Merita di essere segnalata una recente sentenza della Corte Costituzionale, che nuovamente è intervenuta su materie di interesse per chi studia e si occupa di associazionismo e diritto del terzo settore.
La decisione in commento è la sentenza n. 86 del 21-26 giugno 2025, con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 2941, primo comma, n. 7 c.c. nella parte in cui non prevede la sospensione della prescrizione tra le associazioni non riconosciute e i loro amministratori, finchè sono in carica, per le azioni di responsabilità contro di essi”.
Essa si inserisce organicamente nel solco tracciato dalle precedenti pronunce costituzionali che hanno progressivamente esteso la sospensione della prescrizione prevista dall’art. 2941, primo comma, numero 7), del codice civile alle società di persone.
Il caso
Il Giudice delle leggi affronta il caso di una associazione non riconosciuta che ha avviato l’azione di responsabilità per mala gestio nei confronti del suo ex amministratore.
Il caso giudiziario su cui si innesta l’intervento del Giudice delle leggi è relativo ad un’associazione non riconosciuta che si è trasformata, a seguito di operazione straordinaria, in Impresa Sociale s.r.l.
L’associazione divenuta impresa viene posta in liquidazione volontaria, ed è poi sottoposta a liquidazione coatta amministrativa (l.c.a.). In tale frangente, il commissario liquidatore, ritenendo vi fosse stata mala gestio, ha avviato l’azione di responsabilità verso l’amministratore. L’amministratore ha tuttavia eccepito l’intervenuta prescrizione rispetto alle “pretese risarcitorie fatte valere a titolo di responsabilità contrattuale e maturate prima del 23 ottobre 2009”. La difesa dell’ex associazione, ora Impresa Sociale in l.c.a., ha replicato che la prescrizione inizia a decorre solo dal momento in cui l’amministratore lascia l’incarico, sulla scorta di quanto previsto dal citato art. 2941, primo comma, n. 7 c.c.
La Sezione Imprese del Tribunale di Napoli ha ritenuto invece di dover interpellare la Corte Costituzionale, a cui ha sottoposto la valutazione in ordine alla compatibilità della disposizione normativa citata, rispetto agli art. 3 e 24 della Costituzione, e in virtù di tale rimessione la Corte ha emesso la sentenza n. 86/2025.
Associazioni riconosciute e associazioni non riconosciute.
Come noto, le associazioni non riconosciute – di cui il legislatore non offre una definizione – sono enti privi di personalità giuridica disciplinati, insieme ai comitati, dagli articoli 36, 37 e 38 del codice civile. La netta distinzione tra associazioni riconosciute “come persone giuridiche” (disciplinate assieme alle fondazioni nel libro I, titolo II, capo II del codice civile) e le associazioni non riconosciute (libro I, titolo II, Capo III) si è nel tempo progressivamente attenuata, ed anche la sentenza in commento si pone nel solco del progressivo avvicinamento tra associazioni riconosciute e non riconosciute.
Oggi si ritiene che anche le associazioni non riconosciute, pur essendo prive di personalità giuridica, costituiscono autonomi centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, dotati di soggettività giuridica e di un proprio fondo comune distinto dal patrimonio dei singoli associati. Esse sono caratterizzate da un’autonomia patrimoniale imperfetta che comporta la responsabilità personale e solidale di coloro che agiscono in nome e per conto dell’associazione per le obbligazioni da questa assunte.
La pronuncia di incostituzionalità dell’art. 2941, I comma, n. 7, c.c.
La Consulta si è pronunciata, con la sentenza additiva in commento, in merito a un articolo del codice civile che disciplina le ipotesi in cui il termine di decorrenza della prescrizione è sospeso. Si tratta di una norma che dispone(va): “La prescrizione rimane sospesa: […] 7) tra le persone giuridiche e i loro amministratori, finchè sono in carica, per le azioni di responsabilità contro di essi”. La norma dunque non prevede(va) espressamente la sospensione della prescrizione per le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori di associazioni non riconosciute, che non sono dotate di personalità giuridica.
Parte della giurisprudenza riteneva di poter porre rimedio a tale mancanza attraverso una interpretazione estensiva e analogica della norma: secondo questa lettura, l’art. 2941 c.c. esprimerebbe “un principio di carattere generale per cui qualsiasi soggetto giuridico è impedito nella effettiva percezione del danno attuato dal soggetto posto in posizione apicale e/o dirigenziale fintantoché lo stesso è in carica”[1].
La Consulta ha ritenuto invece che la norma in questione non sia “suscettibile di applicazione analogica, in quanto connotata da eccezionalità”.
La ratio dell’intervento
La Corte chiarisce che lo scopodellasospensione della prescrizione prevista al punto n. 7 dell’art. 2941 c.c. risiede in un’esigenza di natura sostanziale, costituita dalla difficoltà che l’ente incontra nell’avere piena cognizione dell’operato degli amministratori e nel promuovere l’azione finchè questi conservano l’incarico gestionale.
Si tratta di una difficoltà che prescinde completamente dalla titolarità (o meno) della personalità giuridica, che non incide sui rapporti interni fra gli amministratori e l’ente.
Questa impostazione riflette l’evoluzione del diritto degli enti, che ha visto progressivamente attenuarsi il ruolo della personalità giuridica quale fattore ordinante della disciplina. La Corte Costituzionale ha riconosciuto che anche gli enti privi di personalità giuridica sono autonomi centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, in virtù di un principio di alterità che si fonda sulla loro struttura organizzativa, sull’elemento patrimoniale e su quello teleologico.
La doppia disparità di trattamento
La pronuncia ha evidenziato una duplice irragionevole disparità di trattamento.
In primo luogo, tra associazioni non riconosciute e associazioni riconosciute, poiché entrambe sono soggette alla medesima disciplina dell’art. 18 del codice civile che stabilisce la responsabilità degli amministratori secondo le norme del mandato: “la stessa difficoltà che incontra l’associazione riconosciuta nell’aver contezza della responsabilità dei suoi amministratori e nel farla valere fintantoché essi sono in carica” vale anche per l’associazione non riconosciuta.
In secondo luogo, tra associazioni non riconosciute e società di persone, anch’esse prive di personalità giuridica ma già beneficiarie della sospensione grazie ai precedenti interventi della Corte. La sentenza in commento richiama espressamente due precedenti pronunce in cui è intervenuta dichiarando l’incostituzionalità di questa stessa norma del codice civile, nella parte in cui prevedeva la sospensione anche per “due tipologie di società prive della personalità giuridica: le società in accomandita semplice (sent. n. 322 del 1988) e quelle in nome collettivo (sent. n. 262 del 2015)”.
Gli effetti ‘erga omnes’ della pronuncia della Corte Costituzionale
Gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale incidono non solo sul caso specifico rimesso alla valutazione della Corte, ma su tutte le successive decisioni relative alla norma di legge dichiarata incostituzionale.
Applicando questo principio la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18126 del 3 luglio 2025 relativa ad altro caso di responsabilità nei confronti di associazione non riconosciuta, ha potuto dichiarare che “la sopravvenuta sentenza di accoglimento della Corte Costituzionale ha effetti erga omnes e impedisce di applicare la norma preclusiva, dichiarata incostituzionale, alle situazioni e ai rapporti, come nella specie, ancora pendenti”.
Due sottolineature a margine
La sentenza appare interessante anche per ulteriori due elementi, che in qualche modo intervengono a margine della decisione, ma che appaiono comunque di interesse pratico per gli operatori.
In primo luogo, l’ente che è parte nel processo ha subito un processo di c.d. trasformazione eterogenea sui generis: l’impresa sociale era prima una associazione non riconosciuta, ed è divenuta s.r.l. attraverso una operazione di trasformazione eterogenea, cioè un’operazione straordinaria. Come noto l’art. 2500-octies c.c. non prevede espressamente la possibilità di trasformare una associazione non riconosciuta in società di capitali, ma solo con riferimento alla associazione riconosciuta. La giurisprudenza[2] e gli operatori del diritto erano però arrivati per via interpretativa alla possibilità di effettuare simile trasformazione e anche la sentenza oggetto del presente commento ne conferma la possibilità.
In secondo luogo, pare utile porre l’attenzione su un argomento c.d. ad adiuvandum, cioè utilizzato dalla Corte Costituzionale per rafforzare la parte motivazionale relativa alla disparità di trattamento tra associazioni e società di persone.
La Corte afferma che l’art. 2261, l’art. 2293 e l’art. 2320, terzo comma, del codice civile prevedono specifici diritti di informazione e controllo che non troverebbero corrispondenza nella disciplina associativa, dove l’unica incombenza è rappresentata dalla convocazione annuale dell’assemblea per l’approvazione del bilancio ex art. 20, primo comma, del codice civile. Questo argomento, che non risultava necessario ai fini di motivare la decisione e che pure è ovviamente corretto dal punto di vista testuale, non deve però indurre a ritenere che le citate norme siano di carattere eccezionale, e dunque non suscettibili di interpretazione analogica. Ne risulterebbe un indebolimento dei diritti dei soci delle associazioni, che invece la giurisprudenza di merito ha ormai pacificamente riconosciuto proprio attraverso l’interpretazione analogica delle norme in materia di società di persone e di capitali[3].
Conclusioni
In conclusione, la sentenza n. 86 della Corte Costituzionale appare indubbiamente interessante per il caso affrontato e per le conclusioni raggiunte, e dimostra che il diritto dell’associazionismo e del terzo settore sta trovando ulteriore approfondimento e sviluppo anche all’interno dei casi giurisprudenziali, nella direzione di garantire un riconoscimento sempre più ampio dei diritti degli associati e delle tutele sostanziali, superando le tradizionali distinzioni formali in favore di una protezione effettiva dei diritti da contemperare.
[3] Si vedano in questo senso le seguenti recenti pronunce e la relativa giurisprudenza di merito ivi citata: Trib. Modena, ordinanza 29 novembre 2022 n. 5441/2022 RG: “La richiesta dei ricorrenti deve essere considerata legittima in quanto conforme al diritto in tal senso sancito dalla norma citata di cui all’art. 2261 c.c. È evidente che la mancata consegna della documentazione richiesta produrrebbe un pregiudizio imminente ed irreparabile in capo ai ricorrenti, in quanto comprimerebbe il loro fondamentale diritto di controllo della documentazione inerente alla gestione sociale ed anche di difesa” ed ancora: “ in sede di giurisprudenza di merito è stato affermato il principio secondo cui il diritto di consultazione spettante all’associato comprende sia il diritto di prendere visione ed esaminare i documenti dell’associazione, sia il diritto di estrarne copia o riprodurli con altri mezzi (Tribunale di Roma sent. 22.2.2010). Tale principio appare condivisibile analogamente a quanto già stabilito dalla prevalente giurisprudenza di merito in riferimento alla disciplina di cui all’art. 2476 c.c. relativo alle società di capitali (Tribunale Milano 29.9.2015, Tribunale Milano 22.7.2012, Tribunale Verona 29.8.2011), laddove quale limite di tale diritto viene individuata l’applicazione del principio della buona fede. In altri termini la possibilità di estrazione di copia (a spese del socio) appare connaturata alla effettività dell’esercizio del diritto di controllo, altrimenti in fatto limitato o, comunque, richiedente modalità di consultazione che, data la complessità della documentazione da esaminare, risulterebbero eccessivamente onerose ovvero non esaustive”.
Ed anche Trib. Modena, ordinanza 13 aprile 2023 n. 7944/2022 RG: “deve qui ribadirsi il costante e prevalente indirizzo della giurisprudenza di merito volto a configurare il diritto di consultazione dei documenti sociali quale diritto potestativo del singolo socio non amministratore di avere accesso a tutti i libri sociali e ai documenti relativi alla gestione societaria, come tale esercitabile in ogni momento, al fine di soddisfare il suo concreto interesse al buon funzionamento dell’attività gestoria nell’osservanza dei principi di correttezza e buona fede, senza arrecare nocumento all’attività sociale od ostacolarne il suo svolgimento (cfr. Trib. Bologna, 18.06.2020; Trib. Venezia, 20.06.2018; Trib. Roma, 9.07.2009; Trib. Pavia, 1.08.2007; Trib. Taranto, 13.07.2007; Trib. Ivrea, 2.07.2005). È, inoltre, pacifico che tale diritto sia comprensivo non solo della facoltà di esaminare i documenti sociali ma anche della possibilità di estrarne copia o di riprodurli con altri mezzi, senza la quale il potere del socio risulterebbe di fatto compresso e ridimensionato, non potendo trarsi argomento a contrario la mancata espressa previsione di legge in tale senso, a differenza di quanto avviene, per le sole s.p.a. nell’art. 2422 c.c. (cfr. Trib. Bologna, 12.10.2017; Tribunale di Roma 22 febbraio 2010). La facoltà di estrarre copia costituisce, infatti, uno strumento indispensabile per l’efficace esercizio del diritto di ostensione, essendo necessaria la selezione e la valutazione critica dei documenti esaminati per poter validamente assumere le decisioni conseguenti ad un’informazione ed a un controllo esauriente dell’attività sociale (cfr. Trib. Bologna, ord., 6 dicembre 2006; Trib. Chieti, 31 maggio 2005). In questi termini, dunque, deve dirsi condivisibile il richiamo, operato dal Giudice di prime cure, alla previsione di cui all’art. 2476 c.c., con cui il legislatore ha inteso ridisegnare il diritto di accesso del socio alla documentazione sociale come una manifestazione del suo potere individuale di controllo – anche, ma non necessariamente – collegato alla legittimazione all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità e, come tale, esercitabile in via potestativa, senza che il socio debba indicare o dimostrare l’utilità della documentazione a cui intende accedere rispetto ad uno specifico interesse, salvo il limite di azioni palesemente abusive e il necessario rispetto di esigenze di riservatezza (cfr. Trib. Roma, 17 ottobre 2020).”
[2] Si veda Trib. Bologna sent. n. 1109/2017: “deve ritenersi possibile una trasformazione eterogenea in società di capitali, anche quando sia trasformanda una associazione non riconosciuta.”
[1] In questo senso si è espresso il P.G. nel caso recentissimo con cui la Corte di Cassazione, con sentenza 3 luglio 2025 n. 18126, ha dato applicazione alla sentenza della Corte Costituzionale oggetto del presente commento.