- Premessa
La ricerca scientifica, specie in correlazione all’ambito sanitario, è senza dubbio un settore di fondamentale e strategica importanza. Dallo stato di avanguardia della ricerca scientifica, infatti, dipende anche la capacità della Repubblica di garantire in maniera piena ed effettiva la tutela del diritto alla salute dei cittadini.
Come noto, tuttavia, le risorse che lo Stato può investire nella ricerca scientifica sono limitate e non sempre sufficienti a favorirne un adeguato sviluppo.
Nell’ottica di rispondere a questa esigenza, gli enti del Terzo settore che perseguono statutariamente l’obiettivo della promozione della ricerca scientifica già da diversi anni stipulano convenzioni-quadro con università, ospedali e IRCCS pubblici, assumendosi l’impegno di finanziare progetti di ricerca e di erogare borse di studio in favore di giovani studiosi, selezionati attraverso procedure competitive ordinate a criteri meritocratici, trasparenti e indipendenti1.
Viene a costituirsi, dunque, un rapporto trilaterale, in base al quale tali enti del Terzo settore erogano finanziamenti agli enti pubblici convenzionati, affinché questi si impegnino a rendere disponibili per i ricercatori i fondi e l’organizzazione tecnologica e strumentale necessaria al perseguimento degli obiettivi dei progetti approvati.
Il finanziamento di progetti di ricerca e l’erogazione di borse di studio secondo lo schema convenzionale appena descritto offrono la possibilità a molti giovani scienziati di contribuire al progresso della ricerca scientifica, attraverso percorsi formativi che arricchiscono indubbiamente i loro curricula. Tuttavia, poiché i ricercatori sono selezionati da enti del Terzo settore – soggetti, quantomeno formalmente, privati – i vincitori dei bandi, una volta esaurita la durata del progetto di ricerca, non conseguono un titolo idoneo a consentir loro l’accesso ai concorsi universitari o ai concorsi banditi da ospedali o da altri organismi di ricerca pubblici, per i quali è richiesto un grado di qualificazione equiparabile a quello conseguito al termine del progetto, né tantomeno a renderli eventualmente destinatari di chiamata diretta per la copertura dei corrispondenti ruoli.
A causa di questo difetto di “comunicazione” tra l’iter universitario post lauream e la carriera di ricerca scientifica all’interno di ospedali o IRCCS pubblici, da un lato, e i programmi di ricerca banditi dagli enti del Terzo settore, dall’altro, si origina dunque un vulnus nel proseguimento della carriera di molti meritevoli scienziati, con il conseguente rischio di dispersione di un importante potenziale, che invece potrebbe ugualmente concorrere al perseguimento dell’obiettivo di promozione della ricerca scientifica e tecnica che l’art. 9 della Costituzione assegna alla Repubblica2.
Tuttavia, le nuove forme di collaborazione tra enti del Terzo Settore e amministrazione pubblica, alla luce del loro espresso riconoscimento costituzionale operato dal Giudice delle leggi nella sentenza n. 131 del 2020, sembrerebbero consentire agli enti del Terzo Settore che perseguono tale obiettivo di interesse generale, di affinare ulteriormente i propri rapporti di collaborazione con la pubblica amministrazione, favorendo l’apertura di interessanti scenari per l’avvio di soluzioni innovative in grado di valorizzare i ricercatori scientifici nel nostro Paese3.
Il fine che si propone il presente elaborato è quindi quello di indagare l’effettiva sussistenza dei presupposti per un intervento normativo che, superando gli ostacoli prettamente formalistici che impediscono di qualificare gli enti del Terzo settore come soggetti pubblici, attribuisca ai ricercatori che abbiano completato i programmi di ricerca da essi finanziati i requisiti e i titoli necessari per poi poter proseguire la propria carriera e attività di ricerca presso i poli universitari, gli ospedali o gli IRCCS pubblici.
Dopo aver posto in evidenza i principi costituzionali di cui le nuove forme di collaborazione tra enti del Terzo Settore e pubblica amministrazione costituiscono estrinsecazione, si tenterà di prospettare le modalità attraverso le quali la predetta equiparazione di titoli ex lege possa armonizzarsi con i principi dell’ordinamento in materia di concorsi pubblici.
- Le forme di coinvolgimento degli enti del Terzo settore nei rapporti con la pubblica amministrazione
Le disposizioni contenute nel Titolo VII del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 (“Codice del Terzo Settore”), indicando e disciplinando le modalità attraverso le quali gli enti del Terzo settore possono instaurare rapporti di collaborazione con gli enti pubblici, si pongono a fondamento di una « “relazione” giuridica»4 per una specifica categoria di enti – gli enti del Terzo settore per l’appunto – che, in seguito alla riforma, non solo sono definiti in positivo come soggetti che perseguono l’interesse generale ex art. 1 del Codice5, ma sono anche dotati di un espresso riconoscimento costituzionale, come si avrà modo di notare nel seguito della trattazione.
In questa prospettiva, dunque, gli artt. 55, 56 e 57 del Codice costituiscono il punto di incontro e di snodo fra il polo degli interessi pubblici, rappresentato dalle amministrazioni dello Stato e dagli altri enti pubblici, e quello dell’interesse generale, rappresentato dagli enti del Terzo settore6.
Mentre gli artt. 56 e 57 prevedono una specifica regolamentazione basata sul paradigma bipolare tradizionale7, rispettivamente, delle «Convenzioni» con le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale finalizzate allo svolgimento di attività o servizi sociali di interesse generale e dell’affidamento in convenzione alle organizzazioni di volontariato del «Servizio di trasporto sanitario di emergenza e urgenza»8, l’art. 55, rubricato «Coinvolgimento degli enti del Terzo settore»9, si presenta come norma a carattere generale, tesa ad individuare le possibili declinazioni del principio di sussidiarietà orizzontale ex art. 118, ultimo comma, della Costituzione, nell’ambito dei rapporti tra enti del Terzo Settore e pubblica amministrazione, introducendo così interessanti novità in relazione all’interpretazione dell’impianto complessivo del Codice10.
Il principio di sussidiarietà permea un ampio progetto di ripensamento dell’assetto organizzativo dei poteri dell’amministrazione e di inedita riconsiderazione dell’interesse generale, che si rende necessario al fine di ricondurre a sintesi, attraverso nuovi modelli di partecipazione e collaborazione, la molteplicità delle istanze provenienti dall’insieme delle realtà, pubbliche e private, costituenti l’assetto sociale, da intendersi «non più in modo verticistico, ma nella pluralità di forme e contenuti che caratterizzano il tessuto comunitario»11.
In tale contesto, assume rilevanza la previsione dell’art. 55, secondo cui le pubbliche amministrazioni, nell’esercizio delle loro funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi, assicurano agli enti del Terzo Settore «il coinvolgimento attivo»12 in tutti i settori di attività di interesse generale definiti dall’art. 5 del Codice.
È da subito evidente come rispetto agli istituti tradizionali della convenzione e dell’affidamento, in cui gli enti del Terzo settore ricoprono un ruolo più “passivo” di fronte alle iniziative assunte dalla pubblica amministrazione, la formulazione dell’art. 55 muti decisamente la prospettiva, consentendo agli enti del Terzo settore di contribuire attivamente con il proprio bagaglio di esperienze e competenze al conseguimento degli obiettivi di interesse generale.
Come osservato da autorevole dottrina, potrebbe ravvisarsi in capo alla pubblica amministrazione in realtà un vero e proprio obbligo giuridico – in quanto tale esigibile dai destinatari e suscettibile di eventuale tutela in sede giurisdizionale – di mettere in campo tutti gli strumenti idonei a consentire agli enti del Terzo settore «di implicarsi nelle diverse forme di partecipazione attiva»13.
Nella prospettiva codicistica, il coinvolgimento attivo di cui si sta ragionando si sviluppa, nel rispetto dei principi sanciti dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché delle norme che disciplinano specifici procedimenti ed in particolare di quelle relative alla programmazione sociale di zona, attraverso forme di co-programmazione, co-progettazione e accreditamento, previste e disciplinate – seppur in modo sintetico – rispettivamente, al secondo, terzo e quarto comma dell’art. 55.
Al fine di individuare le più rilevanti innovazioni di principio concernenti la dinamica di sviluppo della dialettica tra amministrazioni pubbliche ed enti del Terzo settore, giova porre l’attenzione sulla stretta connessione tra la fase di co-programmazione e di co-progettazione, sia che quest’ultima si declini nella forma prevista in termini generali oppure in quella tipica dell’accreditamento14.
Il legislatore definisce la co-programmazione come il procedimento finalizzato «all’individuazione, da parte della pubblica amministrazione procedente, dei bisogni da soddisfare, degli interventi a tal fine necessari, delle modalità di realizzazione degli stessi e delle risorse disponibili» e la co-progettazione come il procedimento diretto «alla definizione ed eventualmente alla realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni definiti, alla luce degli strumenti di programmazione di cui comma 2» (ovverosia la co-programmazione).
Dalla lettura combinata del comma 2 e del comma 3, emerge chiaramente come la co-programmazione rappresenti un prius, sul piano logico e cronologico, rispetto alla co-progettazione.
In quest’ottica, infatti, la co-programmazione costituisce il momento di individuazione “a monte” di specifici bisogni da soddisfare, mentre la co-progettazione opera “a valle”, consistendo nella definizione delle concrete modalità d’intervento necessarie allo scopo preposto nella fase precedente15.
Per meglio comprendere la portata degli effetti delle disposizioni appena riportate vale la pena osservare che esse presentano significative consonanze con alcune di quelle contenute nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 30 marzo 2001, «Atto di indirizzo e coordinamento sui sistemi di affidamento dei servizi alla persona ai sensi dell’art. 5 della legge 8 novembre 2000, n. 328», adottato ai sensi dell’art. 5, comma 2, della medesima legge16.
In particolare, l’art. 1, comma 2, lett. e) del citato D.P.C.M. mira già a valorizzare il ruolo degli enti del Terzo settore nell’ambito della programmazione del sistema integrato degli interventi e dei servizi sociali, prevedendo la possibilità per le Regioni di adottare specifici indirizzi per «definire adeguati processi di consultazione con i soggetti del terzo settore e con i loro organismi rappresentativi riconosciuti come parte sociale».
Riferimenti alla co-progettazione, invece, si rinvengono alle lett. c) e d) del medesimo art. 1, ove è sancita la possibilità per le Regioni di adottare specifici indirizzi per favorire, rispettivamente, «l’utilizzo di forme di aggiudicazione o negoziali che consentano la piena espressione della capacità progettuale ed organizzativa dei soggetti del terzo settore» e «forme di coprogettazione promosse dalle amministrazioni pubbliche interessate, che coinvolgano attivamente i soggetti del terzo settore per l’individuazione di progetti sperimentali ed innovativi al fine di affrontare specifiche problematiche sociali», ma soprattutto all’art. 7, ove è consentito ai comuni, al fine di affrontare specifiche problematiche sociali, di «indire istruttorie pubbliche per la coprogettazione di interventi innovativi e sperimentali su cui i soggetti del terzo settore esprimono disponibilità a collaborare con il comune per la realizzazione degli obiettivi».
Pur non intendendo trascurare la rilevanza di tali previsioni, è evidente come, in tale quadro normativo, l’art. 55 si presenti quale simbolo di un processo evolutivo notevole, in quanto mira ad estendere questa dinamica relazionale tra sfera pubblica e privata, prima limitata soltanto al settore dei servizi sociali, all’intera gamma delle attività di interesse generale di cui all’art. 5 del Codice ed evoca un coinvolgimento degli enti del Terzo settore «non solo per la materiale erogazione dei servizi e degli interventi, bensì anche nella fase della programmazione e pianificazione degli stessi»17.
L’estensione del coinvolgimento attivo anche nella fase precedente di programmazione rappresenta la pre-condizione essenziale affinché la realizzazione dei progetti e la materiale erogazione dei servizi e degli interventi risultino coerenti con i princìpi enunciati dall’art. 55, comma 118.
Oltre al già citato principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, ultimo comma, della Costituzione, il legislatore, nel prevedere tali forme di coinvolgimento degli enti del Terzo Settore, ha inteso espressamente dare attuazione anche ai principi di cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità, copertura finanziaria e patrimoniale, responsabilità ed unicità dell’amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare.
Questo richiamo, che potrebbe apparire quasi sovrabbondante, si giustifica nell’evidente necessità di individuare un delicato punto di bilanciamento fra diversi interessi e valori costituzionali, nonché principi derivanti dalla normativa euro-unitaria, recepita nel nostro ordinamento ai sensi dell’art. 117, comma 1, della Costituzione19.
Tuttavia, l’ampia enunciazione dei principi suindicati non è stata da subito sufficiente a legittimare gli enti del Terzo Settore come un’autonoma e specifica categoria costituzionale e ad evitare l’emersione di profili problematici.
In particolare, come si avrà modo di evidenziare nel paragrafo successivo, le maggiori difficoltà si sono riscontrate nel coniugare il principio di sussidiarietà orizzontale, che informa l’intero impianto dei rapporti tra enti del Terzo Settore e pubbliche amministrazioni, con l’esigenza – apparentemente contrapposta – di garantire la tutela della concorrenza tra differenti operatori nel mercato.
2.1. L’apparente contrasto con la normativa euro-unitaria in tema di concorrenza: il parere n. 2052 del 2018 del Consiglio di Stato
Nell’ambito del Tavolo tecnico diretto ad approfondire il tema della gestione dei servizi per l’accoglienza degli immigrati all’interno del Piano nazionale anticorruzione del 2018, l’ANAC ha ritenuto opportuno richiedere al Consiglio di Stato un parere al fine di definire gli ambiti di applicazione, rispettivamente, delle disposizioni del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (“Codice dei contratti pubblici”) e della normativa speciale del Codice del Terzo settore, in caso di affidamento di servizi sociali ad enti del Terzo settore.
In particolare, l’Autorità sollevava dubbi in ordine alla compatibilità degli strumenti di amministrazione condivisa di cui agli artt. 55 e 56 del Codice del Terzo settore con i princìpi euro-unitari in materia di concorrenza, così come recepiti dal Codice dei contratti pubblici, nonché con i princìpi in tema di trasparenza derivanti dal decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33.
Al suddetto quesito, con parere del 20 agosto 2018, n. 2052, ha risposto la Commissione consultiva speciale del Consiglio di Stato, prospettando in termini piuttosto netti le criticità del coordinamento tra il Codice del Terzo settore e il Codice dei contratti pubblici.
In estrema sintesi, a giudizio della Commissione, alla luce della nozione funzionale di impresa fatta propria dal diritto euro-unitario, le procedure di affidamento di servizi sociali non devono ritenersi soggette alla regolazione concorrenziale, solamente ove non abbiano carattere selettivo, ovvero non tendano, neppure prospetticamente, all’affidamento di un sevizio sociale, ovvero ancora nei casi in cui il servizio sia sì prospetticamente svolto dall’affidatario del servizio, ma in forma integralmente gratuita20.
Al contrario, qualora non sia ravvisabile nessuna delle predette condizioni, al di fuori delle attività che le direttive europee in materia di contratti pubblici hanno espressamente escluso dal loro ambito, troverebbe applicazione il Codice dei contratti pubblici, con la conseguente necessaria indizione di una gara d’appalto.
Se, da un lato, le conclusioni a cui perviene il Supremo Consesso potrebbero apparire giustificate, dall’altro, ciò che ha destato maggiori perplessità è l’ottica assunta come base del ragionamento giuridico svolto21.
Sul presupposto che il recepimento del diritto euro-unitario sia avvenuto esclusivamente attraverso il Codice dei contratti pubblici, infatti, il Consiglio di Stato interpreta gli artt. 55 e 56 del Codice del Terzo settore, alla luce dei principi che regolano la concorrenza tra i differenti operatori del mercato.
Come anticipato, nell’iter logico-argomentativo su cui è edificato il parere decisiva rilevanza assume la nozione funzionale di impresa di derivazione euro-unitaria, che prescinde dalla veste giuridica e dai caratteri strutturali del soggetto gerente, concentrandosi, viceversa, sulla ricorrenza in concreto degli oggettivi caratteri economici nell’attività posta in essere.
In quest’ottica, ogni iniziativa diretta alla realizzazione di beni, all’esecuzione di lavori o alla prestazione di servizi astrattamente contendibili sul mercato verrebbe a configurarsi come attività di impresa con la conseguente sottoposizione alla disciplina pro-concorrenziale, indipendentemente dalla natura giuridica di ente del Terzo settore.
Ad eccezione dell’accreditamento c.d. libero e delle procedure di co-progettazione e partenariato finalizzate a rapporti puramente gratuiti, le procedure contemplate agli artt. 55 e 56 del Codice del Terzo settore, dunque, configurerebbero appalti di servizi da assoggettare alla disciplina del Codice dei contratti pubblici che, in considerazione della primazia del diritto euro-unitario, prevarrebbe sulle difformi previsioni del Codice del Terzo settore, avendo luogo, in tali ipotesi, il meccanismo della disapplicazione normativa.
Secondo i giudici di Palazzo Spada, tale sarebbe l’unica prospettiva metodologica atta a evitare che le procedure di affidamento della gestione dei servizi limitino selettivamente l’accesso ad alcuni mercati alle imprese profit a indebito vantaggio delle imprese noprofit22.
Come dinnanzi preannunciato, tale «postura giuridica»23 è stata fortemente criticata sia per la ricostruzione del sistema delle fonti che per la conseguente angolazione prospettica, alla luce della quale è stata analizzata la natura degli strumenti di amministrazione condivisa di cui agli artt. 55 e 56 del Codice del Terzo settore.
In particolare, non è apparso convincente l’assunto secondo cui il recepimento del diritto euro-unitario sia avvenuto esclusivamente attraverso il Codice dei contratti pubblici, per questo motivo da ritenersi quale fonte sovra-ordinata rispetto al Codice del Terzo settore.
In proposito, è stato osservato che il diritto euro-unitario non è informato solamente al principio della tutela della concorrenza, bensì anche al principio solidaristico e di sussidiarietà. La stessa direttiva n. 24/2014/UE, richiamata dal Consiglio di Stato nel parere n. 2052 del 2018, non potrebbe essere interpretata come imposizione agli Stati membri di adottare misure pro-concorrenziali in tutti i settori. Una siffatta interpretazione, infatti, se portata alle sue conseguenze più estreme, potrebbe comportare in ultima istanza l’attivazione dei controlimiti, in quanto il diritto euro-unitario perverrebbe a violare il principio solidaristico e il principio di sussidiarietà, che costituiscono espressione dei valori fondanti del nostro ordinamento costituzionale24.
Il Considerando n. 114 della richiamata direttiva, del resto, stabilisce che gli Stati membri sono liberi di prestare servizi alla persona direttamente o di organizzare servizi sociali attraverso modalità che non comportino necessariamente la conclusione di contratti pubblici e tale impostazione è confermata anche dall’art. 1, comma 4, ove è fatta «salva la libertà, per gli Stati membri, di definire, in conformità del diritto dell’Unione, quali essi ritengono essere servizi di interesse generale, in che modo tali servizi debbano essere organizzati e finanziati, in conformità delle regole sugli aiuti di Stato, e a quali obblighi specifici debbano essere soggetti».
Il rapporto intercorrente tra il Codice dei contratti pubblici e il Codice del Terzo settore non verrebbe così più a configurarsi come di sovraordinazione del primo rispetto al secondo, bensì di complementarietà25.
Pertanto, in quest’ottica, laddove la pubblica amministrazione miri all’acquisto di un servizio, secondo la logica della competitività economica, sarebbe tenuta a stipulare un contratto d’appalto con enti privati a scopo di lucro.
Qualora, invece, l’obiettivo sia la promozione dell’integrazione al fine di perseguire l’interesse generale e il bene comune, verrebbero in rilievo gli strumenti della co-programmazione e della co-progettazione con gli enti del Terzo settore, in ossequio al principio sussidiario-collaborativo.
Secondo questa differente prospettiva, dunque, assumerebbe valore non tanto la dimensione oggettiva dell’attività svolta e il suo carattere economico, quanto invece il profilo soggettivo e teleologico, con particolare attenzione a quali sono gli enti che svolgono le attività e al fine che perseguono26.
Come si avrà modo di approfondire nel seguente paragrafo, in tale scenario di incertezza sulla portata effettiva della riforma del 2017 dell’intero Terzo settore, la Corte costituzionale nella sentenza n. 131 del 2020 ha ripristinato una visione armonica del rapporto fra diritto interno e diritto euro-unitario, valorizzando il rilievo costituzionale degli enti del Terzo settore nell’ambito dei rapporti con l’amministrazione pubblica27.
2.2. Il fondamento costituzionale e l’armonizzazione con il diritto euro-unitario: la sentenza n. 131 del 2020 della Corte costituzionale
Aggiornando i fili della giurisprudenza costituzionale in materia, la sentenza 26 giugno 2020, n. 131 della Corte costituzionale segna l’affermazione di un paradigma interpretativo del Codice del Terzo settore, in grado di orientare sia il legislatore, sia l’amministrazione pubblica che gli enti del Terzo settore stessi verso nuovi interessanti scenari di collaborazione28.
Al di là del decisum29 , ciò che in questa sede preme maggiormente sottolineare è l’intento didascalico della pronuncia, reso evidente dall’ampiezza argomentativa che connota la motivazione30.
La Corte costituzionale, infatti, non si è limitata a risolvere la questione giuridica sottopostale, bensì ha colto l’opportunità per ricostruire la ratio della disciplina del Terzo settore, soffermandosi particolarmente sui principi costituzionali su cui si fondano gli strumenti di amministrazione condivisa ex art. 55 del Codice del Terzo settore.
Nella prospettiva del Giudice delle leggi, il citato art. 55 rappresenta «una delle più significative attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale valorizzato dall’art. 118, quarto comma, Cost.»31.
La Corte, dunque, rinviene le radici delle nuove forme di coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore in quelle relazioni di solidarietà che, già prima dell’avvento dei sistemi pubblici di welfare, sono state all’origine di una fitta rete di mutualità che ha contribuito in modo significativo allo sviluppo sociale.
Del resto, come osservato da autorevole dottrina, la sussidiarietà orizzontale costituisce una specificazione del principio solidaristico di cui all’art. 2 della Costituzione, che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo non solo come singolo, ma anche nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità32.
Secondo la Corte, proprio valorizzando l’originaria socialità dell’uomo, il legislatore del Codice del Terzo settore, in ossequio al citato principio della sussidiarietà orizzontale, avrebbe inteso superare la concezione secondo cui solo l’azione del sistema pubblico è intrinsecamente idonea allo svolgimento di attività di interesse generale, ben potendo queste essere perseguite anche da un’autonoma iniziativa di cittadini in forma associata.
In quest’ottica, le forme di collaborazione tra enti del Terzo settore e amministrazione pubblica operano in un ambito di organizzazione delle libertà sociali non riconducibile né allo Stato, né al mercato, costituendo la «gemmazione»33 sul piano normativo di quelle forme di solidarietà che, «in quanto espressive di una relazione di reciprocità, devono essere ricomprese tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente»34.
Seguendo tale iter logico-giuridico, infatti, la Corte costituzionale afferma chiaramente che «[i]l modello configurato dall’art. 55 del Codice del Terzo settore non si basa sulla corresponsione di prezzi e corrispettivi dalla parte pubblica a quella privata, ma sulla convergenza di obiettivi e sull’aggregazione di risorse pubbliche e private per la programmazione e la progettazione, in comune, di servizi e interventi diretti a elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, secondo una sfera relazionale che si colloca al di là del mero scambio utilitaristico»35.
Nel quadro delineato dalla Corte, dunque, tra pubblica amministrazione ed enti del Terzo settore si instaura «un canale di amministrazione condivisa»36 con caratteristiche distinte rispetto a quelle che connotano un contratto d’appalto.
Le forme di coinvolgimento attivo ex art. 55 del Codice del Terzo settore, infatti, danno vita a rapporti di tipo paritario, fondati sulla fiducia, sulla collaborazione e sulla convergenza di obiettivi nel perseguimento dell’interesse generale, diametralmente opposti a quelli che si instaurano tra amministrazione e gli altri soggetti privati, di tipo gerarchico, fondati sulla diffidenza reciproca, sulla competizione e sulla divergenza tra interessi pubblici e privati37.
Se dunque il Consiglio di Stato nell’esaminato parere n. 2052 del 2018 ha assimilato gli enti del Terzo settore agli enti profit sulla base di una concezione “naturalistica” di impresa, nella sentenza n. 131 del 2020 muta radicalmente la prospettiva.
L’estraneità alla logica pro-concorrenziale, infatti, non è ritenuta quale possibile motivo di contrasto con i principi di derivazione euro-unitaria.
Smentendo implicitamente l’impostazione seguita dal Consiglio di Stato38, infatti, la Corte osserva come lo stesso diritto dell’Unione europea mantenga in capo agli Stati membri la possibilità di apprestare, in relazione ad attività di significativa valenza sociale, un modello organizzativo ispirato non al principio di concorrenza, ma a quello di solidarietà.
In proposito, a conferma della notevole portata degli effetti di questa decisione, giova segnalare che l’armonizzazione con il diritto euro-unitario nei termini prospettati dalla Corte costituzionale è stata altresì recepita nel testo vigente del Codice dei contratti pubblici.
La legge di conversione 11 settembre 2020, n. 120 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (c.d. decreto semplificazioni), infatti, ha introdotto alcune modifiche al Codice dei contratti pubblici finalizzate a coordinarne l’applicazione con il Codice del Terzo settore.
In particolare, prevedendo specifici richiami agli artt. 30, comma 8 (principi per l’aggiudicazione e l’esecuzione di appalti e delle concessioni), 59, comma 1 (scelta delle procedure e oggetto del contratto) e 140, comma 1 (norme applicabili ai servizi sociali e ad altri servizi specifici dei settori speciali) del Codice dei contratti pubblici il legislatore ha precisato che restano ferme le forme di coinvolgimento degli enti del Terzo settore di cui al Titolo VII del Codice del Terzo settore, in virtù del principio di specialità.
Il Codice dei contratti pubblici, dunque, contiene oggi quelle norme-ponte con il Codice del Terzo settore, che consentono di escludere i profili di incompatibilità tra i due testi normativi paventati dal Consiglio di Stato nel parere n. 2052 del 201839.
A tal riguardo, infatti, sempre sulla scorta delle argomentazioni del Giudice delle leggi, anche le Linee Guida adottate con decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 31 marzo 2021, n. 72 chiariscono che, laddove siano utilizzabili entrambe le modalità per lo svolgimento di un servizio o la realizzazione di un’attività, le pubbliche amministrazioni hanno la facoltà di scegliere alternativamente fra l’attivazione di un rapporto di collaborazione con gli enti del Terzo settore, valorizzando così il principio di sussidiarietà orizzontale, e l’affidamento di un contratto pubblico, tutelando in tal caso la concorrenza degli operatori economici all’interno di un mercato pubblico regolato40.
La sentenza n. 131 del 2020 della Corte costituzionale, dunque, ha permesso di superare lo scenario di incertezza interpretativa che prima interessava gli istituti di amministrazione condivisa, offrendo gli stimoli per il necessario coordinamento sul piano normativo tra il Codice dei contratti pubblici e il Codice del Terzo settore e per l’adozione di specifiche Linee Guida sul rapporto tra pubbliche amministrazioni ed enti del Terzo settore, che descrivono le singole fasi dei procedimenti di cui agli artt. 55 e seguenti del Codice.
Ciò che tuttavia nel prosieguo della presente disamina premerà particolarmente sottolineare è che la scelta del legislatore del 2017, confortata dall’esaminata sentenza n. 131 del 2020 della Corte costituzionale, di prevedere una cooperazione informata in primis al principio di sussidiarietà orizzontale fin dalla fase di programmazione si giustifica a monte in ragione dei peculiari requisiti soggettivi che connotano gli enti del Terzo settore.
Quest’ultimo aspetto, infatti, appare di decisiva rilevanza al fine di individuare i presupposti per un intervento normativo che riconosca ai vincitori dei bandi di programmi di ricerca scientifica finanziati dagli enti del Terzo settore operanti in tale ambito un titolo idoneo per poter proseguire la propria carriera nelle università, negli ospedali o negli IRCCS pubblici.
- La prospettazione di una nuova formula collaborativa per la promozione della ricerca scientifica e per la tutela del diritto alla salute
Come anticipato in premessa, il principale ostacolo al riconoscimento ex lege di un titolo che consenta ai vincitori dei programmi di ricerca banditi e finanziati da enti del Terzo Settore di accedere ai concorsi per la copertura di ruoli di un corrispondente grado di qualifica e competenza all’interno degli atenei, degli ospedali e degli altri organismi di ricerca pubblici è costituito dal fatto che la selezione è operata da soggetti formalmente privati.
In base ai principi generali dell’ordinamento in materia di concorsi pubblici, infatti, il titolo necessario per partecipare a concorsi di grado superiore dovrebbe essere rilasciato da soggetti pubblici, dopo l’espletamento di procedure di selezione ad evidenza pubblica.
Nello scenario attuale, dunque, una volta esaurita la durata dei programmi di ricerca, qualora gli scienziati selezionati da enti del Terzo settore fossero intenzionati a proseguire la propria attività, ad esempio, all’interno dei poli universitari, sarebbero costretti a partecipare al concorso di dottorato, che costituisce il primo ciclo di approfondimento di studi successivo alla laurea, completamente prescindendo dalla preparazione e conoscenza nel frattempo acquisita.
Tuttavia, a ben vedere, i margini perché non continui ad aver luogo tale consistente rallentamento nella carriera dei vincitori di tali programmi di ricerca potrebbero rinvenirsi proprio in quei «caratteri specifici»41 che, ad avviso del Giudice delle leggi nell’esaminata sentenza n. 131 del 2020, costituiscono la base imprescindibile per l’attuazione delle nuove forme di collaborazione tra enti del Terzo settore e pubblica amministrazione sin qui analizzate.
La Corte costituzionale, infatti, sulla scorta dell’identificazione sul piano normativo degli enti del Terzo settore come un insieme limitato di soggetti giuridici rivolti a perseguire il bene comune senza finalità lucrative, riconosce loro «una specifica attitudine a partecipare insieme ai soggetti pubblici alla realizzazione dell’interesse generale»42.
Ed è proprio in ragione di tale qualificata propensione a svolgere attività di interesse generale che gli enti del Terzo settore sono legittimati a ricoprire un ruolo attivo sin dalla fase di individuazione dei bisogni da soddisfare e degli obiettivi da perseguire.
Non sarebbe allora azzardato affermare che gli enti del Terzo settore siano decisamente più vicini sul piano sostanziale ai soggetti pubblici quando si tratti di svolgere attività di interesse generale.
Sposando una riflessione di autorevole dottrina, gli enti del Terzo settore potrebbero ritenersi quali «soggetti bifronti»: da un lato, cittadini associati che necessitano del sostegno della Repubblica per lo svolgimento di attività di interesse generale, dall’altro lato, ovvero dalla prospettiva dei cittadini, corpo intermedio che, insieme ai soggetti pubblici, costituisce la Repubblica in senso materiale, favorendo le iniziative per il perseguimento del bene comune43.
Orbene, posto che l’art. 9 della Costituzione attribuisce alla Repubblica il compito di promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, una compartecipazione tra gli enti del Terzo settore che perseguono statutariamente quegli obiettivi, da una parte, e le università, gli ospedali e gli IRCCS pubblici, dall’altra, nella fase di selezione dei candidati ai bandi che originano da tale rapporto collaborativo potrebbe costituire una garanzia atta a superare sul piano soggettivo i limiti all’equiparazione di titoli nei termini prospettati.
Ai fini dell’armonizzazione di tale intervento normativo con i principi dell’ordinamento in materia di concorsi pubblici, infatti, assumerebbe decisiva rilevanza il fatto che i vincitori dei bandi verrebbero selezionati, in perfetta coerenza con il dettato dell’art. 9 della Costituzione, da due categorie di soggetti che formano la Repubblica in senso materiale.
Dal punto di vista operativo, gli enti del Terzo settore interessati dovrebbero innanzitutto attivarsi per la definizione di due accordi-quadro distinti, ma di analogo contenuto, con il Ministero dell’Università e della Ricerca e con il Ministero della Salute, a seconda che le amministrazioni pubbliche coinvolte siano, rispettivamente, università e ospedali o IRCCS pubblici.
In particolare, a fronte dell’impegno degli enti del Terzo settore di finanziare i progetti di ricerca e di garantire la partecipazione delle predette amministrazioni nella fase di elaborazione dei criteri di selezione ed eventualmente anche nella definizione dei programmi di ricerca, si potrebbe prospettare nei confronti di ciascuno dei due Ministeri menzionati l’assunzione, tramite l’emanazione di un decreto ad hoc, dell’obbligo di riconoscere in favore dei ricercatori selezionati un titolo idoneo a consentir loro l’accesso ai concorsi banditi dalle istituzioni pubbliche ospitanti o, addirittura, a renderli destinatari di chiamata diretta per la copertura di ruoli di corrispondente competenza, alla stregua di quanto previsto, ad esempio, nel Decreto Ministeriale 28 dicembre 2015, n. 963 per i vincitori di programmi di ricerca di alta qualificazione finanziati dall’Unione europea o dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (dal gennaio 2020 nuovamente diviso in Ministero dell’Istruzione e Ministero dell’Università e della Ricerca44.
Una siffatta risposta sul piano normativo consentirebbe, di conseguenza, agli enti del Terzo settore di attivare a livello locale rapporti di co-programmazione e co-progettazione con le singole università, ospedali e IRCCS pubblici, definendone più nel dettaglio il relativo coinvolgimento in conformità ai parametri indicati nei decreti di cui si auspica l’emanazione45.
In proposito, il fatto che alcuni enti del Terzo settore operanti nell’ambito della ricerca scientifica possano presentarsi come pionieri di tale innovativa forma di collaborazione non costituirebbe una preclusione per altri enti del Terzo settore che intendano perseguire obiettivi della medesima rilevanza costituzionale nel medesimo ambito.
Del resto, come chiarito anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 131 del 2020, gli enti del Terzo settore operano non secondo la logica della competitività, bensì nell’ambito di una dinamica relazionale con la pubblica amministrazione caratterizzata da collaborazione, arricchimento e integrazione reciproca in risposta a bisogni ed esigenze di interesse generale.
In conclusione, come si è avuto modo di argomentare, l’interpretazione dell’art. 55 del Codice del Terzo settore offerta dal Giudice delle leggi apre agli enti del Terzo settore e alle pubbliche amministrazioni che potrebbero essere coinvolte la strada a un nuovo modello di collaborazione in grado di perseguire rilevanti interessi di carattere costituzionale più di quanto non sia possibile mediante la stipula di convenzioni tradizionali.
Non limitare più l’apporto dell’amministrazione pubblica alla mera messa a disposizione dell’organizzazione strumentale, configurandone invece la partecipazione già nella fase di programmazione nel pieno rispetto dei principi in materia di evidenza pubblica, potrebbe, come visto, determinare sul piano normativo un’equiparazione di titoli ex lege fondamentale per la prosecuzione dell’attività di ricerca dei vincitori dei programmi banditi da enti del Terzo settore.
L’obiettivo della promozione della ricerca scientifica non risulterebbe peraltro l’unico ad essere perseguito. Come già anticipato, lo sviluppo della ricerca scientifica è infatti strumentale all’assolvimento anche di un altro dovere della Repubblica, specificamente previsto dall’art. 32 della Costituzione, ovverosia quello di tutelare la salute, che rileva non solo come diritto individuale dei cittadini uti singuli, bensì anche come interesse generale.
Sotto altro profilo, non si può trascurare che il perseguimento di tali interessi costituzionali sarebbe reso possibile dall’impegno degli enti del Terzo settore di finanziare i progetti di ricerca e di erogare le borse di studio. Pertanto, da una siffatta collaborazione anche sul piano economico l’intero sistema trarrebbe un consistente vantaggio in ragione dei valori che si intendono promuovere e tutelare, senza incorrere nel rischio di ledere un importante principio di rilevanza euro-unitaria, come quello della tutela degli equilibri di bilancio, recepito negli artt. 81, 97 e 119 della nostra Carta costituzionale.
Coerentemente al principio di sussidiarietà orizzontale, infatti, le risorse messe in campo dagli enti del Terzo settore nell’ambito di siffatti rapporti di collaborazione rappresenterebbero un valore aggiunto rispetto agli oneri finanziari che l’amministrazione pubblica già di regola sostiene, con l’obiettivo di implementare lo sviluppo della ricerca scientifica in un settore di fondamentale importanza.
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