Sostenibilità e volontariato di competenza

Quale sostenibilità?

Il termine sostenibilità è oggi particolarmente utilizzato. Non c’è progetto o intervento pubblico che non rimandi a questo concetto diventato una specie di mantra per indicare la necessità di conciliare lo sviluppo economico con il rispetto dell’ambiente. Più recentemente, la sostenibilità è stata correlata, al fine di una misurazione degli investimenti delle imprese, ai criteri ESG (Environmental, Social e Governance) con i quali si valuta quanto le imprese, nella messa in opera delle loro attività produttive, sono attente e tengono conto del rispetto dell’ambiente, delle problematiche sociali del territorio in cui sono insediate, della valorizzazione dei propri collaboratori.

Molti fanno risalire l’origine del concetto di sostenibilità agli anni ’60, anche se per primo, invece, venne utilizzato da Hans von Karlovitz nel lontano 1713.

Amministratore delle foreste di una zona mineraria della Sassonia, Karlovitz, nel suo testo “Sylvicoltura oeconomica”, provò a definire un uso sostenibile delle risorse forestali. Ovvero, come trovare e mantenere nel tempo un equilibrio tra l’abbattimento di alberi secolari e la crescita di alberi giovani, in modo da non compromettere per le generazioni successive la disponibilità di legna, materia prima fondamentale per quell’epoca. Dunque, per essere sostenibile la crescita della foresta va proiettata nel futuro in modo da non vanificarne la durata nel tempo. Perché questa digressione storica? Forse la “durabilitè” (termine utilizzato dai francesi al posto di sostenibilità) nel tempo di una risorsa, di un sistema ambientale o sociale può meglio esprimere il possibile nesso tra volontariato di competenza e sostenibilità.

  1. Del volontariato di competenza

I due termini, “volontariato” e “competenza”, a prima vista, potrebbero costituire un ossimoro. Si associa, infatti, alla parola volontariato un’azione svolta ordinariamente in modo gratuito, spontaneo, personale e finalizzata a conseguire un obiettivo socialmente condiviso e apprezzato. Ma tale disponibilità volontaria ad agire non rinvia ad una specifica e qualificata preparazione professionale – la competenza appunto – necessaria per poter svolgere quella particolare attività di interesse generale. Al contrario, la competenza viene quasi sempre associata ad attività lavorative svolte all’interno di imprese nella produzione di beni o servizi per una legittima finalità di profitto o comunque come presupposto deontologico per l’esercizio di una determinata professione. Dove allora risiede il nesso con la sostenibilità intesa come rapporto equilibrato nell’uso delle risorse rispettando l’ambiente, le persone e le comunità di riferimento?

Sul tema, la Fondazione Terzjus ha svolto una ricerca esplorativa i cui risultati sono stati raccolti nel volume “Professione volontario” a cura di C. Caltabiano e S. Vinciguerra, Rubettino Editore, liberamente scaricabile dal sito www.terzjus.it Il fenomeno è stato così perimetrato e identificato come un’azione volontaria svolta in modo non oneroso da un collaboratore di un’azienda profit a favore di un progetto o di un servizio realizzato da un Ente di terzo settore (ETS). Un volontariato, che non implica solo una generica dedicazione per un limitato e occasionale periodo di tempo – come per la giornata del volontariato aziendale – ; bensì, la mobilitazione di specifiche e qualificate competenze maturate nel proprio percorso professionale e aziendale per realizzare attività non lucrative, in intervalli temporali non occasionali e non di breve durata, a favore di un ente di terzo settore.

Dall’analisi dei 10 casi presi in esame dalla ricerca, è stata formulata una possibile tipologia del volontariato di competenza. Un primo tipo può essere denominato “volontariato di consulenza”. Un caso esemplificativo è quello delle tre società del Gruppo Roche Italia che, grazie al coordinamento delle Direzioni Risorse Umane e Comunicazione e con il supporto della Fondazione Roche, hanno avviato progetto in collaborazione con CasAmica Onlus, che nelle proprie strutture abitative offre ospitalità ai pazienti e alle famiglie che devono lasciare la propria Regione per poter fruire altrove di assistenza sanitaria qualificata, prevalentemente per patologie oncologiche.

Si tratta di un’evoluzione che fa seguito a una precedente esperienza – che si presenta come una secondo tipo e si può definire “volontariato di emergenza”, realizzato nel periodo dell’emergenza del Covid, quando il personale Roche aveva supportato il centralino della Protezione Civile nelle risposte alle domande dei cittadini sulla patologia. In questo nuovo progetto il personale di Roche ha invece curato la formazione dei volontari di CasAmica, al fine di elevarne il livello di informazione sui bisogni clinici dei pazienti e delle famiglie con cui si confrontano quotidianamente, supportandoli altresì nelle attività di comunicazione verso l’esterno. In questo caso, i destinatari del “prestito non oneroso” di personale sono una Onlus e, più specificamente, i suoi volontari, che rappresentano il tramite verso i pazienti, e la configurazione dell’intervento è del tutto congruente con quello che abbiamo chiamato volontariato di competenza. Infatti, un ente di terzo settore, a fronte di un progetto particolarmente complesso e sfidante, si avvale, senza dover ricorrere al mercato, delle competenze di collaboratori di un’impresa profit in possesso di expertise professionali non presenti nella struttura dello stesso ente.

Qualcosa di simile può altresì avvenire quando un ETS deve incardinare una nuova funzione ( raccolta fondi, gestione del personale, comunicazione) e lo vuole fare affiacando un “volontario professionale” ad un proprio collaboratore. Una terza modalità è quella identificata come “volontariato educativo”, ovvero l’impresa, avvalendosi di proprie risorse scientifiche e professionali, le mette a disposizione per avviare campagne informative ed educative su particolari tematiche di interesse sociale. Infine, un ultimo tipo corrisponde al “volontariato professionalizzante”. E’ il caso di un’impresa che, interpellata da un’ organizzazione non profit, distacca un proprio collaboratore in un progetto particolarmente impegnativo, in un ambiente del tutto diverso da quello aziendale e con obiettivi non facili da conseguire. Una specie di “periodo di prova” per verificare la possibilità di inserire in ruoli apicali lo stesso collaboratore.

Quattro modelli che costituiscono una tipologia ancora provvisoria, in quanto il fenomeno del volontariato di competenza è presente solo in medio-grandi aziende e rappresenta una nicchia del più generale “volontariato aziendale”.

  1. Volontariato di competenza e sostenibilità del sistema sanitario e dei servizi sociali.

Individuato così il fenomeno, non resta che provare a rispondere se questo transito di competenze dall’aziende profit verso gli ETS può essere uno strumento virtuoso per rendere più sostenibile il sistema sanitario e dei servizi sociali. La domanda non è né oziosa, né retorica perché è sotto gli occhi di tutti che un numero crescente di persone sono progressivamente escluse dall’accesso a buone cure o a servizi sociali capaci di affrontare situazioni di disagio, fragilità ed esclusione. L’assunto da cui si muove è che l’intervento del sistema sanitario pubblico e dei servizi sociali sia necessario ma non sufficiente per rispondere in modo tempestivo ai nuovi bisogni di ceti e persone sempre più vulnerabili. Ciò non significa che le istituzioni debbano rinunciare ad investire maggiormente per rendere accessibili a tutti buone cure e servizi affidabili. Ma che la gamba del “terzo settore” può essere, non certo sostitutiva, ma complementare e forse anche più efficace nel conseguire gli obiettivi prima richiamati. D’altra parte la riforma del Terzo settore proprio a questo mirava: fare degli ETS un vero terzo pilastro della vita delle nostre comunità.

A puro titolo esemplificativo, vorrei portare l’esempio di una recente legge, ancora in via di applicazione, della Regione Piemonte n.25 del 2022 che disciplina interventi di “odontoiatria solidale”, con particolare riferimento ai soggetti in condizione di vulnerabilità sociale. Facendo leva sui principi collaborativi tra Amministrazioni pubbliche ed ETS, ci si propone che le ASL e gli ETS, mediante convenzioni, mettano in campo un’offerta aggiuntiva di servizi odontoiatrici per la fasce più deboli della popolazione, avvalendosi della disponibilità volontaria di professionisti del settore che decidono di dedicare un tempo della loro attività specialistica a questo tipologia di servizio, senza avere in cambio alcuna remunerazione. In tal caso il volontariato di competenza nasce da un’azione congiunta e coordinata tra istituzioni pubbliche, ETS e professionisti del settore privato. Se la legge troverà concreta applicazione, ovvero se emergerà un’offerta di tempo e competenze di “dentisti solidali” e se le ASL sapranno organizzare, mediante le proprie strutture, tale servizio in collaborazione con gli ETS, saremo di fronte ad un fenomeno che il legislatore dovrebbe incentivare mediante la leva fiscale. Come già oggi le erogazioni liberali in denaro e in natura godono di una fiscalità di vantaggio, così domani, questa particolare tipologia di attività professionali non remunerate potrebbe trovare una appropriata premialità fiscale. Qualcosa di simile, infatti, gia esiste per le aziende che possono dedurre il costo di un loro collaboratore prestato ad un ETS, fino ad un limite massimo del 5 per 1000 del totale del costo del lavoro dell’azienda stessa.

Torniamo così al punto di partenza: il volontariato di competenza,svolto da un collaboratore di un’ impresa o da un professionista, fa emergere la possibilità che un privato possa incorporare nella propria attività professionale o di impresa anche finalità non meramente lucrative. E che questo apporto possa incidere sulla sostenibilità dei sistemi socio – sanitari al fine di raggingere anche le fasce più vulnerabili della popolazione.

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