[di Maria Carla De Cesari, pubblicato in «Il Sole 24 Ore» di domenica 31 marzo 2024]
Business e responsabilità sociale: un binomio che sta diventando sempre più la metrica dei consigli di amministrazione (e della rendicontazione dei bilanci), non solo delle multinazionali Usa. Un binomio che nasce dalla consapevolezza, etica ed economica, che la salute delle imprese, i loro risultati e il coinvolgimento dei dipendenti non possono prescindere dalle condizioni del contesto in cui operano.
In questo quadro nasce e si sviluppa il volontariato di competenza: le imprese non solo favoriscono l’impegno dei dipendenti in iniziative di utilità sociale ma sono esse stesse a promuovere progetti che mettono in campo risorse e compentenze aziendali per rispondere a esigenze educative, per aiutare persone che si trovano in stato di bisogno, per incidere rispetto a situazioni di difficoltà territoriali. In molti casi le imprese si alleano con realtà del terzo settore, con cui mettono in campo azioni condivise.
Per conoscere questo “movimento” Terzjus – l’Osservatorio sul diritto del Terzo settore, guidato da Luigi Bobba – ha avviato una collaborazione con Fondazione Roche ed Eudaimon.
Secondo Terzjus il volontariato di competenza coinvolge il 5% delle aziende con almeno 50 dipendenti, si parla di circa 4mila realtà. Tuttavia, il potenziale è significativo, poiché il 26% delle imprese italiane si dichiara interessato a iniziative socialmente utili.
Far emergere e mettere in comune le iniziative – secondo Bobba – aiuta le aziende a rendere più efficaci i progetti, misurando i risultati in relazione agli obiettivi e monitorando l’impatto delle azioni, all’esterno, ma anche all’interno delle aziende.
«Il volontariato di competenza – si legge nel report di Terzjus – è multiforme; la sua declinazione operativa dipende molto dagli obiettivi che si pongono le imprese quando inaugurano un programma (o mettono in campo un’iniziativa meno strutturata) per indurre i propri lavoratori (esecutivi, quadri, manager) a impegnarsi nel sociale; allo stesso tempo, i dipendenti non sono soggetti passivi; mentre operano da volontari, quindi, contribuiscono a dare un senso specifico all’attività in cui vengono coinvolti. Queste pratiche sociali sono per loro natura plurali, essendo modellate da circostanze e fattori legati a contesti specifici».
La ricerca realizzata da Cristiano Caltabiano – attraverso interviste a volontari che operano in dieci gruppi aziendali di primo piano, attivi in diversi settori dal farmaceutico alle assicurazioni – ha individuato quattro forme di volontariato di competenza.
La prima ha una funzione professionalizzante (o di carriera) ed è rivolta in prevalenza a giovani quadri o esecutivi per i quali si prepara un percorso di crescita attraverso un tirocinio presso Ong di Paesi emergenti o enti che operano in situazioni di precarietà: si tratta di itinerari in cui si devono affinare competenze tecniche e relazionali, agendo sulla capacità di risolvere i problemi.
Il secondo tipo di volontariato ha una valenza educativa indirizzata soprattutto ai bambini o ai ragazzi: si va dal sostegno verso studenti con difficoltà di apprendimento a progetti per il sostegno della didattica innovativa.
In questo senso è significativo, tra gli altri, il progetto di Crédit Agricole che ha impegnato, con un investimento continuativo, 400 colleghi per contrastare la povertà educativa e per favorire l’inclusione sociale coinvolgendo scuole e insegnanti di alcune periferie. Il progetto si è focalizzato sulla creazione di “newsroom” per dare agli studenti la possibilità di esprimersi, dibattere e approfondire temi come se fossero in una redazione giornalistica. I tre attori – volontari, professori e studenti – si “sfidano” in un rapporto dialettico e di arricchimento reciproco come emerge dalle testimonianze di quanti si sono impegnati. Le dotazioni informatiche restano come dote alle scuole.
Sulla stessa scia il progetto di Unicredit: dal 2017 dipendenti ed ex dipendenti del gruppo operano nelle scuole con programmi di educazione civica, per sviluppare negli studenti le doti di imprenditorialità e per sensibilizzare sui temi della sostenibilità.
Capgemini, per esempio, con l’intermediazione di un ente non profit, ha sfruttato le capacità consulenziali per aiutare capifamiglia e donne senza lavoro a maturare capacità digitali di base, con la finalità di spendere questo atout per trovare occupazione. I ritorni sono molto significativi: la metà di quanti hanno partecipato ai corsi ha trovato lavoro nel giro di sei mesi.
Anche Snam ha attivato iniziative con le scuole, focalizzandosi sui territori caratterizzati da forti fragilità, per aiutare nella transizione digitale e per dare supporto rispetto alle povertà diffuse. Snam ha poi avviato collaborazioni strutturate con enti del terzo settore, che possono avvalersi delle competenze specialistiche dei dipendenti-volontari.
Questo programma si inserisce in una forma di volontariato che si esplica nella consulenza ed è spesso rivolta ad enti del terzo settore e non profit. Si agisce su progetti condivisi in base alle esigenze di sviluppo e di riorganizzazione delle realtà: per esempio l’informatizzazione, la comunicazione e la formazione dei volontari.
Per esempio Nestlé è impegnata con Croce Rossa italiana per la formazione dei volontari nell’ambito della comunicazione. Salesforce (multinazionale di cloud computing) ha definito la nuova architettura digitale di Terre des Hommes, strategica per la raccolta fondi e per la trasparenza e la rendicontazione.
Infine, vi è una forma di volontariato di competenza che si attiva in un momento di emergenze. Questa forma – spiega Caltabiano – è esemplificata dall’iniziativa intrapresa da Roche durante il lockdown del 2020, quando c’è stata la mobilitazione di circa 250 dipendenti al servizio di un call center di pubblica utilità, di primo livello che è servito anche per “reindirizzare” le chiamate.
L’impegno dei dipendenti di Roche oggi continua nel volontariato presso una casa che offre ospitalità ai pazienti e ai loro familiari costretti a trasferte per affrontare lunghe cure sanitarie. Per l’azienda farmaceutica questo significa mettere in primo piano non un soggetto indistinto di un cluster, ma la persona. E, per chi fa il volontario, la sottolineatura è quella di vivere un rapporto dove relazioni e competenze costituiscono una ricchezza di ritorno.