale.
Da qui la possibilità di prospettare alcune ipotesi applicative di questo strumento organizzativo, particolarmente innovative per le modalità con cui possono soddisfare i bisogni sociali.
L’impresa sociale potrebbe innanzitutto essere utilizzata dalle pubbliche amministrazioni per realizzare forme innovative di welfare in partnership con enti privati del terzo settore. Una di queste potrebbe essere la creazione di società miste pubblico-privato con la qualifica di “impresa sociale”, cui affidare la gestione di servizi sociali. Simile scelta potrebbe interessare tanto le amministrazioni comunali quanto le aziende pubbliche di servizi alla persona (ASP) sorte per effetto di trasformazione delle IPAB.
La legge, infatti, impedisce sì alle amministrazioni pubbliche di assumere la qualifica di impresa sociale (art. 1, comma 2) e di controllare un’impresa sociale (art. 4, comma 3), ma non impedisce loro di partecipare ad un’impresa sociale. Nella misura in cui, pertanto, si rispetti la disciplina sulle società a partecipazione pubblica (d.lgs. 175/2016), l’ente pubblico interessato potrebbe valutare l’opportunità di affidare la gestione di servizi sociali a società imprese sociali che abbia contribuito esso stesso a costituire assieme ad uno o più soci privati selezionati secondo la normativa vigente. Questa società mista, per poter assumere la qualifica di impresa sociale, dovrebbe ovviamente non essere controllata dal socio pubblico, bensì dal socio privato, che a sua volta potrebbe essere un ente senza scopo di lucro, un ente con scopo mutualistico oppure un ente del terzo settore (inclusa un’impresa sociale o una cooperativa sociale), ma non già un ente con scopo di lucro, perché a quest’ultimo il controllo di un’impresa sociale è impedito dall’art. 4, comma 3.
Questa ipotesi teorica ha già trovato un’applicazione concreta. Nel marzo del 2019 è stata infatti costituita un’impresa sociale, nella forma di consorzio di cooperative sociali (ai sensi dell’art. 8 della legge 381/1991), da ventisette comuni dell’ambito distrettuale di Lecco e da alcuni enti privati selezionati sulla base di un’apposita gara “a doppio oggetto”, finalizzata cioè sia alla selezione del socio privato della costituenda società mista impresa sociale sia al successivo affidamento a quest’ultima dei servizi sociali. Questo modello organizzativo è divenuto oggetto di particolare interesse in tutto il territorio nazionale46.
L’impresa sociale potrebbe poi essere impiegata da enti privati formalmente estranei al terzo settore per realizzare in forma stabile ed organizzata le proprie finalità sociali, esclusive o concorrenti con le altre finalità dai medesimi perseguite. In sostanza, l’ipotesi è quella di un ente privato che costituisca un’impresa sociale al fine di realizzare i propri obiettivi di interesse generale con modalità diverse da quelle consuete.
Di particolare interesse è l’ipotesi in cui siano le fondazioni di origine bancaria (FOB) ad avvalersi dello strumento giuridico dell’impresa sociale, per realizzare in via diretta finalità sociali.
Occorre a tal riguardo premettere innanzitutto che le FOB non possono assumere la qualifica né di ente del terzo settore né di impresa sociale. Ciò non tanto per una loro intrinseca non riconducibilità a queste categorie normative, bensì per una precisa scelta legislativa che ha trovato sostanza in due disposizioni identiche contenute nel Codice del terzo settore (art. 3, comma 3, d.lgs. 117/2017) e nel decreto sull’impresa sociale (art. 1, comma 7, d.lgs. 112/2017)47. Il fatto che non possano qualificarsi come imprese sociali non impedisce però alle FOB di costituire imprese sociali, da loro co-partecipate o anche interamente controllate, poiché i divieti di controllo riguardano le pubbliche amministrazioni e gli enti con scopo di lucro (art. 4, comma 3), ma non già enti senza scopo di lucro, ancorché formalmente non appartenenti al terzo settore, quali le FOB.
Ebbene, sulla base del proprio particolare statuto normativo, le FOB, oltre che mediante il finanziamento di attività di interesse generale poste in essere da altri soggetti, possono realizzare le proprie finalità sociali anche mediante lo svolgimento di attività d’impresa, in via diretta o indiretta, assumendo cioè partecipazioni di controllo in enti e società.
Le FOB possono infatti “detenere partecipazioni di controllo in enti e società che abbiano per oggetto esclusivo l’esercizio di imprese strumentali” (art. 6, comma 1, d.lgs. 153/99). Considerato che per “impresa strumentale” s’intende una “impresa esercitata dalla fondazione o da una società di cui la fondazione detiene il controllo, operante in via esclusiva per la diretta realizzazione degli scopi statutari perseguiti dalla Fondazione nei settori rilevanti” (art. 1, lett. h), d.lgs. 153/99), non sarebbe impedito alle FOB di perseguire i propri scopi istituzionali attraverso il controllo di (enti imprenditoriali del terzo settore ed in particolare di) imprese sociali. Anzi, (nell’ente del terzo settore e) nell’impresa sociale le FOB possono rinvenire la struttura organizzativa più adeguata per attuare questa loro, possibile, modalità operativa; più adeguata perché in linea con gli obiettivi delle FOB, nonché sottoposta ad obblighi di pubblicità, trasparenza, gestione e controllo pubblico che costituiscono fattori di rafforzamento delle finalità sociali e di efficacia ed efficienza nella conduzione di attività di interesse generale48.
Le FOB potrebbero inoltre, come detto, assumere una partecipazione non di controllo in una società impresa sociale. Questa partecipazione sarebbe peraltro consentita alle FOB non solo impiegando il proprio reddito ma anche il proprio patrimonio alla luce di quanto previsto dall’art. 7, comma 1, d.lgs. 153/199949, e sarebbe resa utile dall’art. 3, comma, lett. a), d.lgs. 112/2017, che consente alle imprese sociali societarie di remunerare entro certi limiti il capitale conferito dai propri soci. Sarebbe anzi, questa, una partecipazione che, intervenendo in un ente che, come spiegato, persegue sostanzialmente le medesime finalità delle FOB, non genererebbe per queste ultime e i loro obiettivi istituzionali, quei rischi che invece la partecipazione in società di capitali e cooperative pone in ragione dello scopo lucrativo o mutualistico, e non già sociale, perseguito da questi ultimi tipi societari50.
Il ragionamento sin qui svolto rispetto alle FOB può validamente estendersi ad altri enti o categorie di enti, come ad esempio le banche di credito cooperativo (BCC). Queste ultime, infatti, potrebbero trovare nell’impresa sociale (così come in un’altra tipologia di ente del terzo settore, quale la fondazione filantropica) una valida strategia operativa per realizzare in forma innovativa e stabile le destinazioni a fini di beneficenza cui sono per legge obbligate (cfr. artt. 32, comma 2, e 37, comma 3, TUB). L’impresa sociale potrebbe anche essere interamente controllata dalla BCC, dal momento che essa non rientra nel divieto di cui all’art. 4, comma 3, d.lgs. 112/2017, che nel riferirsi ad “enti con scopo di lucro” fa sicuramente salvi gli enti con scopo mutualistico quali le società cooperative, incluse quelle operanti nel settore bancario come le BCC.
Altri, ulteriori molteplici usi dell’impresa sociale potrebbero prospettarsi.
L’impresa sociale potrebbe essere il “luogo” dove enti del terzo settore, enti lucrativi (anche con la qualifica di società benefit) ed enti pubblici cooperano nella prospettiva di un “welfare condiviso”, tenendo però conto che, in quest’ultimo caso, il controllo dell’impresa sociale eventualmente risultante dall’azione comune dovrebbe essere riservato all’ente o agli enti del terzo settore per non incorrere nel divieto di controllo di cui all’art. 4, comma 3, d.lgs. 112/2017.
L’impresa sociale potrebbe anche divenire il “braccio” imprenditoriale tanto di enti del terzo settore a carattere principalmente gratuito-erogativo (come le organizzazioni di volontariato o gli enti filantropici) ovvero di servizio e rappresentanza (come le reti associative e i centri di servizio per il volontariato), quanto di enti senza scopo di lucro tradizionalmente impiegati in imprese di interesse generale (come gli enti ecclesiastici).
Di recente si sono altresì prospettati collegamenti proficui tra impresa sociale ed economia circolare51 e si è immaginata la figura delle “imprese sociali di comunità”52.
Le notevoli potenzialità che l’impresa sociale ha dopo la riforma del 2017 non potranno tuttavia essere pienamente colte fintanto che rimarrà inefficace l’articolo 18 d.lgs. 112/2017 e le misure fiscali ivi contenute53. L’auspicio è dunque che il Governo provveda celermente a formulare la richiesta di nulla-osta alla Commissione europea (che quest’ultima non dovrebbe fare fatica a rilasciare)54 affinché l’impresa sociale possa cominciare davvero ad esprimere il suo potenziale a vantaggio di cittadini, comunità, altri enti del terzo settore, nonché enti pubblici e privati interessati ad occuparsi del sociale con modalità innovative.