La legge 29 luglio 2021, n. 108, di conversione del decreto legge 31 maggio 2021, n. 77, recante la «governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure» (cd. decreto semplificazioni-bis e PNRR), è stata l’occasione anche per chiarire alcuni importanti nodi applicativi della Riforma del Terzo settore agli «enti religiosi civilmente riconosciuti»1. Infatti, a seguito delle modifiche operate in sede di conversione, l’articolo 66 del decreto dispone talune integrazioni testuali, tra le altre2, al comma 3 dell’art. 4 del Codice del Terzo settore e al comma 3 dell’art. 1 del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 112, ove si consente l’applicazione agli enti religiosi delle norme sul Terzo settore e sull’impresa sociale «limitatamente» a un ramo o segmento delle loro attività.
1.Le «attività diverse» del ramo
Una prima integrazione concerne lo svolgimento da parte degli enti religiosi delle attività diverse da quelle di interesse generale. Dopo le parole dell’art. 4, comma 3 CTS «Agli enti religiosi civilmente riconosciuti le norme del presente [Codice del Terzo settore] si applicano limitatamente allo svolgimento delle attività di cui all’articolo 5», l’art. 66 del convertito decreto semplificazioni-bis e PNRR inserisce le seguenti: «nonché delle eventuali attività diverse di cui all’art. 6».
Con questa modifica si è inteso esplicitare un principio che, a dire il vero, era facilmente ricavabile per via interpretativa3 e che già il decreto sulle procedure di iscrizione del RUNTS del 15 settembre 2020, n. 106 aveva posto in luce4: quando un ente religioso civilmente riconosciuto costituisce un ramo del Terzo settore, nell’ambito di tale ramo deve svolgere in via esclusiva o principale una o più attività di interesse generale tra quelle previste dall’art. 5 CTS, ma può farvi «eventualmente» afferire anche attività «secondarie e strumentali» di diversa natura. Per fare un esempio concreto, l’istituto religioso che costituisca un ramo del Terzo settore per svolgere principalmente un’attività di tipo socio-sanitario (di cui all’art. 5, comma 1, lett. c] CTS), nell’ambito del medesimo ramo potrà erogare anche un servizio, secondario e strumentale, di trasporto degli utenti della sua attività.
Lo svolgimento delle «attività diverse di cui all’art. 6» nel contesto del ramo è però consentito agli enti religiosi solo quando sia previsto nel regolamento del ramo medesimo5 e, in ogni caso, nel rispetto dei «criteri e limiti» definiti dal recente decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 19 maggio 2021, n. 1076; in tale decreto sono previsti un criterio qualitativo di strumentalità e due limiti quantitativi, tra loro alternativi, utili ad assicurare che l’attività diversa sia effettivamente «secondaria» rispetto a quella di interesse generale (o, meglio, marginale nell’economia operativa complessiva dell’ente7).
Facendo riferimento anzitutto ai limiti quantitativi, i ricavi relativi a un’attività diversa che si colloca nel contesto operativo-contabile di un ramo del Terzo settore di un ente religioso non potranno essere superiori al 30% delle entrate complessive ovvero al 66% dei costi complessivi del ramo medesimo, quali risultano da separate scritture contabili e da uno specifico bilancio redatto a norma dell’art. 13 CTS8.
Per ciò che riguarda, invece, il profilo qualitativo dell’attività diversa, l’art. 2 del citato d.m. n. 107 del 2021 consente di qualificare come «strumentali» tutte le attività diverse «esercitate dall’ente del Terzo settore, per la realizzazione, in via esclusiva, delle finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale perseguite dall’ente medesimo». Non è, dunque, richiesta una particolare connessione tra l’attività diversa e quella di interesse generale (come sembrerebbe esigere invece l’art. 6 CTS), ma la prima viene posta in relazione esclusiva con lo scopo degli enti del Terzo settore: per essere strumentale, insomma, l’attività diversa «non deve essere utile all’attività di interesse generale bensì al perseguimento del fine istituzionale dell’ente»9.
Com’è stato opportunamente osservato in dottrina, tale scelta ministeriale rende «vuoto» il requisito della strumentalità10 lo priva cioè di un’effettiva capacità selettiva; se si considera, infatti, che un ETS è vincolato al perseguimento esclusivo di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale (art. 4, comma 1 CTS) per le quali deve necessariamente impiegare ogni sua risorsa patrimoniale (art. 8, comma 1 CTS), che tali finalità rappresentano per sé stesse un limite ai poteri degli amministratori11, che il rapporto di strumentalità tra attività e finalità può avere anche natura indiretta (la prima può servire a reperire risorse per autofinanziare l’ente)12, se ne deve necessariamente concludere che qualunque genere di attività che l’ETS può legittimamente esercitare in base delle sue caratteristiche tipiche è qualificabile come «strumentale». Nel caso degli enti religiosi civilmente riconosciuti questo vuoto requisito della strumentalità deve però essere considerato in relazione alla peculiare circostanza che essi accedono al Terzo settore in modo oggettivamente limitato e che, dunque, i vincoli derivanti da tale regime speciale trovano applicazione solo a un loro specifico segmento operativo anziché alla loro intera organizzazione. Così, non tutte le attività diverse da quelle di interesse generale che gli enti religiosi possono strumentalmente svolgere per il perseguimento del proprio fine istituzionale religioso-cultuale sono legittimamente collocabili nel contesto del ramo del Terzo settore, ma solo quelle che risultino «strumentali» alla finalità «specifica» dello stesso13, in quanto connesse ad attività di interesse generale o indirettamente utili a sostenerle finanziariamente. Anzitutto, «resteranno estranee all’ambito del Terzo settore e delle attività proprie [del ramo]», le stesse attività di religione o di culto14 che, per loro natura, «non sembrano sussumibili nella categoria delle attività diverse di cui all’articolo 6 [e] che comunque non [soddisferebbero] il richiamato vincolo di strumentalità»15.
Ancora, tra le attività “doppiamente diverse” (diverse, cioè, sia da quelle di religione o di culto che da quelle di interesse generale), potranno ritenersi «strumentali» ex art. 6 CTS solo quelle che apportino un’utilità di qualunque genere, anche meramente economica, alla specifica azione di interesse generale che l’ente religioso svolge mediante il proprio ramo: ad esempio, al ramo costituito da una parrocchia per gestire un’attività di istruzione di cui all’art. 5, comma 1, lett. d) CTS, potranno afferire le attività «diverse» di trasporto o refezione degli alunni o quelle commerciali finalizzate a reperire risorse economiche da destinare all’attività scolastica.
Da ultimo, sempre con riferimento all’integrazione testuale dell’art. 4, comma 3 CTS, che esplicita la possibilità per gli enti religiosi di svolgere attività diverse nell’ambito del proprio ramo, è opportuno evidenziare che l’art. 66 del decreto semplificazioni-bis e PNRR non prevede alcun intervento di analogo contenuto sul testo della “previsione gemella” dell’art. 1, comma 3 del d.lgs. n. 112 del 2017, dedicata al ramo d’impresa sociale dell’ente religioso. Eppure non vi può essere dubbio alcuno sul fatto che anche «l’attività d’impresa di interesse generale» che gli enti religiosi «esercita[no] in via stabile e principale» e che costituisce l’oggetto del loro ramo possa accompagnarsi ad attività secondarie diverse, sempre a condizione che i ricavi della prima «siano superiori al settanta per cento dei ricavi complessivi del ramo di impresa sociale» (art. 2 comma 3, d.lgs. n. 112 del 2017).
2.Ragioni e individuazione del patrimonio destinato
Il secondo ambito di intervento integrativo della legge di conversione del d.l. n. 77 del 2021 riguarda il «patrimonio destinato» che gli enti religiosi civilmente riconosciuti devono costituire quale condizione per dar vita a un ramo del Terzo settore o di impresa sociale. A differenza di quanto avvenuto per le attività diverse, in questo caso le modifiche sono state opportunamente disposte in modo omogeneo su entrambi i fronti, aggiungendo cioè due periodi di identico contenuto all’art. 4, comma 3 CTS e all’art. 1, comma 3 del d.lgs. n. 112 del 2017, così da non generare difformità testuali tra le due norme.
Prima di considerare il merito delle modifiche, vale la pena di accennare alle ragioni che sono alla base della previsione patrimoniale che viene oggi integrata e precisata ad opera del legislatore.
Mentre, infatti, la possibilità di un’applicazione oggettivamente limitata delle norme sul Terzo settore e sull’impresa sociale agli enti religiosi si muove in un solco già tracciato16 e appare solidamente ancorata a una base costituzionale17, l’inedita previsione sul patrimonio destinato è parsa sin da subito (e le recenti modifiche sembrano confermarlo) principalmente motivata da un’esigenza di carattere pratico: quella di perimetrare, in modo certo e preventivo, i beni funzionali all’attività d’impresa che molti enti ecclesiastici svolgono, agevolando così la soluzione di alcune problematiche emerse in dottrina e giurisprudenza con riferimento alla tutela dei creditori, alla certezza e all’uguaglianza dell’imposizione fiscale, alla responsabilità penale-amministrativa e all’assoggettamento alle procedure concorsuali. È evidente però che, a partire da questo condivisibile intento, si è compiuta una scelta normativa che pare essere, nel medesimo tempo, eccessiva e parzialmente inefficace. Eccessiva, perché si è imposta la destinazione patrimoniale anche a quegli enti religiosi che non svolgono un’attività imprenditoriale o comunque di natura commerciale18, dai quali sarebbe stato sufficiente esigere una separazione contabile interna; parzialmente inefficace, perché gli enti religiosi imprenditori che scelgono di non accedere alla qualifica di «impresa sociale» possono continuare ad operare senza che sia richiesto loro di distinguere in modo netto, formale e preventivo, i beni destinati all’attività religioso-cultuale da quelli impiegati nell’attività imprenditoriale.
È pur vero, poi, che sotteso alla previsione del patrimonio destinato al ramo potrebbe anche scorgersi un intento promozionale del legislatore nei confronti dell’impegno degli enti religiosi in settori d’interesse generale, poiché essa offre loro la possibilità di dar vita a iniziative in tali ambiti salvaguardando le risorse patrimoniali necessarie all’attività istituzionale e senza essere costretti a costituire appositi enti strumentali. Ancora una volta, però, si tratta di un’argomentazione che assume valore quasi esclusivamente per il ramo d’impresa sociale, ove l’ente è chiamato a confrontarsi con il rischio imprenditoriale, e che non considera che la salvaguardia dei beni necessari alle attività religioso-cultuali da tale rischio era già stata ritenuta possibile e doverosa dalla giurisprudenza sulla base di principi generali e di sistema19.
Infine, anche raffrontando la posizione degli «enti religiosi civilmente riconosciuti» con quella degli «altri enti di carattere privato» che si qualificano come ETS, o che intendono farlo, sarebbe risultata più appropriata e giustificabile una limitazione dell’obbligo di costituzione di un patrimonio destinato alla sola ipotesi di ramo di impresa sociale o «principalmente» di natura commerciale. Per un verso, infatti, si sarebbe evitato di rendere indiscriminatamente più oneroso l’accesso al regime del Terzo settore degli enti religiosi: si tratta di soggetti già «civilmente riconosciuti» e, dunque, dotati di un patrimonio che risulta da un pubblico registro, cui si impone di vincolare specifiche risorse ad attività che gli altri enti privati possono svolgere senza personalità giuridica e a prescindere da qualsiasi requisito patrimoniale. Per l’altro verso, invece, si sarebbe evitato di creare una disparità sul fronte degli innegabili benefici di tutela patrimoniale derivanti da un atto di destinazione che, come si vedrà, produce un effetto segregativo opponibile ai terzi: sia gli enti religiosi, come obbligo connesso alla previsione del ramo, che gli altri enti del Terzo settore, quale facoltà concessa loro dall’art. 10 CTS, avrebbero potuto godere di tali benefici solo quando «dotati di personalità giuridica ed iscritti nel registro delle imprese».
Con l’art. 66 del decreto semplificazioni-bis e PNRR questo nuovo istituto del patrimonio destinato degli enti religiosi civilmente riconosciuti viene precisato sotto due profili.
Anzitutto, gli artt. 4, comma 3 CTS e 1, comma 3 del d.lgs. n. 112 del 2017 ora prevedono espressamente che «i beni che compongono il patrimonio destinato [al ramo del Terzo settore o di impresa sociale] sono indicati nel regolamento [del medesimo], anche con atto distinto ad esso allegato». Come già per le attività diverse, siamo dinnanzi all’esplicitazione di un aspetto non così innovativo, con funzione più che altro di coordinamento: già l’art. 14 del d.m. n. 106 del 2020 richiede che il regolamento del ramo, da depositarsi in sede di iscrizione al RUNTS, identifichi, tra l’altro, «il patrimonio destinato per lo svolgimento delle attività, che può essere individuato con un atto distinto, da allegare al regolamento» (comma 2, lett. c). Anche con riferimento al ramo d’impresa sociale dell’ente religioso, da tempo il decreto interministeriale del 16 marzo 2018 sulle «Nuove modalità d’iscrizione dell’impresa sociale nel registro imprese» ha previsto che lo stesso depositi in tale Registro «l’atto di costituzione del patrimonio destinato» (art. 2, comma 3).
3.Il patrimonio destinato è patrimonio segregato
Significativamente più rilevante è, invece, l’altra esplicitazione relativa al patrimonio destinato operata dal legislatore mediante l’integrazione degli artt. 4, comma 3 e 1, comma 3 del d.lgs. n. 112 del 2017. Il nuovo testo delle due disposizioni prevede infatti che «[p]er le obbligazioni contratte in relazione alle attività [del ramo del Terzo settore o di impresa sociale], gli enti religiosi civilmente riconosciuti rispondono nei limiti del patrimonio destinato. Gli altri creditori dell’ente religioso civilmente riconosciuto non possono far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo svolgimento delle attività di cui al citato [ramo]».
Si tratta di una precisazione legislativa invocata da molti20 e che si rivela assai utile nel vincere quell’incertezza sugli effetti giuridici della costituzione del patrimonio destinato che rendeva gli enti religiosi particolarmente prudenti nell’aderire allo schema proposto dalla Riforma e nel costituire un ramo del Terzo settore o di impresa sociale per le loro attività di interesse generale.
Sul punto il panorama dottrinale appariva, fino ad oggi, alquanto frastagliato e vedeva la contrapposizione di due orientamenti interpretativi.
Taluni intendevano in senso «forte»21 il laconico riferimento al «patrimonio destinato» contenuto nelle disposizioni che la Riforma ha dedicato agli enti religiosi, riconoscendo cioè all’atto di costituzione del medesimo la capacità di produrre un effetto segregativo opponibile ai terzi di quella porzione del patrimonio che l’ente religioso sceglieva di destinare alle attività del ramo22. Altri, viceversa, leggevano tale riferimento in senso debole o «atecnico», riconoscendogli solo una valenza contabile interna e/o un’utilità «funzionale» all’applicazione limitata degli obblighi di destinazione23 e di devoluzione patrimoniale generalmente imposti agli enti del Terzo settore24: secondo questa linea interpretativa l’atto di destinazione sarebbe stato «privo di effetti sul regime di responsabilità dell’ente, il quale [avrebbe] comunque [dovuto] rispondere con l’intero suo patrimonio delle obbligazioni contratte dal suo ramo di Terzo settore nell’esercizio delle attività di interesse generale»25.
Anche il quadro teorico nel quale si collocavano le due posizioni appariva piuttosto eterogeneo. Si era, ad esempio, ricondotto il «patrimonio destinato» di cui all’art. 4, comma 3 CTS e 1, comma 3 del d.lgs. n. 112 del 2027 alla figura dei patrimoni destinati dalle società per azioni a specifici affari, disciplinata dagli artt. 2447-bis e seg. c.c. ed estesa dall’art. 10 CTS agli «enti del Terzo settore dotati di personalità giuridica e iscritti nel registro delle imprese»; o, comunque, si era invocata la possibilità di un’applicazione analogica delle norme dettate per tali patrimoni societari26, pur non nascondendo la difficoltà di una simile operazione27.
Altri commentatori della Riforma, ponendo evidentemente l’accento sulla strumentalità della destinazione patrimoniale rispetto al corretto adempimento dell’onere devolutivo previsto dall’art. 9 CTS (ma non dal decreto sull’impresa sociale28), rinvenivano un’analogia tra il patrimonio destinato dagli enti religiosi al proprio ramo e l’ipotesi di «beni con destinazione particolare» di cui di cui all’art. 32 c.c., trattandosi in entrambi i casi di masse patrimoniali con destinazione a scopo diverso da quello proprio dell’ente29.
Al fine di realizzare una segregazione effettiva e forte del patrimonio destinato, si era anche prospettata la possibilità di ricorrere a un negozio di destinazione trascritto ex art. 2645-ter c.c.30 o, «preferibilmente», a un trust di scopo31.
Vi era poi chi, leggendo le norme del Codice del Terzo settore in una prospettiva ecclesiasticistica, giudicava l’incertezza interpretativa sul punto un «falso problema», in quanto una segregazione dei beni che gli enti religiosi impiegano nelle loro attività istituzionali rispetto al patrimonio destinato alle attività diverse (incluse quelle di un eventuale ramo) è «già in qualche modo prevista dall’ordinamento». Infatti – sempre secondo tale lettura che si ricollegava a un preciso precedente giurisprudenziale32 – – quanto è necessario all’ente religioso per l’esercizio delle attività istituzionali è garantito da ogni possibile aggressione da parte dei creditori in forza dei principi costituzionali «della distinzione degli ordini (art. 7, comma 1, Cost.)» e «dell’autonomia istituzionale delle confessioni religiose (art. 8, comma 2 Cost.)»33.
Infine, taluni interpreti ritenevano che le norme sulla costituzione dei patrimoni destinati al ramo del Terzo settore o di impresa sociale da parte degli enti religiosi «avessero introdotto una nuova e specifica ipotesi di separazione patrimoniale»34, che «s’inseri[va] coerentemente nel panorama normativo dei vincoli patrimoniali già previsti dal nostro ordinamento» in ragione della meritevolezza dello scopo sociale che con essi si perseguiva35 e, insieme, della necessità di salvaguardare i mezzi patrimoniali destinati al culto e alle altre attività religiose36.
Oggi, a seguito dell’integrazione al testo degli artt. 4, comma 3 CTS e 1, comma 3 del d.lgs. n. 112 del 2017 disposta dalla legge di conversione del decreto semplificazioni-bis e PNRR, quest’ultima linea interpretativa pare senza dubbio prevalere.
Viene infatti esplicitato che la previsione della destinazione patrimoniale contenuta in tali disposizioni deve essere intesa in senso tecnico, poiché integra un’ipotesi di deroga legale al principio dell’universalità della responsabilità patrimoniale e di conseguente limitazione della responsabilità del debitore ai sensi dell’art. 2740, comma 2 c.c. D’altro canto, il dato testuale dell’assenza di qualsiasi rinvio ad altre disposizioni anche a seguito della modifica, conferma implicitamente che tale ipotesi di destinazione non è riconducibile a figure già esistenti nel nostro ordinamento, come potrebbe essere quella dei patrimoni destinati a uno specifico affare di cui agli artt. 2447-bis e seg. c.c., ma si presenta come del tutto nuova e peculiare. Coerentemente a un simile inquadramento, con la destinazione si produce nel patrimonio degli enti religiosi un effetto segregativo bilaterale o bidirezionale, ed essi risponderanno per le obbligazioni contratte in relazione alle attività del ramo del Terzo settore o di impresa sociale nei limiti del patrimonio a esso destinato; d’altra parte, i creditori generali dell’ente religioso non potranno far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo svolgimento delle attività del ramo. In caso, poi, di insolvenza dell’ente religioso con riferimento all’attività del ramo d’impresa sociale (o del ramo del terzo settore qualificato come commerciale ai sensi dell’art. 79, comma 537) il perimetro dei beni soggetti a liquidazione coatta amministrativa a norma dell’art. 14 del d.lgs. n 112 del 2017 sarà tracciato dall’atto di costituzione del patrimonio destinato.
4.La costituzione del patrimonio destinato
In sede di costituzione del ramo da parte dell’ente religioso, sarà dunque necessario provvedere all’individuazione formale, chiara e univoca dei beni e dei rapporti giuridici ricompresi nel patrimonio destinato, i quali dovranno risultare dal regolamento del ramo medesimo, adottato nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, o in atto distinto a esso allegato38. Al deposito nel RUNTS, o nel caso del ramo di impresa sociale nel Registro delle imprese39, del regolamento e del suo eventuale allegato è condizionato il prodursi dell’effetto segregativo sul patrimonio destinato. A tal proposito, è bene evidenziare che il deposito assolve a una funzione di pubblicità tanto nei confronti dei futuri creditori delle attività del ramo quanto di quelli dell’ente religioso anteriori alla destinazione: a questi ultimi, infatti, potrebbe riconoscersi, mediante un’applicazione analogica della previsione contenuta nell’art. 2447-quater, un diritto ad opporsi alla diminuzione della garanzia patrimoniale conseguente alla destinazione di una porzione del patrimonio al ramo, quale ulteriore strumento di tutela delle proprie ragioni accanto a quelli revocatori generalmente previsti dall’ordinamento40.
La valida costituzione di un patrimonio destinato da parte di un ente religioso sarà ovviamente subordinata al rispetto di eventuali regole interne di fonte statutaria41 in tema di poteri degli organi e di formazione della volontà dell’ente (potrà essere necessaria, ad esempio, una deliberazione dell’organo amministrativo collegiale); dovranno però essere rispettate anche le «condizioni di validità o di efficacia degli atti giuridici prescritte per gli enti religiosi civilmente riconosciuti dai relativi ordinamenti confessionali, ove tali condizioni abbiano rilevanza ai sensi di legge»42.
Nel caso degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti della Chiesa cattolica, in particolare, occorrerà rispettare i controlli canonici che «risultino dal Codice di diritto canonico», i quali sono opponibili ai terzi a norma dell’art. 18 della l. 20 maggio 1985, n. 22243.
Sotto il profilo della composizione del patrimonio, possono certamente essere oggetto di destinazione al ramo beni immobili e mobili, materiali e immateriali, di proprietà dell’ente religioso ma anche beni su cui lo stesso vanta un mero diritto di utilizzazione o di godimento (ad es. un macchinario in leasing), rapporti contrattuali, crediti, denaro, strumenti finanziari, etc. Per ciò che riguarda in particolare gli immobili in cui l’ente religioso svolge l’attività di Terzo settore o di impresa sociale (ad es. l’immobile dell’istituto religioso destinato al proprio ramo di attività scolastica), non sembra indispensabile che tali immobili vengano inclusi nel patrimonio destinato al ramo, potendo essere messi disposizione della specifica attività di interesse generale che in essi si svolge anche in assenza di un vincolo formale44. In ogni caso, qualora l’ente religioso ritenesse di ricomprendere nel patrimonio destinato beni immobili o mobili registrati, il vincolo determinato dall’atto di destinazione dovrà essere inscritto nei pubblici registri a pena di inopponibilità del medesimo ai terzi45.
Quanto, invece, ai beni mobili non registrati (mobilio, attrezzature, etc.), essi dovranno essere inequivocabilmente indentificati in sede di costituzione del patrimonio, ad esempio mediante la redazione di uno specifico inventario da allegare al regolamento e da depositare presso il RUNTS (o presso il Registro delle imprese, nel caso di un ramo di impresa sociale), così da attribuire una data certa alla formazione del vincolo. Infine, il denaro e gli strumenti finanziari destinati dall’ente religioso al proprio ramo potranno essere individuati grazie al deposito su conti dedicati, i cui estremi risultino nel regolamento o nell’atto a questo allegato.
5.Le incertezze permangono
La netta indicazione che proviene dal legislatore circa la natura e gli effetti della destinazione patrimoniale da parte degli enti religiosi civilmente riconosciuti che intendano costituire un ramo del Terzo settore o di impresa sociale, lascia comunque aperti taluni significativi fronti problematici nell’applicazione di questa figura segregativa. Il più rilevante è senza dubbio quello della consistenza del patrimonio destinato. Sebbene, infatti, non sia stato previsto un «minimo» patrimoniale per la costituzione del ramo da parte dell’ente religioso, sembra difficile negare che tale patrimonio debba risultare quantomeno «congruo» o proporzionalmente «adeguato» allo svolgimento dell’attività di interesse generale e che tale congruità o adeguatezza possa essere oggetto di verifica da parte dell’«Ufficio del RUNTS» in sede di iscrizione al Registro46. La disciplina dei patrimoni destinati a uno specifico affare dalle società per azioni, che prevede la congruità quale presupposto di validità dell’atto di destinazione47, offre un chiaro modello in tal senso; più in generale, appare sistematicamente coerente, anche con specifico riferimento alla disciplina degli enti non lucrativi48, che la concessione agli enti religiosi del beneficio della limitazione patrimoniale conseguente alla destinazione venga subordinata a un giudizio di adeguatezza delle risorse rispetto al programma operativo di interesse generale che essi intendono perseguire e, insieme, alla sussistenza di una garanzia, quantomeno minima, nei confronti dei creditori.
Ciò detto, risulterebbe tuttavia contrario al dato testuale del d.m. n. 106 del 202049, ingiustificato e eccessivamente oneroso per non pochi enti religiosi che l’Ufficio del RUNTS assumesse a riferimento per il giudizio di adeguatezza della loro destinazione i valori di patrimonio minimo indicati all’art. 22, comma 4 CTS ai fini dell’ottenimento della personalità giuridica50.
É fin troppo evidente, tra l’altro, che l’adozione di simili valori rischierebbe di vanificare la stessa efficacia della facoltà di accesso parziale al regime del Terzo settore concessa agli enti religiosi, rendendo assai più conveniente per essi svolgere le proprie attività di interesse generale mediante la costituzione di autonomi ETS strumentali. Sempre con riferimento all’aspetto della congruità patrimoniale, occorrerà poi comprendere gli effetti sul ramo e sulla limitazione della responsabilità di un’eventuale sopravvenuta riduzione del patrimonio destinato, tale da renderlo inadeguato allo svolgimento dell’attività di interesse generale o addirittura da azzerarlo. Su questo fronte si può per ora osservare che, per un verso, l’art. 15, comma 2 del d.m. n. 106 del 2020 porta a escludere l’applicazione agli enti religiosi dell’obbligo di ricostituzione del patrimonio di cui all’art. 22, comma 5 del CTS51; dall’altro, che l’art. 20, comma 1 del medesimo decreto esige il deposito nel RUNTS degli «eventuali provvedimenti da cui derivano modificazioni o il venir meno del patrimonio destinato».
Un ulteriore profilo di incertezza che merita di essere almeno richiamato per la sua rilevanza, riguarda il rapporto tra la previsione della limitazione della responsabilità patrimoniale del ramo dell’ente religioso e le obbligazioni derivanti da fatto illecito. Occorre infatti considerare che l’art. 2447-quinquies c.c., che esplicita una limitazione della responsabilità delle società «per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare» analoga a quella introdotta nelle norme sul Terzo settore per gli enti religiosi, fa salva la responsabilità illimitata delle medesime società «per le obbligazioni derivanti da fatto illecito». La mancata riproposizione di tale clausola d’eccezione negli artt. 4, comma 3 CTS e 1, comma 3 del d.lgs. n. 112 del 2017, fa sorgere il dubbio sulla possibilità o meno del danneggiato di agire nei confronti dall’ente religioso senza subire la limitazione derivante dalla destinazione di parte del suo patrimonio a un’attività di interesse generale. Nel senso dell’inoperatività dell’effetto segregativo in caso di obbligazioni derivanti da fatto illecito sembrerebbe porsi anzitutto la lettera dell’integrazione operata con l’art. 66 del decreto semplificazioni-bis e PNRR: questa «legge», infatti, deroga alla regola generale del primo comma dell’art. 2740 c.c. e introduce il beneficio della limitazione della responsabilità per il solo «cas[o]» delle obbligazioni «contratte» in relazione al ramo e, dunque, nascenti da una volontaria concessione di credito. Al di là del testo, poi, una piena tutela dei cd. creditori involontari degli enti religiosi appare opportuna e coerente quando si consideri che la stessa previsione di un’opponibilità derivante dalla segregazione patrimoniale si regge sulla possibilità di conoscere, attraverso il sistema pubblicitario del RUNTS o del Registro delle imprese, la consistenza del patrimonio destinato al ramo e, dunque, di valutare a priori l’idoneità della garanzia per l’adempimento52.
A questa posizione interpretativa si potrebbe tuttavia obiettare, rimanendo su un piano testuale, che l’argomento del ricorso all’espressione «obbligazioni contratte» può apparire non così probante53 e che se il legislatore avesse voluto prevedere una particolare eccezione nel contesto della disciplina di questa nuova figura di destinazione patrimoniale l’avrebbe esplicitata, come accaduto per quella prevista dagli artt. 2447-bis e seg. c.c. Inoltre, guardando alle regole elaborate da dottrina e giurisprudenza (almeno maggioritarie) con riferimento ad altre ipotesi di destinazione che pongono analoghi problemi di esegesi del silenzio, come quelle del fondo patrimoniale (art. 170 c.c.) e del vincolo di destinazione di cui all’art. 2645-ter c.c.54, anche il danneggiato dall’ente religioso dovrebbe subire gli effetti della limitazione di cui agli artt. 4, comma 3 CTS e 1, comma 3 del d.lgs. n. 112 del 2017. Allineandosi a tali regole occorrerebbe, infatti, adottare un approccio «di tipo sostanziale», per cui il patrimonio destinato sarebbe chiamato a rispondere ogniqualvolta, e solo quando, il rapporto obbligatorio [exdelicto] inerisce oggettivamente, in modo diretto e immediato, con la destinazione»55 e, dunque, con lo svolgimento delle attività del ramo.
Quelli fin qui illustrati sono solo alcuni, forse i più evidenti, profili di incertezza di una previsione significativamente innovativa che, nonostante i recenti apprezzabili sforzi chiarificatori del legislatore, potrà conoscere una piena definizione solo a seguito di una matura esperienza applicativa.