La Riforma del Terzo Settore, le opere degli enti religiosi e la segregazione del patrimonio destinato

1. Il ramo dell’ente religioso. Gli elementi costitutivi

Tanto la disciplina generale degli Enti di Terzo Settore (D.Lgs. n. 117/17), quanto quella particolare delle Imprese sociali (D.Lgs. n. 112/17) hanno previsto la possibilità per gli enti religiosi di assumere immediatamente tale qualifica “limitatamente” alle attività di interesse generale. Per assicurare che la normativa di favore della Riforma1 sia applicata solo alle attività dell’art. 5 del Codice e a quelle dell’art. 2 del Decreto sull’Impresa Sociale, il legislatore ha prescritto tre condizioni:

  1. l’adozione di un regolamento (con la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata),
  2. la costituzione di un patrimonio destinato,
  3. la tenuta di scritture contabili separate.

In sede di conversione del D.L. n. 77 del 31 maggio 2021, l’art. 66 (cui sono stati aggiunti i co. 01 e 02)2 ha introdotto due significative modifiche agli articoli del Codice del Terzo Settore e al Decreto sull’Impresa Sociale, prevedendo che:

  • il ramo di Terzo Settore possa includere anche le cosiddette attività diverse dell’art. 6,
  • la costituzione del patrimonio destinato di entrambi i rami ha come effetto legale la segregazione reale bidirezionale dei beni che lo compongono:
D.Lgs. 117/2017, art. 4 co. 3D.Lgs. 112/2017, art. 1 co. 3
Agli enti religiosi civilmente riconosciuti le norme del presente decreto si applicano limitatamente allo svolgimento delle attività di cui all’articolo 5, nonché delle eventuali attività diverse di cui all’articolo 6 a condizione che per tali attività adottino un regolamento, in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata, che, ove non diversamente previsto ed in ogni caso nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, recepisca le norme del presente Codice e sia depositato nel Registro unico nazionale del Terzo settore. Per lo svolgimento di tali attività deve essere costituito un patrimonio destinato e devono essere tenute separatamente le scritture contabili di cui all’articolo 13. I beni che compongono il patrimonio destinato sono indicati nel regolamento, anche con atto distinto ad esso allegato. Per le obbligazioni contratte in relazione alle attività di cui agli articoli 5 e 6, gli enti religiosi civilmente riconosciuti rispondono nei limiti del patrimonio destinato. Gli altri creditori dell’ente religioso civilmente riconosciuto non possono far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo svolgimento delle attività di cui ai citati articoli 5 e 6.Agli enti religiosi civilmente riconosciuti le norme del presente decreto si applicano limitatamente allo svolgimento delle attività di cui all’articolo 2, a condizione che per tali attività adottino un regolamento, in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata, che, ove non diversamente previsto ed in ogni caso nel rispetto della struttura e delle finalità di tali enti, recepisca le norme del presente decreto. Per lo svolgimento di tali attività deve essere costituito un patrimonio destinato e devono essere tenute separatamente le scritture contabili di cui all’articolo 9. I beni che compongono il patrimonio destinato sono indicati nel regolamento, anche con atto distinto ad esso allegato. Per le obbligazioni contratte in relazione alle attività di cui all’articolo 2, gli enti religiosi civilmente riconosciuti rispondono nei limiti del patrimonio destinato. Gli altri creditori dell’ente religioso civilmente riconosciuto non possono far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo svolgimento delle attività di cui al citato articolo 2.

La soluzione di permettere all’ente religioso di assumere solo parzialmente la qualifica di Ente del Terzo Settore o d’Impresa Sociale consente di non dover costituire un ente civile – che a tutto tondo assuma la qualifica di ETS o d’Impresa Sociale – per continuare a svolgere le attività di interesse generale e applicare la norma di favore della Riforma. Comunemente questa opportunità è stata denominata “ramo dell’ente religioso” e ha come precedente l’istituto del “ramo Onlus dell’ente ecclesiastico” introdotto dall’art. 10 del D.Lgs. n. 460/1997: “Gli enti ecclesiastici delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese e le associazioni di promozione sociale ricomprese tra gli enti di cui all’articolo 3, comma 6, lettera e), della legge 25 agosto 1991, n. 287 , le cui finalità assistenziali siano riconosciute dal Ministero dell’interno, sono considerati ONLUS limitatamente all’esercizio delle attività elencate alla lettera a) del comma 1; fatta eccezione per la prescrizione di cui alla lettera c) del comma 1, agli stessi enti e associazioni si applicano le disposizioni anche agevolative del presente decreto, a condizione che per tali attività siano tenute separatamente le scritture contabili previste all’articolo 20-bis del decreto del Presidente delle Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 , introdotto dall’articolo 25, comma 1” (art. 10, co. 9, D.Lgs. n. 460/97)3.

Il legislatore della Riforma ha confermato l’opportunità per gli enti religiosi di utilizzare lo strumento del ramo aggiungendo, rispetto alla disciplina del “ramo Onlus”, la necessità di costituire un patrimonio destinato che ora – dopo quattro anni dalla promulgazione dei decreti sul Terzo Settore – ha anche l’effetto di distinguere in due parti il patrimonio dell’ente religioso, riservando ciascuna ad una precisa categoria di creditori.

1.1 La ratio del ramo dell’ente religioso.

È importante riconoscere la ragione giuridica che giustifica la possibilità di istituire un ramo per aderire alla Riforma, almeno per evitare che tale opportunità sia fraintesa e per orientare la sua corretta applicazione.

Anzitutto occorre prende atto che a differenza della disciplina Onlus, la Riforma consente la costituzione del ramo solo agli enti religiosi e non più anche alle “associazioni di promozione sociale ricomprese tra gli enti di cui all’articolo 3, comma 6, lettera e), della legge 25 agosto 1991, n. 287, le cui finalità assistenziali siano riconosciute dal Ministero dell’interno”.

In secondo luogo, il Consiglio di Stato con parere n. 01405/2017 del 14 giugno 20174 ha suggerito al Governo che la possibilità di aderire alla Riforma “limitatamente” non fosse riservata agli enti ecclesiastici (quelli promossi dalle confessioni religiose che hanno sottoscritto con lo Stato patti, accordi o intese) ma fosse estesa agli “enti religiosi civilmente riconosciuti” tout court5.

Sulla base di questi due riscontri, la ratio del “ramo” potrebbe essere ricondotta alla natura “religiosa” dell’ente che gestisce attività di interesse generale.

Tuttavia, non pare infondata un’altra ricostruzione che giustifica la possibilità per un ente di aderire alla Riforma solo “limitatamente” non per la sua natura/fine ma per il fatto che sussiste a suo carico un obbligo legale di svolgere attività che non sono riconducibili a quelle di interesse generale.

Infatti, tanto l’art. 4, co. 3, quanto l’art. 1, co. 3 sopra citati, intendono:

  • escludere dai benefici (e dai vincoli) della Riforma tutte le attività di un ente che non sono incluse tra quelle di interesse generale e, allo stesso tempo,
  • consentire allo stesso ente di assumere in modo “in-mediato” la qualifica di Terzo Settore o d’Impresa Sociale in relazione alle sole attività di interesse generale che gestisce6.

La Circolare n. 168/1998 già aderiva a questa giustificazione del diritto riconosciuto di istituire un ramo Onlus, accomunando gli enti ecclesiastici e le APS riconosciute dal Ministero dell’Interno per il fatto di svolgere attività che non rientrano nel novero di quelle Onlus: “Gli enti sopra elencati hanno facoltà di svolgere anche attività non riconducibili fra quelle proprie dei settori elencati dall’art. 10, comma 1, lett. a), come definiti nei paragrafi precedenti, e di configurarsi come O.N.L.U.S. solo parzialmente cioè limitatamente alle attività svolte nell’esclusivo perseguimento di finalità di solidarietà sociale nei settori espressamente indicati nell’anzidetta disposizione”.

Gli enti ecclesiastici7 infatti, sono soggetti giuridici che per disposizione di legge devono (e non solo possono) svolgere attività che non sono incluse tra quelle di interesse generali; si tratta, infatti, degli enti promossi dalle confessioni religiose che hanno sottoscritto patti, accordi o intese con lo Stato8, e che – come esplicitamente previsto nelle leggi che hanno ratificato detti patti – devono avere finalità di “religione o culto” e, dunque, devono svolgere una o più attività che le rispettive leggi di ratifica individuano come di “religione o culto”9.

Questo elemento è determinante10, a prescindere dalla confessione religiosa che lo ha promosso, tant’è che la sussistenza del fine e delle attività di “religione o culto” sono conditio sine qua non sia per assumere la qualifica di “ente ecclesiastico”, ed essere soggetto anzitutto alla disciplina pattizia e non solo a quella civile11 sia per mantenere tale qualifica.

Questa ratio spiega in modo adeguato anche il fatto che con la Riforma le “associazioni di promozione sociale […] le cui finalità assistenziali siano riconosciute dal Ministero dell’interno” non possono più acquisire la qualifica di ETS o d’Impresa Sociale “limitatamente”, in quanto la nuova e più ampia categoria delle attività di interesse generale include anche quelle che devono essere necessariamente svolte da esse e che, invece, non erano incluse nell’elenco dell’art. 10, co. 1, lett. a) del D.Lgs. n. 460/1997.

Nell’ipotesi che la ratio del “ramo” dipenda dal fatto che l’ente sia tenuto per legge a svolgere attività che non sono incluse tra quelle di interesse generale (come definite unilateralmente dal legislatore), e per questo motivo non possa assumere a tutto tondo la qualifica di Terzo Settore o d’Impresa Sociale12, il diritto ad aderire alla Riforma “limitatamente” potrebbe essere riconosciuto anche ad enti diversi da quelli religiosi, purché si trovino nella medesima situazione per quanto riguarda l’obbligo ex lege di gestire attività che non sono ricomprese tra quelle di interesse generale definite dal legislatore13.

1.2 Gli enti religiosi: una categoria aperta e da definire.

Il Consiglio di Stato, alla luce della giurisprudenza costituzionale circa i diritti delle confessioni religiose e i diritti religiosi della persona, ha rilevato che la possibilità di istituire un ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale non possa essere riconosciuta solo agli enti delle confessioni che hanno stipulato patti, accordi o intese con lo Stato.

Si tratta, dunque, di una categoria più ampia rispetto ai soli enti religiosi civilmente riconosciuti. Il confine è però ancora da definirsi, in quanto la Riforma non offre indicazioni che possano dare un contenuto giuridico all’aggettivo “religiosi”. Per ora la verifica della natura religiosa di un ente – che non ha la qualifica legale di “ente ecclesiastico” –compete in ultima battuta all’Ufficio regionale del RUNTS (art. 5, D.M. 15 settembre 2020) o al Registro delle Imprese14.

2. La gestione delle attività di interesse generali dell’ente religioso. Possibili scenari.

In Italia gli enti ecclesiastici della Chiesa Cattolica, la cui origine è nel Concordato Lateranense del 192915, operano da sempre nel sociale assicurando molteplici servizi: dalla sanità alla scuola, dall’assistenza alla cura dei beni culturali, dalla beneficienza all’housing sociale.

I numeri di questa azione sono assai significativi16 anche se finora non sono stati oggetto di una puntuale rilevazione ed analisi17.

Con il Concordato del 1929 la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano superano la parentesi delle leggi eversive e, oltre a riconoscere agli enti ecclesiastici la piena soggettività giuridica, affermano il diritto di svolgere anche attività che non rientrano nel novero delle iniziative tipicamente religiose18: Gli istituti ecclesiastici, civilmente riconosciuti, in quanto esercitino attività di carattere educativo, assistenziale o, comunque, di interesse sociale a favore di laici, sono sottoposti alle leggi civili concernenti tali attività19.

Mentre le attività di religione o culto sono sottratte alla normativa statale, le altre attività – cosiddette “diverse”20 – sono del tutto soggette alla normativa statale, fatto salvo il limite “concordatario” che tale soggezione rispetti la struttura e la finalità degli enti ecclesiastici.

La prima e immediata ricaduta di questo principio è l’assoggettamento delle attività diverse alla normativa fiscale dello Stato. Tuttavia, tanto nel 192921, quanto nel 198422, lo Stato italiano ha riconosciuto l’opportunità di applicare la fiscalità23 dedicata agli enti civili aventi “fine di beneficienza ed istruzione”. Dal 1929 ad oggi la fiscalità degli enti aventi “fine di beneficienza ed istruzione” è assai mutata24 ma non scomparsa, e assieme alla qualifica soggettiva di “enti non commerciali” (artt. 73 e 143-150 del TUIR) hanno costituito il regime fiscale di base degli enti ecclesiastici delle confessioni religiose cha hanno patti, accordi o intese con lo Stato.

Questa normativa di base si applica a tutte le attività non di religione o culto svolte dagli enti ecclesiastici, incluse quelle che la Riforma del Terzo Settore qualifica come di “interesse generale”. Dunque, gli enti ecclesiastici possono continuare a gestire tali opere senza applicare la normativa promozionale del 2017 e godendo solo delle agevolazioni comuni previste dalla normativa sull’ente non commerciale (art. 73, TUIR), dalle norme concordatarie/pattizie, dalle norme dello Stato che intendono sostenere il fenomeno religioso o particolari settori25.

La possibilità per gli enti ecclesiastici – e per gli enti religiosi26 – di applicare la Riforma del Terzo Settore “limitatamente” alle attività di interesse generale, ha come effetto la moltiplicazione dei regimi anzitutto fiscali che convivono nell’unico soggetto27:

  • la sfera delle attività di religione o culto28, del tutto disciplinata dalla sola normativa interna della confessione religiosa29, e, dunque, fiscalmente irrilevante;
  • la sfera delle attività diverse (art. 16, L. n. 222/85) svolte al di fuori della modalità di impresa per le quali si applica la fiscalità di base dell’ente non commerciale e degli enti con fine di istruzione e beneficienza;
  • le attività diverse svolte con la modalità di impresa, per le quali si applica la fiscalità di base dell’ente non commerciale e degli enti con fine di istruzione e beneficienza;
  • le attività diverse e rientranti tra quelle di interesse generale del Codice di Terzo Settore, gestite all’interno del ramo di Terzo Settore,
  • le attività diverse e rientranti tra quelle di interesse generale del Decreto sull’Impresa Sociale, gestite all’interno del ramo d’Impresa Sociale.

La compresenza di queste sfere, a ciascuna delle quali si applica uno specifico corpus normativo, non significa che vi sia quasi una pluralità di soggetti, ed è proprio questo profilo quello che custodisce in modo pieno la peculiarità dell’ente ecclesiastico ed esige che gli operatori abbiano una conoscenza puntuale del diritto ecclesiastico (e, per gli enti della Chiesa Cattolica, anche del diritto canonico).

Un esempio aiuta a comprendere la ricchezza e la complessità di questo singolare fenomeno giuridico: l’ente ecclesiastico (della Chiesa Cattolica) è e rimane un unico soggetto che per la fiscalità di base si qualifica sempre “ente non commerciale” (artt. 73 e 149, TUIR)30 e che può contemporaneamente svolgere

  • attività non d’impresa (possesso di un immobile locato, vendita di un terreno edificabile, titolarità di un conto titoli) i cui redditi sono determinati con le norme dei redditi fondiari, di capitale e diversi,
  • attività d’impresa (gestione di una scuola paritaria, un bar parrocchiale, una casa di riposo, una casa per ferie) per la quale applicano gli artt. 55 ss. del TUIR,
  • attività commerciale occasionale, ai sensi dell’art. 143 del TUIR,
  • attività di Terzo Settore (gestione di una scuola paritaria, di una casa di riposo, di una casa per ferie o di una iniziativa di beneficienza) con modalità non commerciali o commerciali (art. 79, Codice di Terzo Settore),
  • attività d’Impresa Sociale (quelle del ramo di Terzo Settore, escluse quelle di beneficienza) solo con modalità commerciali (Decreto n. 112/17).

Come detto, si tratta di orizzonti/sfere molteplici ma non contraddittori e che possono coesistere senza alcun problema.

Questa complessità31 può anche un destare un poco di inquietudine tanto nei loro amministratori, quanto nei professionisti che li accompagnano, ma occorre considerare che consente di sviluppare al massimo le possibilità tipiche degli enti ecclesiastici di tutte le confessioni religiose che hanno sottoscritto patti con lo Stato italiano: la sussistenza di un unico soggetto che svolge molteplici attività che sono tra loro connesse in quanto (i) amministrate dai medesimi soggetti/organi ed (ii) evitando che il patrimonio sia frantumato tra più soggetti.

È, dunque, una tentazione la volontà di semplificare a tutti i costi ed in modo eccessivo questo quadro, perché implica la perdita e la rinuncia alla multiforme ricchezza della sua azione unitaria.

Di contro, le semplificazioni non sono una tentazione se disegnate al termine di un adeguato percorso di discernimento, in quanto possono consentire all’ente ecclesiastico (i) di continuare a svolgere la propria missione istituzionale di parrocchia, di casa religiosa, di diocesi, (ii) senza perdere la regia di alcune opere sociali che ritiene strategiche (iii) e guadagnando una certa distanza in merito alla gestione immediata di alcune attività. È il caso dello spin off di rami d’azienda, attribuendoli o conferendoli a fondazioni/società controllate dall’ente ecclesiastico che possono anche acquisire a tutto tondo la qualifica di ETS o d’Impresa Sociale. Non è, quindi, indifferente svolgere attività di interesse generale come ente ecclesiastico o in via mediata attraverso enti strumentali, in primis fondazioni e società unipersonali32. Infatti, l’ente ecclesiastico assicura la massima connessione tra le attività religiose tali per natura (culto, educazione religiosa, formazione dei ministri, missione) e le altre attività sociali (economiche e non) che l’ente intende svolgere non casualmente ma proprio in quanto espressione della propria essenza/natura, dato che la sua struttura e il suo modo di funzionare sono elaborati direttamente dall’ordinamento interno della confessione religiosa33.

In altre parole: l’ente ecclesiastico è calibrato dalla confessione religiosa per i propri fini e la propria missione che spesso compone in modo indistricabile le attività di natura religiosa e quelle di natura sociale34; al contrario l’ente civile strumentale presenta una struttura che si può definire neutra rispetto ai fini, in quanto non nasce come dedicata e connaturale alla missione religiosa35, e per questo non è in grado di custodire in modo radicale la profonda unità di azione36.

3. Il regolamento del ramo. Cautele.

La necessità di adottare un regolamento risponde, anzitutto, alla necessità di vincolare l’ente religioso alle norme della Riforma del Terzo Settore:

  • ma “limitatamente” alle attività di interesse generale identificate dall’ente stesso,
  • e senza dover adattare il proprio ordinamento interno37 alle norme della Riforma, considerato che per accordi pattizi con le confessioni religiose gli enti istituiti secondo le norme interne alla stessa non possono subir modifiche dalla normativa statale38.

È per questa ragione che tanto l’art. 4, co. 3 del Codice, quanto l’art. 1, co. 3 del Decreto sull’Impresa Sociale prescrivono che gli enti religiosi “adottino un regolamento, in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata, che, ove non diversamente previsto ed in ogni caso nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, recepisca le norme del presente Codice/Decreto”.

Il regolamento deve, dunque, recepire le norme del Codice/Decreto, fatte salve due condizioni:

  • alcune norme della Riforma prevedono esplicitamente la loro non applicazione agli enti religiosi,
  • per altre norme vien meno l’obbligo di recepimento in quanto, nel caso concreto, si lederebbe l’autonomia della confessione religiosa in riferimento alla struttura e alla finalità dell’ente.

Salvo le clausole che lo stesso legislatore esclude dall’obbligo di essere recepite nel regolamento, la compatibilità di tutte le altre clausole con il limite del “rispetto della finalità e della struttura dell’ente” deve essere verificata di volta in volta in riferimento al caso concreto39. Questa considerazione sollecita l’attenzione dei tre soggetti coinvolti nel processo che conduce all’efficacia del regolamento:

  • l’organo amministrativo (personale o collegiale) dell’ente religioso che lo deve adottare (e, nel caso degli enti della Chiesa Cattolica, anche l’autorità ecclesiastica competente chiamata, ex cann. 638, 1281 e 1291-1295, ad autorizzare l’operazione),
  • il notaio che deve assumerlo nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata,
  • l’Ufficio del RUNTS e il Registro delle Imprese che deve svolgere le opportune verifiche in sede di iscrizione/cancellazione (art. 4, co. 1, D.M. 15 settembre 2020).

Il fatto che rilevi anche un ordinamento giuridico (o una serie di norme interne alla confessione religiosa) distinto da quello statale, dovrebbe raccomandare non solo la ricerca di un dialogo rispettoso tra i tre soggetti, ma anche – forse anzitutto – una conoscenza adeguata delle norme dell’“altro” ordinamento da parte di ciascuno, per evitare “impuntature”.

In questa prospettiva, anche la possibilità di utilizzare modelli standard (cf art. 47, Codice) chiede di essere valutata con cautela, considerato che gli enti religiosi (certamente quelli ecclesiastici) hanno strutture, finalità, storie che faticherebbero ad essere necessariamente costrette in format tipizzati. Certamente è una soluzione che non può essere esclusa, anzitutto quando tiene in dovuto conto la tipologia di ente (per es. parrocchia, casa religiosa, diocesi) e l’attività di interesse generale che deve disciplinare40.

In questa prospettiva, almeno per la Chiesa Cattolica, il fatto che l’organo amministrativo debba (quando previsto dalla normativa canonica) acquisire l’autorizzazione dell’autorità competente, potrebbe assicurare la disponibilità di alcune soluzioni “provate”, anzitutto riguardo alle norme della Riforma che devono essere recepite e alla modalità di recepirle41.

3. Il patrimonio destinato e la nuova segregazione reale. Un porto sicuro o un mare aperto?

Fino alla conversione in legge dell’art. 66 del D.L. n. 77 del 31 maggio 2021, la costituzione di un ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale, come pure per le Onlus42, era una vicenda che riguardava solo l’applicazione dei benefici di queste normative promozionali (fiscali e non) alle attività sociali gestite da un ente ecclesiastico.

Il fatto che la versione originaria della Riforma del Terzo Settore avesse aggiunto un ulteriore elemento – il patrimonio destinato – per dar vita al ramo dell’ente religioso aveva come principale effetto la necessità di redigere un inventario dei beni dell’ente religioso che sarebbero stati utilizzati per gestire le attività di interesse generale. L’adozione di un inventario del patrimonio utilizzato dal ramo – costituito da beni, diritti reali, risorse finanziarie, crediti, debiti – consentiva, infatti, di monitorarlo,

  • sia in riferimento all’osservanza del principio per cui gli avanzi, i fondi e le riserve dell’ente di Terzo Settore o d’Impresa Sociale devono essere utilizzati solo per le attività di interesse generale (oltre che per quelle diverse)43 ,
  • sia per determinare puntualmente l’estensione del vincolo di devoluzione sui beni dell’ente religioso in caso di estinzione o perdita di qualifica del ramo44.

Dunque, la versione originale delle due norme che disciplinano il ramo non prevedeva alcun effetto sui diritti dei terzi, limitandosi a porre un vincolo sull’attività dell’amministratore dell’ente religioso che non poteva utilizzare le risorse del ramo per gestire beni e attività estranee ad esso.

I commenti sull’istituto del patrimonio destinato, oltre a evidenziare la novità rispetto alla disciplina del ramo Onlus segnalavano anche la questione dell’eventuale effetto segregativo della disposizione45. Le letture erano diversificate46, tuttavia sullo sfondo si rinveniva, in modo più o meno definito ed evidente, la questione già affrontata dai giudici che avevano potuto limitare la responsabilità patrimoniale dell’ente ecclesiastico per i debiti relativi alla gestione di opere economiche in forma di impresa (al di fuori del ramo Onlus), escludendo che coinvolgesse anche i beni immobili utilizzati per le sole attività di religione o culto47.

Ora, invece, la decisione di istituire un ramo ha un effetto anche sui diritti dei terzi in quanto il legislatore ha positivamente stabilito che:

  • per le obbligazioni contratte in relazione alle attività di cui agli articoli 5 e 6 [art. 2, Decreto Impresa Sociale], gli enti religiosi civilmente riconosciuti rispondono nei limiti del patrimonio destinato”;
  • Gli altri creditori dell’ente religioso civilmente riconosciuto non possono far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo svolgimento delle attività di cui ai citati articoli 5 e 6” [art. 2, Decreto Impresa Sociale].

Questa novità sollecita alcuni interrogativi che non possono essere elusi, in quanto gli amministratori delle opere degli enti religiosi devono tenerne conto nei percorsi decisionali circa la loro futura qualificazione.

a) Norma novativa retroattiva?

Mancano gli elementi per qualificare l’intervento del legislatore come interpretativo; tuttavia, non è chiusa la questione circa gli eventuali effetti retroattivi della nuova disciplina48. Considerato che non essendo ancora attivato il RUNTS non esistono rami di Terzo Settore, mentre è già possibile costituire rami d’Impresa Sociale (con il deposito del regolamento nel Registro delle Imprese), solo questi ultimi dovrebbero misurarsi con la segregazione reale dei beni che hanno attribuito al patrimonio destinato del ramo d’Impresa Sociale prima della novella legislativa.

b) Norma che si applica anche in riferimento ai crediti che si sono generati prima della costituzione del ramo?

Non raramente gli enti religiosi costituiscono il ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale non per dare inizio ad una nuova attività ma per applicare la disciplina delle Riforma ad opere già in essere. In questo caso si potrebbe porre la questione se la segregazione dei beni del patrimonio destinato si applica anche in riferimento ai crediti sorti prima della costituzione del ramo ma in relazione alle opere poi inserite nel ramo. In questa ipotesi la segregazione è perfetta in quanto i beni attribuiti nel patrimonio destinato sono riservati ai crediti relativi alle opere sorti anche prima della costituzione del ramo e non solo a quelli sorti successivamente. Al contrario, l’ipotesi che la segregazione abbia effetto solo per i crediti sorti successivamente alla istituzione del ramo creerebbe un doppio regime: infatti, i beni del patrimonio destinato sarebbero

  • a disposizione per onorare tutti i crediti sorti antecedentemente alla costituzione del ramo,
  • riservati ai soli crediti delle opere del ramo sorti successivamente alla sua costituzione.

A margine di questo tema emerge anche un’altra questione, non teorica ma operativa, in quanto sarà necessario distinguere le ragioni di credito del medesimo creditore, dato che alcuni potrebbero essere riferiti alle attività estranee al ramo e altri alle opere poi inserite nel ramo49.

Per risolvere questi interrogativi occorre tener presente che diversamente dall’art. 2447-quinquies50 il legislatore ha definito che la segregazione è perfetta e bidirezionale e, dunque, l’ente religioso non potrebbe evitare la necessità di operare tale analisi e trattare diversamente i crediti.

c) La congruità del patrimonio destinato.

Prima della novità introdotta dalla conversione del D.L. n. 77/2021 non si poneva la questione della congruità del patrimonio destinato, né la questione di un valore minimo in quanto, come detto, tale istituto aveva la sola funzione di identificare i beni che potevano godere della normativa promozionale e dovevano essere assoggettati ai relativi vincoli. Ora, invece, determinando una riduzione dei beni sui quali i creditori possono rivalersi51, occorre riflettere circa la possibilità di costituire patrimoni destinati “negativi”. Se si considera che le opere economiche sono caratterizzate dalla continua modifica del patrimonio, sia dal punto di vista qualitativo (quali beni), che dal punto di vista quantitativo (il loro valore), potrebbe anche ammettersi che il patrimonio destinato al ramo non sia in grado, dal punto di vista quantitativo, di soddisfare tutti i crediti che sussistono all’atto della costituzione, confidando nella capacità dell’attività di generare avanzi di gestione che accresceranno tale patrimonio. Si tratta, però, di una soluzione che non può prescindere dalla disponibilità dei creditori.

Merita anche di essere esaminata l’ipotesi per cui alcuni beni sono inseriti nel patrimonio destinato non in quanto “utili” e utilizzati dalle relative opere, ma solo per dare ad esso valore positivo e, così, assicurare le ragioni dei creditori. In questo caso tali beni divengono indisponibili per le attività estranee al ramo.

d) Quale spazio per le ragioni dei creditori, istituzionali e del ramo?

Mentre gli art. 2447-ter, quater e quinquies hanno previsto modalità per consentire ai creditori dell’ente di verificare l’eventuale pregiudizio ai loro diritti in seguito alla costituzione del patrimonio destinato, l’art. 66 del D.L. n. 77/2021 come integrato in sede di conversione, nulla prevede. A tal proposito non può essere trascurato il fatto che gli adempimenti prescritti per la pubblicità legale delle vicende relative agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti sono assai meno pregnanti rispetto alle società52. Inoltre, la fruibilità dell’accesso ai Registri delle Persone Giuridiche è condizionata dalla presenza di soli documenti cartacei (e non vi è grande disponibilità di sistemi che consentano l’accesso telematico al Registro prefettizio).

e) Le modifiche del patrimonio destinato.

La preoccupazione del legislatore nell’ammettere la possibilità che un ente possa aderire alla Riforma “limitatamente” ha come primo oggetto, anzitutto, la perimetrazione dei benefici e delle agevolazioni alle sole attività di interesse generale e delle attività diverse inserite nel ramo. Per questo motivo è prescritta l’adozione di un Regolamento mediante il quale l’ente religioso (e il suo organo amministrativo) si obbliga all’osservanza del co. 1 dell’art. 8 del Codice, e dell’art. 3 del Decreto sull’Impresa Sociale, che sono uno dei cardini dell’impianto normativo del Terzo Settore53. A corollario di questo principio vi è il vincolo di destinazione per il patrimonio dell’ente di Terzo Settore e dell’Impresa Sociale nell’ipotesi di perdita/rinuncia di tale qualifica54.

Prima della introduzione della segregazione reale non vi era dubbio che l’ente religioso potesse in corso d’opera incrementare il patrimonio destinato del ramo attingendo ai beni che erano rimasti nella libera disponibilità per le opere di religione o culto e per tutte quelle non inserite nel ramo55. Ora la questione del transito di beni dal patrimonio istituzionale al patrimonio destinato potrebbe essere oggetto di revisione e approfondimento in quanto l’art. 66 del D.L. n. 77/2021 ha introdotto anche un vincolo del patrimonio istituzionale a beneficio delle ragioni di tutti i creditori estranei al ramo. Difficile, però, immaginare che l’ente religioso possa essere così ingessato da non poter accrescere il patrimonio destinato attingendo al patrimonio istituzionale; tuttavia, la segregazione reale delle due parti del patrimonio dell’unico ente religioso richiede in modo ancor più pressante che la gestione dell’organo amministrativo sia accorta e prudente, quale è quella del buon padre di famiglia, anche alla luce della normativa sulla responsabilità degli amministratori degli enti di Terzo Settore56. Questo tema interseca il principio del rispetto “della struttura e della finalità dell’ente religioso” e per questo dovrà essere analizzato … con il cesello del diritto ecclesiastico e non solo con quello di uno o dell’altro ordinamento, dato che tanto la confessione religiosa, quanto lo Stato hanno ragioni meritevoli di attenzione57.

Alla luce di questi temi, l’amministratore dell’ente religioso che intende valutare la costituzione del ramo dovrà considerare anche elementi ed effetti che finora non avevano rilevanza. Considerato che tale decisione non determina solo vincoli per la libera disponibilità dei beni e delle opere che saranno inserite nel ramo, ma incide anche sui diritti dei terzi, è comprensibile che tutti i soggetti coinvolti nella decisione attendano di avere certezza in merito ai profili più significativi.

Così, questa novità più che consentire immediatamente l’ingresso in un porto sicuro, parrebbe rendere necessario un ulteriore tratto di navigazione in mare aperto58 per misurare gli effetti – non solo quelli immediati – e identificare la decisione più opportuna per l’ente religioso civilmente riconosciuto che intende approdare all’interno della Riforma del Terzo Settore con alcune delle attività di interesse generale che già gestisce.

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Per Riforma del Terzo Settore si intendono i decreti legislativi n. 112 del 3 luglio 2017, sull’Impresa Sociale, e n. 117 del 3 luglio 2017, sul Terzo Settore (d’ora in poi anche: Codice di Terzo Settore). Per una presentazione ampia della disciplina del Ramo introdotta dalla Riforma (non aggiornata al D.L. n. 77/21): Simonelli L., Gli enti religiosi civilmente riconosciuti e la riforma del terzo settore, in Fici A. (a cura di), La riforma del terzo settore e dell’impresa sociale. Una introduzione, Napoli, 2018, 307 ss.; Id., Gli enti ecclesiastici fra Codice civile diritto canonico e Riforma del Terzo Settore, in Terzo settore, non profit e cooperative, 2018/3; Id., L’impatto della Riforma del Terzo settore sugli enti religiosi: prospettive, vantaggi e criticità, in Terzo settore, non profit e cooperative, 2019/3; Id., Enti religiosi e Terzo Settore orizzonti ravvicinati con l’avvio del RUNTS, approfondimento in Ratio Quotidiano del 24 maggio 2021.

[2]

Art. 66, D.L. n. 77/21, convertito con modifiche dalla L. n. 108 del 29 luglio 2021:
“01. All’ articolo 4, comma 3, del codice del Terzo settore, di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al primo periodo, dopo le parole: “delle attività di cui all’articolo 5,” sono inserite le seguenti: “nonché delle eventuali attività diverse di cui all’articolo 6”; b) sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: “I beni che compongono il patrimonio destinato sono indicati nel regolamento, anche con atto distinto ad esso allegato. Per le obbligazioni contratte in relazione alle attività di cui agli articoli 5 e 6, gli enti religiosi civilmente riconosciuti rispondono nei limiti del patrimonio destinato. Gli altri creditori dell’ente religioso civilmente riconosciuto non possono far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo svolgimento delle attività di cui ai citati articoli 5 e 6”. 02. All’ articolo 32, comma 4, del codice del Terzo settore, di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: “Ai fini del calcolo della quota percentuale di cui al comma 2 non sono computati i gruppi comunali, intercomunali e provinciali di protezione civile”. 1. All’articolo 101, comma 2, del codice del Terzo settore, di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, le parole: ”31 maggio 2021” sono sostituite dalle seguenti: ”31 maggio 2022”. 1-bis. All’ articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 112, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: “I beni che compongono il patrimonio destinato sono indicati nel regolamento, anche con atto distinto ad esso allegato. Per le obbligazioni contratte in relazione alle attività di cui all’articolo 2, gli enti religiosi civilmente riconosciuti rispondono nei limiti del patrimonio destinato. Gli altri creditori dell’ente religioso civilmente riconosciuto non possono far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo svolgimento delle attività di cui al citato articolo 2 […]”.

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La configurazione del ramo Onlus dell’ente ecclesiastico è stata completata dal § 11.1 della Circolare del MEF n. 168/E del 26 giugno 1998 che ha introdotto l’elemento del “regolamento”.

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Questo parere consultivo è stato chiesto dal Governo prima di adottare i Decreti Legislativi n. 112 e 117 del 2017, ai sensi dell’art. 20, co. 3, lett. a), della legge 15 marzo 1997, n. 59.

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Consiglio di Stato: “L’articolo 4, comma 3, prevede che solo alle confessioni religiose che hanno stipulato patti, accordi o intese con lo Stato si applicano (limitatamente allo svolgimento delle attività di cui all’articolo 5) le disposizioni del Codice del terzo settore. La norma potrebbe profilare una questione di legittimità costituzionale. Difatti, secondo la Consulta: «[…] nel sistema costituzionale, le intese non sono una condizione imposta dai pubblici poteri allo scopo di consentire alle confessioni religiose di usufruire della libertà di organizzazione e di azione, o di giovarsi dell’applicazione delle norme, loro destinate, nei diversi settori dell’ordinamento. A prescindere dalla stipulazione di intese, l’eguale libertà di organizzazione e di azione è garantita a tutte le confessioni dai primi due commi dell’articolo 8 Cost. (sentenza n. 43 del 1988) e dall’articolo 19 Cost. che tutela l’esercizio della libertà religiosa anche in forma associata. La giurisprudenza di questa Corte è anzi costante nell’affermare che il legislatore non può operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese (sentenze n. 346 del 2002 e n. 195 del 1993)» (da ultimo, sentenza della Corte n. 52 del 2016). La Commissione suggerisce ‒ onde evitare possibili criticità ‒ di riconsiderare la disposizione, ad esempio modificandola come segue: «Agli enti religiosi civilmente riconosciuti […] le norme del presente decreto si applicano …»”.

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L’art. 66 del D.L. n. 77/21, modificato in sede di conversione in legge, ha esplicitato che il ramo di Terzo Settore dell’ente religioso può includere anche le attività diverse di cui all’art. 6 del Codice.

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La questione della nuova categoria giuridica degli “enti religiosi” sarà affrontata più avanti.

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Queste sono le confessioni religiose che hanno sottoscritto patti, accordi o intese con lo Stato italiano: la Chiesa Cattolica, la Tavola valdese, le Assemblee di Dio in Italia, l’Unione delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° giorno, l’Unione Comunità Ebraiche in Italia, l’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia, la Chiesa Evangelica Luterana in Italia, la Sacra Arcidiocesi ortodossa d’Italia ed Esarcato per l’Europa Meridionale, la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni, la Chiesa Apostolica in Italia, l’Unione Buddista italiana, l’Unione Induista Italiana, l’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, l’Associazione Chiesa d’Inghilterra (Governo italiano, http://presidenza.governo.it/USRI/confessioni/intese_indice.html – 22 luglio 2021).

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Seppur con sfumature diverse, gli accordi tra lo Stato e le confessioni religiose esigono che in occasione del riconoscimento del carattere “ecclesiastico” dell’ente occorre che sussista la natura di “religione o culto” manifestata proprio dallo svolgere alcune attività che sono caratterizzate dalla natura religiosa o cultuale. Come esempio si vedano gli artt. 2, 15, 16 e 19 della legge concordataria n. 222/85 “Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi”, e gli artt. 14, 15 e 19 della L. n. 30 luglio 2012, n. 126 “Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e la Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia ed Esarcato per l’Europa Meridionale, in attuazione dell’articolo 8, terzo comma, della Costituzione”.

[10]

L’art. 2, co. 3, L. n. 222/85 esplicita che “L’accertamento di cui al comma precedente è diretto a verificare che il fine di religione o di culto sia costitutivo ed essenziale dell’ente, anche se connesso a finalità di carattere caritativo previste dal diritto canonico”.

[11]

Occorre sottolineare che determinante non è il mero fatto di svolgere un’attività di religione o culto oppure che essa sia prevista tra le attività statutarie, quanto la sussistenza di obbligo statuito dalla legge (in sede di ratifica degli accordi con la confessione religiosa) a svolgere tale attività. Tant’è che il mero fatto di svolgere un’attività che può essere qualificata di religione o culto (si veda il caso di un’associazione costituita ai sensi del Libro I del codice civile che ha come fine la promozione della fede cattolica attraverso un’attività simile a quella di catechesi) non conferisce il diritto ad ottenere la qualifica di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto.

[12]

Il divieto per gli ETS e le Imprese sociali di svolgere attività non incluse tra quelle di interesse generale (fatte salve le “attività diverse” di cui all’art. 6 del Codice del Terzo Settore) è uno dei cardini della Riforma ed è esplicitato tanto dal Decreto sull’Impresa Sociale: “Art. 1. Nozione e qualifica di impresa sociale. 1. Possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutti gli enti privati, inclusi quelli costituiti nelle forme di cui al libro V del codice civile, che, in conformità alle disposizioni del presente decreto, esercitano in via stabile e principale un’attività d’impresa di interesse generale […]”, quanto dal Codice del Terzo Settore: “Art. 4. Enti del Terzo settore. 1. Sono enti del Terzo settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale […]”. Occorre segnalare che i decreti legislativi richiedono che gli ETS e le Imprese sociali svolgano attività di interesse generale “in via principale” e ciò impedisce agli enti delle confessioni religiose che hanno stipulati patti, accordi o intese di assumere a tutto tondo la qualifica di ETS o d’Impresa sociale in quanto per normativa pattizia la loro attività principale deve essere quella di “religione o culto”.

[13]

Di per sé non è sufficiente che l’ente sia tenuto ex lege a svolgere attività che non rientrano nel novero di quelle di interesse generale: occorre, infatti, che per legge non sia ad esso vietato svolgere attività di interesse generale di Terzo Settore.

[14]

Anche il notaio chiamato a dare forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata al regolamento del ramo adottato dall’ente che “si qualifica” religioso potrebbe sollevare dubbi circa l’idoneità del soggetto ad istituire il ramo.

[15]

Ad essi, come precisato sopra, potranno aggiungersi anche quegli enti civilmente riconosciuti per i quali si riscontrerà la qualifica religiosa.

[16]

In Italia sono stati riconosciuti oltre 35.000 enti ecclesiastici promossi dalla Chiesa Cattolica, cui devono aggiungersi quelli delle 12 confessioni religiose che hanno stipulato patti con lo Stato e quelli riconosciuti ai sensi della L. n. 1159/29).

[17]

Il Censimento permanente delle Istituzioni non profit promosso dall’Istat segnala che operano in Italia 14.380 istituzioni a carattere religioso, senza considerare quelle che svolgono solo attività religiosa (fonte: Report Istat del 20 dicembre 2017, relativo ai dati del 2015). Il report dell’Istat pubblicato l’11 ottobre 2018 e relativo ai dati 2016 indica che le istituzioni “impegnate nelle attività della religione” sono 16.455. Dunque, la qualifica “religiosa” di un’istituzione che opera nel sociale sembra essere un criterio avvolto da una certa ambiguità di significati.

[18]

La L. n. 222/85, “Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia”, emanata di comune accordo dalla Chiesa Cattolica e dalla Stato italiano”, così perimetra – “Agli effetti delle leggi civili” – le attività di natura prettamente religiose: “Agli effetti delle leggi civili si considerano comunque: a) attività di religione o di culto quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana”.

[19]

Art. 5, L. n. 848/29, “Disposizioni sugli enti ecclesiastici e sulle amministrazioni civili dei patrimoni destinati a fini di culto”. L’art. 7 dell’Accordo di revisione del Concordato Lateranense sottoscritto nel 1984 – L. n. 121/85 – conferma ed esplicita la possibilità di svolgere le attività diverse da quelle di religione e culto: “1. La Repubblica italiana, richiamandosi al principio enunciato dall’articolo 20 della Costituzione, riafferma che il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di una associazione o istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività. […] 3. Agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione. Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime”.

[20]

La terminologia utilizzata in sede di revisione del Concordato Lateranense e nella legge concordataria n. 222/85 (attività di religione o culto, attività diverse, fine di religione o culto, fine costitutivo ed essenziale) è ripresa anche dagli accordi tra le altre confessioni religiose e lo Stato. Onde evitare equivoci, le attività diverse del Concordato e degli Accordi di altre confessioni religiose sono tutt’altro rispetto alle “attività diverse” di cui all’art. 6 del Codice del Terzo Settore e del D.M. n. 107 del 19 maggio 2021.

[21]

Art. 29, L. n. 810/29 “Esecuzione del Trattato, dei quattro allegati annessi e del Concordato, sottoscritti in Roma tra la Santa Sede e l’Italia, l’11 febbraio 1929”: “h) Ferme restando le agevolazioni tributarie già stabilite a favore degli enti ecclesiastici dalle leggi italiane fin qui vigenti, il fine di culto o di religione è a tutti gli effetti tributari, equiparato ai fini di beneficenza e di istruzione”.

[22]

Art. 7, L. n. 121/85: “3. Agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione […]”.

[23]

Il contenuto delle norme fiscali per gli enti aventi fine di beneficienza ed istruzione è definito unilateralmente dallo Stato … ma automaticamente si applica anche agli enti ecclesiastici (Art. 7, L. n. 121/85).

[24]

Certamente sono mutate le leggi quadro (dalla Riforma del 1951 a quella del 1972/73 a quella del 1986), ma assai più hanno inciso e stanno incidendo la prassi ed alcune decisioni giurisprudenziali la cui logica, talvolta, non appare cristallina.

[25]

Clementi P., La fiscalità dell’ente ecclesiastico, in L’ente ecclesiastico a trent’anni dalla revisione del Concordato (a cura di Clementi P. – Simonelli L.), Giuffrè, 2015, 303.

[26]

La normativa fiscale di base per gli enti religiosi diversi da quelli ecclesiastici è costituita solo dalla normativa sugli enti non commerciali, fino a quando non dovessero svolgere in modo prevalente attività commerciali che comporta l’assunzione della natura di enti commerciali a tutto tondo ai sensi dell’art. 73, co, 1, lett. b) e dell’art. 149 del DPR n. 917/86.

[27]

L’esempio si riferisce agli enti ecclesiastici della Chiesa Cattolica, essendo l’esperienza giuridica maggiormente normata e diffusa.

[28]

Come già precisato, questa è l’unica sfera che deve necessariamente sussistere in quanto – per legge – conditio sine qua non per ottenere e mantenere la qualifica giuridica di ente ecclesiastico.

[29]

Per la Chiesa Cattolica (ed i suoi enti ecclesiastici) si tratta di un vero e proprio ordinamento giuridico originario: l’ordinamento canonico costituito, anzitutto, dal Codice di Diritto Canonico del 1983.

[30]

L’ente ecclesiastico concordatario è tale in quanto il suo fine (manifestato dalle attività) di religione o culto è “costitutivo ed essenziale […] anche se connesso a finalità di carattere caritativo previsto dal diritto canonico” (art. 3, co. 3, L. n. 222/85). Qualora il Ministero dell’Interno dovesse rilevare che tale fine non è più “costitutivo ed essenziale” dovrebbe far venir meno la qualifica di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto (come previsto dal co. 2, art. 19, L. n. 222/85). La sussistenza del fine in modo “costitutivo ed essenziale” non è, però, verificata con i criteri della “prevalenza” di cui al co. 2, art. 149 del TUIR ma con il criterio del co. 2, art. 2, L. n. 222/85 che rinvia all’elenco dell’art. 16. Occorre altresì considerare che il carattere “costitutivo ed essenziale” del fine di religione o culto dipende anche (per gli enti della Chiesa Cattolica) dal tipo e dalla natura della persona giuridica canonica pubblica, in quanto diversa è la “sostanza” della diocesi, della parrocchia, dalla casa religiosa, del Seminario, dalla fondazione di culto, dall’associazione pubblica di fedeli. In sintesi, la mancanza sopravvenuta del fine di religione o culto “costitutivo ed essenziale” non dipende dal fatto che l’ente ecclesiastico svolga un’attività commerciale “prevalente” ai sensi del co. 2, art. 149 del TUIR. è, infatti, fisiologico che un ente ecclesiastico conservi il fine di religione o culto “costitutivo ed essenziale” e nel contempo svolga un’attività commerciale che per i criteri dell’art. 149 è considerata prevalente: è il caso di un istituto di vita consacrata religiosa che anche grazie all’azione dei propri consacrati si prende cura delle persone (carisma dell’Istituto e “luogo” per la santificazione dei membri) nella forma di un’attività commerciale di casa di cura. Anche per questo motivo è stato introdotto il co. 4, art. 149 del TUIR (“Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano agli enti ecclesiastici riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili ed alle associazioni sportive dilettantistiche”). Sul tema si veda un testo che potrebbe apparire datato (edito nel 1999), ma che ancor oggi è in grado di illustrare in modo puntuale e chiaro le norme che rendono ragione della natura non commerciale ope legis dell’ente ecclesiastico, e gli strumenti giuridici che consentono di porre rimedio a situazioni anomale o, addirittura, patologiche (anzitutto per l’ordinamento canonico, prima ancora che per quello statale): Clementi P., Colombo G., Redaelli C.M., Gli enti religiosi. Natura giuridica e regime tributario. Le attività istituzionali e commerciali. La contabilità e il bilancio, Il Sole 24 Ore, 1999, 154 ss.

[31]

In questo sostantivo non vi è alcuna sfumatura negativa, ma solo il riflesso della ricchezza della sua azione.

[32]

Si tratta di enti in senso stresso strumentali quanto la compagine sociale è costituita da un unico o da più enti ecclesiastici oppure quando il consiglio direttivo di una fondazione è nominato dal legale rappresentante dell’ente ecclesiastico.

[33]

Questo principio si rinviene, per esempio, nell’art. 7, L. n. 121/85 (Revisione del Concordato Lateranense): “2. Ferma restando la personalità giuridica degli enti ecclesiastici che ne sono attualmente provvisti, la Repubblica italiana, su domanda dell’autorità ecclesiastica o con il suo assenso, continuerà a riconoscere la personalità giuridica degli enti ecclesiastici aventi sede in Italia, eretti o approvati secondo le norme del diritto canonico, i quali abbiano finalità di religione o di culto. Analogamente si procederà per il riconoscimento agli effetti civili di ogni mutamento sostanziale degli enti medesimi”; oppure nell’art. 21, L. n. 516/88 (Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del 7° giorno): “1. Altri enti costituiti nell’ambito delle Chiese cristiane avventiste, aventi sede in Italia, i quali abbiano fine di religione o di culto, possono essere riconosciuti come persone giuridiche agli effetti civili con decreto del Presidente della Repubblica, udito il parere del Consiglio di Stato”.

[34]

Per la Chiesa Cattolica la distinzione tra attività tipicamente religiose e attività sociali non è essenziale; si veda il can. 1254: “§2. I fini propri sono principalmente: ordinare il culto divino, provvedere ad un onesto sostentamento del clero e degli altri ministri, esercitare opere di apostolato sacro e di carità, specialmente a servizio dei poveri”. La questione è stata autorevolmente ripresa e sviluppata da Papa Benedetto XVI con il motu proprio “Intima Ecclesiae natura” (sul servizio della carità) dell’11 novembre 2021.

[35]

La struttura dell’ente ecclesiastica non è neutra rispetto ai fini e alle attività che svolgerà; al contrario è proprio elaborata per assicurare la massima custodia di entrambi i profili. Si veda il caso della parrocchia nella quale il parroco – pastore proprio della porzione di comunità diocesana – assume anche la funzione di legale rappresentante e amministratore unico; oppure il caso della casa religiosa nella quale il superiore religioso “governa” tanto le persone che la costituiscono, quanto i beni di cui la casa può servirsi per raggiungere i propri fini religiosi. Una fondazione, invece, oltre ad essere retta dal principio di assicurare una distinzione tra l’organo amministrativo (collegio) e il legale rappresentante (presidente), è organizzata per gestire beni e attività e non per prendersi cura delle persone.

[36]

Si deve ammettere che l’amministratore di una società strumentale o di una fondazione civile non possa essere chiamato a perseguire il fine di “religione o culto”, né ad assicurare il pieno svolgimento delle relative attività, perché altri sono i fini e le attività di questi enti.

[37]

Alcuni enti ecclesiastici della Chiesa Cattolica sono privi di uno statuto in quanto la loro struttura e le norme di funzionamento sono disciplinate dal Codice di Diritto Canonico.

[38]

È questo, in estrema sintesi, il significato dell’inciso “nel rispetto della finalità e della struttura dell’ente”.

[39]

Il principio di rispettare la struttura dell’ente religioso si declina diversamente in riferimento all’ente di cui si tratta. Per esempio, riguardo l’organo amministrativo della parrocchia o di una fondazione di culto: nella parrocchia l’amministratore è la persona del parroco, nella fondazione è un organo collegiale; ciò significa che imporre l’organo collegiale al ramo istituito da una parrocchia non rispetta la sua struttura; al contrario rispetta la struttura di una fondazione di culto.

[40]

Il principio delle best practice – combinato con la regola “mutatis mutandis” – consente ad altri enti di adottare le soluzioni che si sono dimostrate virtuose in base ad esperienze precedenti. Ciò che può distinguere il virtuoso riferimento ad una best practice dalla mera adozione di un testo “copia e incolla” è, anzitutto, la disponibilità di una spiegazione delle scelte alla base delle singole clausole adottate dal modello di riferimento.

[41]

Si veda, per esempio, il caso dell’organo di controllo (art. 30, Codice) e dell’organismo cui affidare questa funzione all’interno del ramo e limitatamente alla attività sociali in esso inserite, tenuto conto che per norma canonica universale né la parrocchia, né la diocesi, né la casa/provincia religiosa prevedono tale organismo/funzione interna.

[42]

Il D.Lgs. n. 460/97 non prescriveva anche la costituzione di un patrimonio destinato, limitandosi a chiedere la tenuta di scritture contabili separate. Assieme al regolamento, questo adempimento ha assicurato per oltre vent’anni che i benefici previsti per le Onlus fossero limitati alle attività del ramo Onlus e non si estendessero anche alle attività rimaste esterne al ramo.

[43]

Art. 8, Codice di Terzo Settore e art. 3 Decreto sull’Impresa Sociale.

[44]

Artt. 9 e 50, Codice di Terzo Settore e art. 12 Decreto sull’Impresa Sociale. L’ultimo paragrafo del co. 5 dell’art. 12 costituisce un interrogativo per l’interprete in quanto il dato letterale esclude che gli enti religiosi siano tenuti a devolvere il patrimonio residuo del ramo ad altri enti di Terzo Settore (incluse le Imprese Sociali) mentre tutti le altre Imprese Sociali sono tenute a tale devoluzione (e il Decreto n. 112/17 non limita l’obbligo al solo patrimonio incrementale come, invece, previsto dall’art. 50 del Codice di Terzo Settore).

[45]

L’interrogativo trovava spazio in quanto l’art. 10 del Codice del Terzo Settore utilizza la medesima espressione (cui aggiunge, però, l’inciso “ad uno specifico affare” e il riferimento agli artt. 2447-bis) per prevedere esplicitamente che “Gli enti del Terzo settore dotati di personalità giuridica ed iscritti nel registro delle imprese possono costituire uno o più patrimoni destinati ad uno specifico affare ai sensi e per gli effetti degli articoli 2447-bis e seguenti del codice civile”.

[46]

Perrone A., Gli enti ecclesiastici e il diritto del Terzo Settore, in Terzjus, 21 novembre 2020; Bettetini A., Riflessi canonistici della riforma del Terzo Settore, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, (rivista telematica www.statoechiese.it), n. 20 del 2018, p. 11; Floris P., Enti religiosi e la riforma del Terzo settore: verso nuove partizioni nella disciplina degli enti religiosi, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (rivista telematica www.statoechiese.it), n. 3 del 2018, p. 18; Cavana P., Enti ecclesiastici e riforma del Terzo settore. Profili canonistici, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, (rivista telematica www.statoechiese.it), n. 22 del 2018, p. 11; Consorti P., L’impatto del nuovo Codice del Terzo settore sulla disciplina degli enti religiosi, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, (rivista telematica www.statoechiese.it), n. 4 del 2018, p. 10; Consorti P., Questioni di diritto patrimoniale canonico. Alcune riflessioni a partire dagli adempimenti conseguenti alla riforma italiana in materia di Terzo settore, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, (rivista telematica www.statoechiese.it), n. 10 del 2019, p. 27; Perego A., Il ramo d’impresa sociale degli enti religiosi civilmente riconosciuti, in Cooperative, Enti non profit, n. 10/2018; Gianfreda A, e Abu Salem M. (a cura di), Enti religiosi e riforma del Terzo settore, Libellula Edizioni, 2018.

[47]

Per una presentazione del tema in merito alla gestione delle opere degli enti ecclesiastici e la loro soggezione alle procedure concorsuali si veda Celli A., La prevenzione e la gestione delle criticità. Le procedure concorsuali, in L’ente ecclesiastico a trent’anni dalla revisione del Concordato (a cura di Clementi P. – Simonelli L.), Giuffrè, 2015, 287, e Varalda C.E., Enti ecclesiastici cattolici e procedure concorsuali. La rilevanza del patrimonio stabile nella gestione della crisi, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, (rivista telematica) 28/2015.

[48]

Sul tema si veda quanto recentemente esposto da Gavina L., L’interpretazione autentica nella giurisprudenza costituzionale. Da persistente causa di contrasto a fonte di dialogo potenziale tra Corte Costituzionale e Corte EDU, in Nomos (rivista telematica) 2/2021.

[49]

Se per i fornitori di beni e servizi questa distinzione può essere facilmente operata, per le operazioni di finanziamento potrebbe non essere semplice distinguere quali crediti erano nati per le attività che non sono state inserite nel ramo e quali per le opere poi inserite.

[50]

Art. 2447-quinquies: “Decorso il termine di cui al secondo comma del precedente articolo ovvero dopo l’iscrizione nel registro delle imprese del provvedimento del tribunale ivi previsto, i creditori della società non possono far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo specifico affare né, salvo che per la parte spettante alla società, sui frutti o proventi da esso derivanti. Qualora nel patrimonio siano compresi immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri, la disposizione del precedente comma non si applica fin quando la destinazione allo specifico affare non è trascritta nei rispettivi registri.
Qualora la deliberazione prevista dall’articolo 2447-ter non disponga diversamente, per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare la società risponde nei limiti del patrimonio ad esso destinato. Resta salva, tuttavia, la responsabilità illimitata della società per le obbligazioni derivanti da fatto illecito. Gli atti compiuti in relazione allo specifico affare debbono recare espressa menzione del vincolo di destinazione; in mancanza ne risponde la società con il suo patrimonio residuo”.

[51]

Fatto salvo quanto sopra esposto circa gli eventuali effetti retrattivi della modifica e della sua applicabilità anche ai crediti sorti prima di costituire il ramo, la decisione dell’ente religioso di dar vita al ramo determina sempre una riduzione delle garanzie dei creditori in quanto (i) non potranno rivalersi su alcuni beni, (ii) non è indifferente per la possibilità di soddisfare le proprie ragioni creditorie che i beni siano liquidi oppure immobilizzati e con mercato scarso (quali sono alcuni immobili degli enti religiosi), infine (iii) in alcuni casi dovrà essere affrontata la situazioni delle garanzie reali (che in astratto potrebbero anche costituire una modalità per eludere la nuova normativa).

[52]

Gli enti ecclesiastici devono essere iscritti al Registro delle Persone Giuridiche tenuto dalla Prefettura e devono mantenere aggiornate alcune notizie e dati, come previsto dall’art. 5, L. n. 222/85: “Gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti devono iscriversi nel registro delle persone giuridiche. Nel registro, con le indicazioni prescritte dagli articoli 33 e 34 del codice civile, devono risultare le norme di funzionamento e i poteri degli organi di rappresentanza dell’ente. Agli enti ecclesiastici non può comunque essere fatto, ai fini della registrazione, un trattamento diverso da quello previsto per le persone giuridiche private. I provvedimenti previsti dagli articoli 19 e 20 delle presenti norme sono trasmessi d’ufficio per l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche”.

[53]

Co. 1, art. 4, L. n. 106/16: “e) prevedere il divieto di distribuzione, anche in forma indiretta, degli utili o degli avanzi di gestione e del patrimonio dell’ente, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 6, comma 1, lettera d)”.

[54]

Il tema è delicato: il Codice di Terzo Settore prevede che il vincolo di destinazione riguardi solo il patrimonio incrementale (definizione per un verso chiara, ma che in sede applicativa potrebbe rivelarsi essere un percorso non del tutto agevole) mentre il Decreto sull’Impresa Sociale non presenta questo limite; inoltre riguardo la devoluzione del patrimonio del ramo d’Impresa Sociale la norma sembra esonerare l’ente religioso da qualsiasi vincolo, mentre la norma del Codice limita il vincolo al solo patrimonio destinato (come ci si aspetta che sia).

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Si intende che questa modifica è unidirezionale (dal patrimonio estraneo al ramo al patrimonio destinato) e non riguarda la modifica contraria, cioè una ipotesi di riduzione del patrimonio destinato a beneficio del patrimonio cosiddetto istituzionale.

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Si veda Sepio G., Amministratori del terzo settore, principi guida del Codice civile, in Il Sole 24 ore, 12 agosto 2021.

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Lo Stato ha ritenuto decisivo assicurare la tutela dei terzi e dei creditori anche in riferimento agli enti non profit, oltre che agli imprenditori. In questa prospettiva è la previsione dell’art. 3, co. 1, lett. b) della L. n. 106/16: “disciplinare, nel rispetto del principio di certezza nei rapporti con i terzi e di tutela dei creditori, il regime di responsabilità limitata degli enti riconosciuti come persone giuridiche e la responsabilità degli amministratori, tenendo anche conto del rapporto tra il patrimonio netto e il complessivo indebitamento degli enti medesimi”. In questa direzione vi è anche la previsione dell’art. 28 del Codice: “Gli amministratori, i direttori generali, i componenti dell’organo di controllo e il soggetto incaricato della revisione legale dei conti rispondono nei confronti dell’ente, dei creditori sociali, del fondatore, degli associati e dei terzi, ai sensi degli articoli 2392, 2393, 2393-bis, 2394, 2394-bis, 2395, 2396 e 2407 del codice civile e dell’articolo 15 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 39, in quanto compatibili” (incisivo il richiamo dell’art. 2394 del codice civile: “Gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. L’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. La rinunzia all’azione da parte della società non impedisce l’esercizio dell’azione da parte dei creditori sociali. La transazione può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l’azione revocatoria quando ne ricorrono gli estremi”). Di contro, la responsabilità degli amministratori verso l’ente religioso è questione che dovrebbe essere di stretta competenza del solo ordinamento religioso (si veda, per esempio, quanto previsto dalla Chiesa Cattolica al can. 1281, § 3: “La persona giuridica non è tenuta a rispondere degli atti posti invalidamente dagli amministratori, se non quando e nella misura in cui ne ebbe beneficio; la persona giuridica stessa risponderà invece degli atti posti validamente ma illegittimamente dagli amministratori, salva l’azione o il ricorso da parte sua contro gli amministratori che le abbiano arrecato danni”).

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La costituzione di rami di Terzo Settore o d’Impresa Sociale potrebbe misurarsi con tempi allungati proprio in attesa che vi sia la necessaria chiarezza soprattutto per poter “abbinare” con sicurezza i diversi beni dell’ente ai debiti cui saranno riservati. La novità apportata dall’art. 66 potrebbe anche comportare la necessità di nuove verifiche e riflessioni in capo alle autorità ecclesiastiche della Chiesa Cattolica chiamate ad autorizzare la costituzione del ramo, ai sensi dei cann. 638, 1281 e 1291-1295. Certamente gli enti religiosi possono costituire enti civili strumentali per la gestione delle attività di interesse generale (ai quali far acquisire la qualifica di Ente di Terzo Settore o d’Impresa Sociale), senza dover affrontare le questioni evocate nel presente contributo; tuttavia la maggior semplicità di quest’ultima via non può essere ragione dirimente per evitare di affrontare le questioni sottostanti alla costituzione di un ramo di Terzo Settore o d’Impresa Sociale, se non altro in quanto – per gli enti della Chiesa Cattolica – i beni e le attività attribuite ad un ente civile sono sottratte alla puntuale vigilanza canonica delle autorità ecclesiastiche in quanto non più “beni ecclesiastici”.

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