1. Enti ecclesiastici e riforma del Terzo settore;
2. Le condizioni per l’applicazione del regime del Terzo settore agli enti ecclesiastici;
3. Il regolamento;
3.1. Il problema del contenuto del regolamento;
3.2. Le indicazioni della disciplina secondaria;
4. La tenuta di scritture contabili separate;
6. L’ente di Terzo settore controllato dall’ente ecclesiastico.
Enti ecclesiastici e riforma del Terzo settore
In virtù delle loro caratteristiche istituzionali, gli enti ecclesiastici svolgono tradizionalmente numerose attività di interesse generale regolate dalla riforma del Terzo settore1.
In conformità alla terminologia del d. lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (c.d. codice del Terzo settore: d’ora in poi, “CTS”) e del d. lgs. 3 luglio 2017, n. 112 (c.d. decreto sull’impresa sociale: d’ora in poi, “DIS”), si possono ricordare, più in particolare, attività che hanno per oggetto: «interventi e prestazioni sanitarie» (art. 5, co. 1, lett. b, CTS; art. 2, co. 1, lett. b, DIS); «interventi e servizi sociali», compresa l’«accoglienza umanitaria» e l’«integrazione sociale dei migranti» (art. 5, co. 1, lett. a e r, CTS; art. 2, co. 1, lett. a e r, DIS); «educazione, istruzione e formazione professionale», nonché «formazione extra-scolastica finalizzata alla prevenzione della dispersione scolastica» (art. 5, co. 1, lett. d e l, CTS; art. 2, co. 1, lett. d e l, DIS); «organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale» (art. 5, co. 1, lett. i, CTS; art. 2, co. 1, lett. i, DIS); «organizzazione di attività turistiche di interesse sociale, culturale o religioso» (art. 5, co. 1, lett. k, CTS; art. 2, co. 1, lett. k, DIS). La specificità degli enti ecclesiastici (= in particolare: la contemporanea presenza del fine di religione e di culto) e il contenuto degli accordi intervenuti con lo Stato si oppongono, tuttavia, a una applicazione tout court del CTS e del DIS. Il problema è particolarmente chiaro con riguardo agli enti della Chiesa cattolica, a cui la trattazione seguente è dedicata nello specifico. Da un lato, infatti, gli enti ecclesiastici appartengono a un ordinamento diverso da quello dello Stato (= l’ordinamento della Chiesa cattolica), che la Costituzione riconosce come indipendente e sovrano (art. 7, co. 1, Cost.); come tali, pertanto, sono originariamente esclusi dalla soggezione al potere dello Stato, che può disciplinarne l’attività solo in presenza di uno specifico accordo con la Chiesa cattolica. Per altro verso, le norme concordatarie, che assoggettano le attività degli enti ecclesiastici diverse da quelle di religione e di culto alle leggi dello Stato, subordinano l’applicabilità delle norme italiane al «rispetto della struttura e delle finalità di tali enti» (art. 7, co. 3, Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana del 18 febbraio 1984; d’ora in poi, “Accordo”; art. 15, l. 20 maggio 1985, n. 222: d’ora in poi, “l. 222/85”)2. Di qui la necessità di contemperare le previsioni del diritto comune con le specificità dell’ente ecclesiastico, in particolare con riguardo al sistema di governance e al regime dei beni.
Le condizioni per l’applicazione del regime del Terzo settore agli enti ecclesiastici
Al fine di preservare le caratteristiche proprie dell’ente ecclesiastico, salvaguardando, nel contempo, la necessaria parità di trattamento tra enti del Terzo settore, la riforma ripropone, con alcune rilevanti modifiche, il modello adottato dalla disciplina sulle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (art. 10, co. 9, d. lgs. 4 dicembre 1997, n. 460)3.
e dal previgente regime dell’impresa sociale (art. 1, co. 3, d. lgs. 24 marzo 2006, n. 155). Nel caso di svolgimento di attività di interesse generale previste dal CTS e dal DIS, in particolare, gli enti ecclesiastici, in quanto «enti religiosi civilmente riconosciuti»4, possono beneficiare del regime promozionale previsto dal CTS per ETS e imprese sociali, nel ricorrere di tre condizioni: (1) l’adozione di un regolamento che, «nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, recepisca le norme» del CTS e del DIS; (2) la costituzione di un «patrimonio destinato» per lo svolgimento dell’attività di interesse generale; e (3) la tenuta di scritture contabili separate (art. 4, co. 3, CTS; art. 1, co. 3, DIS). Con una terminologia non del tutto propria, si parla comunemente5 di “ramo” Terzo settore (o impresa sociale) dell’ente ecclesiastico.
Il regolamento
Comparabile con lo statuto6, il regolamento è diretto a consentire, mediante un atto di autonomia privata, la equiparazione funzionale tra un ente ecclesiastico che svolga attività di interesse generale e un ente del Terzo settore (d’ora in poi, “ETS”). Oltre a fissare, al pari dello statuto, gli elementi essenziali dell’assetto organizzativo dell’ente, il ricorso al regolamento consente di recepire per via negoziale la disciplina di CTS e DIS, che, per le ragioni poc’anzi accennate sarebbe, di contro, problematico applicare immediatamente all’ente ecclesiastico7.
Il CTS e il DIS disciplinano i requisiti di forma e di pubblicità del regolamento, nonché il criterio generale per il recepimento delle norme previste per ETS e impresa sociale. Più nel dettaglio, il regolamento: deve essere adottato «in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata»8; va «depositato» nel Registro unico nazionale del Terzo settore» o, per le imprese sociali, nel registro delle imprese; e, infine, in conformità alle disposizioni pattizie, deve recepire le norme del CTS e del DIS «nel rispetto della struttura e delle finalità» degli enti ecclesiastici (art. 4, co. 3, CTS; art. 1, co. 3, DIS).
Il problema del contenuto del regolamento
Per la genericità del dettato normativo e, nel contempo, per le implicazioni costituzionali delle possibili soluzioni interpretative, l’individuazione delle disposizioni da recepire nel regolamento risulta particolarmente delicata.
Con riguardo alle imprese sociali, il problema è risolto in larga parte dall’esplicita esclusione operata dal DIS in ordine all’applicabilità di alcune previsioni all’evidenza poco compatibili con la natura ecclesiastica degli enti. In particolare, l’ente ecclesiastico che svolga attività di interesse generale come impresa sociale: non è tenuto a introdurre nella propria denominazione l’indicazione «impresa sociale» (art. 6, co. 2, DIS); non deve prevedere la partecipazione dei lavoratori e degli utenti alla governance (art. 11, co. 5, DIS); in caso di scioglimento volontario o di perdita volontaria della qualifica di impresa sociale non è tenuto a devolvere il patrimonio ad altri ETS o al Fondo per la promozione e lo sviluppo delle imprese sociali (art. 12, co. 5, DIS); e, infine, non è soggetto a liquidazione coatta amministrativa (art. 14, co. 6, DIS).
La definizione del contenuto del regolamento appare, di contro, meno immediata con riguardo alla disciplina del CTS. Da un lato, infatti, molte norme del CTS riguardano fattispecie non riscontrabili nell’ordinamento canonico, come le organizzazioni di volontariato (artt. 32-34 CTS), le associazioni di promozione sociale (artt. 35 e 36 CTS) e gli enti filantropici (artt. 37-39 CTS). Per altro verso, il regime previsto per alcune fattispecie comparabili – in particolare: associazioni e fondazioni – risulta poco compatibile con la struttura canonica e la governance degli enti ecclesiastici, soprattutto con riguardo alla disciplina su ordinamento e amministrazione (artt. 23-31 CTS). La questione è, peraltro, avvertita dallo stesso legislatore, che prevede l’esplicita esclusione del diritto di informazione del singolo associato in ordine al contenuto dei libri sociali (art. 15, co. 4, CTS) e del potere di denuncia all’organo di controllo o al tribunale con riguardo a fatti censurabili e irregolarità di gestione (art. 29, co. 3, CTS).
Le indicazioni della disciplina secondaria
Il problema è oggi in larga parte risolto dalla recente disciplina secondaria contenuta nel D.M. 15 settembre 2020, n. 106 (d’ora in poi, “D.M. 106/20”), che, nello stabilire le procedure di iscrizione nel Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (d’ora in poi, “RUNTS”), specifica il contenuto del regolamento ai fini dell’iscrizione degli enti ecclesiastici nel RUNTS.
Un primo gruppo di previsione allinea il contenuto del regolamento ai profili essenziali della disciplina legale sugli ETS; in particolare, trovano disciplina: (1) l’individuazione delle attività di interesse generale; (2) il divieto di distribuire utili; (3) le scritture contabili e i libri obbligatori; (4) la devoluzione dell’incremento patrimoniale realizzato negli esercizi in cui l’ente è stato iscritto al RUNTS (art. 14, co. 2, lett. a, b, d ed e, D.M. 106/20). Un altro gruppo di norme si concentra, invece, sulla specificità degli enti ecclesiastici. Così, è richiesta l’indicazione dei poteri di gestione e rappresentanza relativi alle attività di interesse generale, con menzione delle eventuali limitazioni e dei controlli interni previsti dall’ordinamento confessionale di appartenenza (art. 14, co. 2, lett g, D.M. 106/20), che divengono, in tal modo, opponibili ai terzi, in conformità alla disciplina di derivazione concordataria (art. 18, l. 20 maggio 1985, n. 222)9. Nella stessa logica, il regolamento è chiamato a indicare le condizioni di validità ed efficacia degli atti giuridici prescritte dai relativi ordinamenti confessionali, nella misura in cui tali condizioni abbiano rilevanza di legge (art. 14, co. 2, lett h, D.M. 106/20). Non manca, infine, come conseguenza, la necessità che alla domanda di iscrizione al RUNTS sia allegata l’autorizzazione della competente autorità religiosa o la dichiarazione della medesima che tale autorizzazione non è necessaria (art. 14, co. 3, D.M. 106/20), così da assicurare il pieno allineamento tra i controlli dell’ordinamento canonico10 e gli effetti dello svolgimento nell’ordinamento civile delle attività di interesse generale.
La tenuta di scritture contabili separate
Già previsto nel regime previgente, l’obbligo di tenuta di scritture contabili separate non presenta particolari problematicità.
La separazione nella tenuta delle scritture contabili assolve a una pluralità di funzioni. Sotto un primo profilo, consente di evitare commistioni tra la gestione dell’attività istituzionale e la gestione dell’attività di interesse generale svolta dall’ente ecclesiastico; in secondo luogo, permette ai creditori una puntuale conoscenza della situazione patrimoniale e reddituale dell’ente ecclesiastico con riguardo all’attività di interesse generale svolta; da ultimo, rende possibile l’applicazione di alcune norme specifiche del CTS e del DIS, soprattutto con riguardo alla disciplina, appena discussa, sulla devoluzione del patrimonio11.
Ancora una volta, il D.M. 106/20 adatta la previsione alla specificità degli enti ecclesiastici. Così, il regolamento deve prevedere e disciplinare: (1) la redazione del bilancio di esercizio e, se del caso, del bilancio sociale; (2) la tenuta dei libri sociali obbligatori in conformità alla struttura dell’ente. Esclusa è, di contro, la pubblicità degli emolumenti e compensi corrisposti agli organi di amministrazione e controllo prevista dall’art. 14, co. 2, CTS.
Il patrimonio destinato
La laconica menzione di un «patrimonio destinato» per lo svolgimento dell’attività lascia aperto il problema di identificare con maggiore precisione la relativa fattispecie. In conformità al modello regolato dalla disciplina della società per azioni (art. 2447-bis ss. c.c.), alcuni autori hanno interpretato il riferimento al patrimonio destinato nel senso “forte” di una separazione patrimoniale: per le obbligazioni contratte nello svolgimento dell’attività di interesse generale l’ente ecclesiastico risponderebbe nei soli limiti del patrimonio destinato, che non sarebbe, nel contempo, aggredibile dagli altri creditori dell’ente ecclesiastico12.Tale lettura si espone, tuttavia, alla tradizionale obiezione per la quale le ipotesi di separazione patrimoniale hanno carattere tassativo in virtù dell’espressa previsione dell’art. 2740 co. 2, c.c.13. In assenza di una puntuale disposizione di legge in tal senso, non è, pertanto, possibile prospettare una separazione patrimoniale14, parimenti dovendosi escludere l’applicazione analogica di norme dettate per casi simili – per esempio, dell’art. 2447-quinquies, co. 1, c.c., in materia di società per azioni – in ragione del carattere eccezionale delle relative disposizioni.
Preferibile risulta, a questa stregua, interpretare il riferimento al patrimonio destinato in senso atecnico, attribuendo alla sua costituzione la sola funzione di consentire l’applicazione della previsione secondo cui, nel caso di estinzione o scioglimento dell’ETS, il «patrimonio residuo» va devoluto ad altri ETS o «alla Fondazione Italia Sociale» (art. 9 CTS). Ricordato che la regola generale sull’utilizzo del patrimonio per l’esclusivo perseguimento di finalità di utilità sociale impone di “lasciare nel circuito” del Terzo settore tutti gli incrementi patrimoniali conseguiti con lo svolgimento dell’attività di interesse generale15, il patrimonio destinato costituisce, in questa prospettiva, semplicemente il termine di riferimento per determinare gli eventuali incrementi patrimoniali derivanti dall’attività di interesse generale svolta dall’ente ecclesiastico. Una funzione contabile a valenza “interna”, quindi, comparabile con quella propria del capitale sociale16.
La conclusione comporta per gli enti ecclesiastici un costo rilevante. Il modello disegnato da CTS e DIS è funzionale a consentire che le regole su gestione e controllo previste dal diritto canonico possano rilevare quando l’ente ecclesiastico svolge attività di interesse generale nell’ordinamento civile. L’impossibilità di identificare nel patrimonio destinato un’ipotesi di separazione patrimoniale in senso tecnico comporta, tuttavia, la possibilità che l’insolvenza del “ramo” si riverberi sull’intero patrimonio dell’ente ecclesiastico, così da rendere potenzialmente troppo rischiosa l’adesione al sistema del Terzo settore. Si comprende, pertanto, il diffuso consenso a un intervento normativo che configuri, in modo specifico, il patrimonio destinato come patrimonio separato, ora che una forma di pubblicità a favore dei terzi è assicurata dalla previsione per la quale il regolamento necessario per l’iscrizione al RUNTS deve «individuare il patrimonio destinato allo svolgimento dell’attività» di interesse generale» (art. 14, co 2, lett. c, D.M. 106/20).
L’ente di Terzo settore controllato dall’ente ecclesiastico
Nella prospettiva di isolare il patrimonio dell’ente ecclesiastico dal rischio di insolvenza relativo allo svolgimento di attività di interesse generale, una soluzione alternativa al “ramo” configura l’ente ecclesiastico come “capogruppo” di ETS e imprese sociali giuridicamente distinte, ma soggette al suo controllo grazie alla nomina dei relativi amministratori17. Secondo la logica propria dei gruppi, tale soluzione offre un duplice vantaggio: permette di utilizzare la forma giuridica ottimale per le singole attività di interesse generale, soprattutto con riguardo all’amministrazione e alla governance; e, per altro verso, consente di allocare le attività e le passività tra soggetti giuridicamente distinti, isolando ciascun componente del gruppo dal rischio di insolvenza dell’altro. Con più specifico riguardo alla disciplina del Terzo settore, la costituzione di un’impresa sociale in forma societaria offre, altresì, la possibilità che all’ente ecclesiastico controllante possa essere attribuita, nei limiti previsti dalla legge (art. 3, co. 3, lett. a, DIS), parte degli utili generati dall’attività, da utilizzare come sussidio incrociato per sostenere altre attività di carattere istituzionale o caritatevole.
Il modello del “gruppo” non è, naturalmente, esente da limiti. Se, da un lato, infatti, comporta una moltiplicazione dei costi di gestione proporzionale al numero dei singoli enti, sotto un profilo valoriale tale approccio può determinare una maggiore distanza tra la gestione dell’attività di interesse generale e il carisma originario dell’ente ecclesiastico. Né la struttura di gruppo va intesa come capace di isolare in senso assoluto rischi e responsabilità: la distinzione tra soggetti giuridici non impedisce, infatti, nei casi previsti dall’ordinamento, la responsabilità di chi esercita il controllo, secondo quanto fatto palese dal generico riferimento agli «enti» contenuto nella previsione ex art. 2497 co. 1, c.c. sulla responsabilità di chi esercita abusivamente la direzione o il coordinamento di società, così come dalle numerose tecniche elaborate dalla giurisprudenza per superare lo schermo della personalità giuridica18.