Verso le CER del Terzo Settore

Introduzione al Report di ricerca “Gli ETS come veicolo per lo sviluppo delle CER” che sarà presentato a Roma il 24 settembre

Il rapporto della Fondazione Terzjus, “Gli ETS come veicolo di sviluppo delle CER”, arriva in un momento particolarmente propizio, considerata l’intervenuta inclusione, ad opera del decreto legge n. 57/2023, della “produzione, accumulo e condivisione di energia da fonti rinnovabili a fini di autoconsumo” tra le attività di interesse generale di cui all’art. 5, comma 1, d.lgs. 117/2017 (“CTS”), nonché di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. 112/2017, che segna un decisivo punto di svolta nel percorso di avvicinamento delle comunità energetiche rinnovabili (“CER”) al terzo settore. Lo svolgimento quanto meno prevalente di una o più attività di interesse generale è infatti necessario per poter qualificare un ente come ente del terzo settore, consentendone l’accesso al RUNTS e al relativo regime promozionale.

È senz’altro vero quanto opportunamente si sottolinea nel rapporto di ricerca, ovverosia, che sarebbe stato comunque possibile, pur in assenza di esplicita menzione legislativa, ritenere questa attività un’attività di interesse generale ai sensi e per gli effetti del CTS. Tuttavia, il riferimento esplicito adesso contenuto nel CTS (e nel decreto sull’impresa sociale) all’attività tipica delle CER da un lato rimuove ogni dubbio sulla possibilità di considerare l’attività in questione di interesse generale ed in quanto tale eleggibile da un ente che ambisca ad iscriversi nel RUNTS, dall’altro lato presenta l’indiscutibile merito di segnalare il legame sussistente tra questa particolare attività e l’ordinamento del terzo settore, incentivando così CER costituite o costituende a valutare la possibilità di acquisire la qualifica di ETS iscrivendosi al RUNTS (o nella sezione “imprese sociali” del Registro delle imprese).

Invero, la natura di interesse generale dell’attività svolta non è l’unico punto di contatto tra le CER di cui all’art. 31 d.lgs. 199/2021 e gli ETS di cui al CTS.

La CER, infatti, deve avere come obiettivo principale “fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità ai suoi soci o membri o alle aree locali in cui opera la comunità”. Tale scopo è chiaramente inquadrabile tra le “finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale” che caratterizzano gli ETS, pur dovendosi segnalare che queste finalità devono essere da un ETS perseguite “in via esclusiva” (cfr. art. 8, comma 1, CTS) e non già soltanto “principale” (come è invece concesso ad una CER dall’art. 8, comma 1, lett. a), d.lgs. 199/2021).

Per quanto riguarda la governance dell’ente, la “virtuosità” della CER è in alcuni casi persino maggiore di quella di un generico ETS, e ciò per effetto di una disciplina a tratti più esigente della disciplina degli ETS. Così è con riferimento alla necessità che la CER sia un soggetto giuridico non solo distinto dai propri membri ma anche da essi “autonomo” (un ETS, invece, è in linea di principio controllabile da singoli soggetti, interni o esterni alla base sociale, purché essi non siano gli enti “esclusi” di cui all’art. 4, comma 2, CTS), necessariamente (e non solo potenzialmente, come invece accade per gli ETS) aperto a nuove adesioni e tendenzialmente multistakeholder, ovverosia composto e diretto da diverse categorie di soggetti, quali persone fisiche, PMI, associazioni, enti territoriali, amministrazioni locali, enti religiosi, enti del terzo settore, ecc.

In ragione di questi elementi, qui solo rapidamente accennati, l’ipotesi che una CER acquisisca la qualifica di ETS mediante iscrizione nel RUNTS assume non solo maggiore concretezza, ma si presenta altresì foriera di opportunità per l’ente che decida di percorrerla; si tratta di opportunità non solo di natura identitaria, ma anche fiscale e d’altro genere (si pensi all’accesso all’istituto dell’“amministrazione condivisa”, che la legge riserva agli ETS), che il rapporto mette bene in luce.

V’è di più. Acquisire la qualifica di ETS, o meglio quella di impresa sociale, può essere l’unica via percorribile se si intende strutturare una CER in forma di società di capitali. Se infatti i requisiti identitari della CER, così come individuati dall’art. 31 d.lgs. 199/2021, senz’altro si conciliano con un ente costituito in forma di associazione e di società cooperativa (ed in particolar modo, come diremo, con quest’ultima), i medesimi requisiti appaiono invece incompatibili con la forma societaria, che nel nostro ordinamento rimane vincolata allo scopo di perseguire un utile da distribuire ai soci (art. 2247 c.c.). Una CER, infatti, è tenuta a fornire benefici ambientali, economici o sociali e non già a distribuire utili ai propri soci, sicché il ricorso alle forme giuridiche della s.p.a. e della s.r.l., nonché di altre forme societarie diverse dalla cooperativa, precluderebbe ad una CER di potersi qualificare come tale. Tuttavia, se una società fosse per legge vincolata al perseguimento di finalità sociali piuttosto che lucrative, il tipo societario tornerebbe ad essere utilizzabile da una CER. È quanto si verifica per le società “imprese sociali”, che sono società senza scopo di lucro, tenute al reinvestimento dell’utile eventualmente conseguito attraverso l’esercizio dell’impresa, ancorché autorizzate entro certi limiti, e sempre che lo statuto non preveda diversamente, alla distribuzione di utili ai soci (art. 3 d.lgs. 112/2017). Senz’altro ammissibile sarebbe pertanto (pur dovendosi tenere conto della necessità di disposizioni statutarie ad hoc) una CER “impresa sociale” in forma di s.p.a. o s.r.l., perché questa CER s.p.a. o s.r.l. non avrebbe scopo di lucro e potrebbe darsi obiettivi ambientali, mutualistici o sociali, come ad essa imposto dalla legge.

La possibilità di istituire CER in diverse forme giuridiche, nonché l’ulteriore possibilità di attribuire ad una CER la qualifica di terzo settore, accendono ed alimentano il dibattito relativo all’analisi di ciascun modello di CER, al confronto tra i possibili modelli e ai vantaggi e ai limiti di ciascuno di essi, anche con riferimento agli elementi di fatto che dovrebbero caratterizzare una determinata CER, al fine di poter comprendere quale sia il modello preferibile in ciascun caso o classe di casi. Il rapporto che qui si introduce fornisce il suo contributo in questa direzione, ponendo le basi per una riflessione di questo tipo. 

A nostro avviso, vi sono diversi elementi che conducono a ritenere che, tendenzialmente e al netto di particolari esigenze che possano giustificare soluzioni diverse, la cooperativa sia la forma più congeniale per dare veste giuridica ad una CER. La cooperativa è un tipo di ente che di per sé presenta già diversi elementi che caratterizzano una CER, dallo scopo mutualistico alla “porta aperta” per menzionarne solo alcuni, e che per di più si presta ad essere strutturata statutariamente per dare risalto alla territorialità (l’esperienza delle banche di credito cooperativo lo dimostra) e voce alle diverse possibili categorie di soci, e dunque di interessi, che dovrebbero per legge coesistere in una SCE (qui può essere utile la prassi delle cooperative sociali). I dati a livello europeo confortano questa conclusione, essendo la cooperativa una forma di CER molto utilizzata nei paesi in cui le CER sono più sviluppate. Inoltre, nell’ordinamento italiano, nel quale è possibile attribuire ad una cooperativa CER la qualifica di impresa sociale (ciò che, invero, sarebbe possibile anche in altri ordinamenti giuridici nazionali), la cooperativa impresa sociale potrebbe assurgere a modello di riferimento per le CER e chi intende costituirle, nonché naturale punto di partenza e necessario termine di confronto per valutare l’eventuale uso di forme giuridiche alternative. Molto opportunamente, dunque, nel rapporto si dà adeguato risalto alla cooperativa impresa sociale tra le possibili forme giuridiche di CER, accanto alla fondazione di partecipazione come ulteriore possibile modello, che però a noi appare una soluzione più complessa e delicata di quella cooperativa e perciò da trattare con molta attenzione. 

Ad ogni modo, l’esiguo numero di CER attualmente accreditate (il GSE, nel suo ultimo rapporto periodico su “Energia e clima in Italia”, ne riporta 35 al 30 giugno 2023) proietta inevitabilmente nel futuro ogni discorso sulle CER del terzo settore, rendendolo per sua natura prospettico e programmatico. Le CER del terzo settore non sono ancora una realtà, ma sembrano avere tutte le carte in regola per poterlo diventare, come anche nel rapporto non si trascura di sottolineare. A tal fine sarà a nostro avviso essenziale la semplificazione dell’attuale quadro normativo, ma anche la sua divulgazione e promozione, al fine di rendere le CER più note ed accessibili a tutti, come questo rapporto contribuisce a fare. 

Non è qui in questione soltanto l’opportunità della scelta (che enti come le CER che si pongono scopi non lucrativi non possono permettersi il lusso di sottovalutare), ma anche il suo carattere simbolico, poiché CER ed ETS condividono la medesima “anima” ed è questa loro comune essenza ad incrementarne la capacità di contribuire al bene comune. Se alle CER si attribuiscono in generale numerose virtù (tra cui la tutela dell’ambiente, la democratizzazione del mercato elettrico, la riduzione della povertà energetica, la capacità di favorire la partecipazione dei cittadini), ancora maggiori sono le aspettative da riporre nelle CER del terzo settore. Le CER del terzo settore potrebbero rivelarsi ancora più in grado di rinvigorire il “pilastro” comunitario in quel riequilibro tra i diversi pilastri ritenuto essenziale per il benessere della nostra società (da Raghuram Rajan, nel fortunato volume del 2019, dal quale la terminologia è stata qui presa in prestito, ma ancor prima dall’economista, premio Nobel, Joseph Stiglitz, che in un importante scritto di quindici anni fa invitava ad andare oltre il mercato, verso un sistema economico più bilanciato e plurale, maggiormente popolato da cooperative ed enti non profit).

Infine, appare qui importante sottolineare un dato che emerge dal presente rapporto (e che per la verità ne determina anche il titolo stesso), ovverosia che la connessione tra CER e terzo settore non è solo nel segno della CER del terzo settore, ovverosia della CER che assume la qualifica di terzo settore iscrivendosi al RUNTS (o, nel caso di impresa sociale, nell’apposita sezione del Registro delle imprese). Indipendentemente dalla possibile qualifica di terzo settore della CER, è importante sottolineare l’apporto che gli ETS (e più in generale gli enti non profit e religiosi) possono recare alla costituzione e gestione di CER. La complessità della disciplina e la limitata conoscenza del tema rendono infatti necessario un impulso iniziale alla costituzione delle CER, che può derivare da diverse categorie di soggetti più strutturati, tra cui gli ETS, eventualmente anche in raccordo con gli enti locali in prospettiva di amministrazione condivisa. La società civile organizzata nell’ente del terzo settore può così contribuire allo sviluppo di un ulteriore strumento di sua azione, la CER. L’auspicio è che questo rapporto possa offrire un contributo anche in questa specifica direzione.

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