[di Gabriele Sepio, pubblicato in «Il Sole 24 Ore» di domenica 31 marzo 2024]
Il volontariato aziendale trova nelle regole fiscali un inedito sostegno. Sono sempre di più le imprese che decidono di donare tempo e competenze professionali dei propri dipendenti a favore degli enti del Terzo settore. Per il sistema sociale si tratta di un valore tutto ancora da misurare ma certamente di grande impatto. Arricchente per chi dona e per chi riceve con una forte integrazione di competenze e sensibilità tra profit e non profit. Per il fisco tuttavia, seguendo le regole ordinarie, si tratta di costi, quelli del lavoro, che finirebbero per esulare dal contesto imprenditoriale con conseguente perdita della deducibilità. Proprio su questo aspetto arriva una nuova forma di sostegno fiscale che inverte i parametri legati alla deducibilità dei costi e all’inerenza delle spese. Anticipando infatti il trend del mercato che porta le imprese ad investire sempre di più nei parametri Esg della sostenibilità (ambiente, sociale e governance), il legislatore tributario ha da tempo lanciato un segnale chiaro; il costo del lavoro impegnato nel volontariato diventa deducibile perché l’impresa è parte di un ecosistema sociale e l’impegno a favore della collettività va premiato rendendolo entro certi limiti deducibile. Dopotutto questo riconoscimento di una nuova forma di “inerenza circolare” favorisce innovative forme di solidarietà e soprattutto nuove modalità erogative. A differenza di chi dona denaro, le imprese che scelgono di donare forza lavoro creano un legame stabile con gli enti non profit destinatari rafforzando i rapporti sociali e le reti relazionali. Un valore che sfugge ai parametri del prodotto interno lordo ma che trova in un fisco che potremmo definire “buono” un valido alleato. Tutto questo parte da una quasi sconosciuta disposizione contenuta nel Tuir che consente di attrarre nel sistema di impresa voci collegate alle attività orientate esclusivamente al bene comune. Si tratta dell’art. 100, comma 1, lett. i) del Tuir grazie al quale il datore di lavoro può dedurre, nel limite del 5 per mille dell’ammontare complessivo, le spese relative all’impiego di lavoratori dipendenti per prestazioni di servizi erogate a favore di Onlus. Si concede, in altre parole, la possibilità alle imprese di poter destinare temporaneamente le competenze dei propri dipendenti a favore di specifici enti non profit senza dover rinunciare, nei limiti previsti dall’articolo 100 del Tuir, alla deduzione delle relative spese. Tutto questo a condizione che il dipendente, le cui prestazioni vengono fornite a favore dell’organizzazione non profit, vanti un contratto di lavoro a tempo indeterminato. L’incentivo fiscale, d’altro canto, sembra destinato a prendere sempre più piede se si tiene conto del fatto che la Riforma del Terzo settore punta ad ampliare il paniere dei soggetti verso cui le aziende possono rivolgere la propriaattenzione. Infatti, dopo l’autorizzazione Ue sui nuovi regimi fiscali e il venir meno qualsiasi tipologia di ente del Terzo settore (Ets) purché di natura non commerciale.
È in questo scenario che occorre valorizzare sempre più il “volontariato di competenza” come pratica in grado sì di apportare nuove skill al Terzo settore in una condizione di reciprocità. Perché quando si parla di volontariato di competenza non è il solo dipendente dell’azienda profit a mettere a disposizione il proprio bagaglio di conoscenze. Dopo una esperienza di volontariato in una delle tante organizzazioni del terzo settore che operano sui territori si torna sempre con nuovo bagaglio di sensibilità e di soft skill. Tutti aspetti che non possono che arricchire anche l’impresa che sceglie questa strada virtuosa.
Va detto poi che la formula del volontariato di competenza per essere sempre più appetibile può essere accostata a piani di welfare aziendali. In questo modo si garantisce la possibilità di cumulare tra loro le varie agevolazioni fiscali e previdenziali. Tali piani possono costituire uno strumento decisivo per la partecipazione delle aziende, mediante il coinvolgimento dei propri dipendenti.
L’introduzione del volontariato nei piani di welfare avrebbe il pregio di consentire alle imprese di raggiungere i parametri di sostenibilità rafforzando anche i rapporti con gli stessi lavoratori. Molto spesso, le imprese scelgono di investire su realtà non profit a favore delle quali i dipendenti prestano la propria opera volontaria spontaneamente a prescindere dall’avvio di progetti aziendali orientati in tal senso.
Ma la promozione del volontariato di competenza passa anche per i premi di produttività. Attraverso tali strumenti, il datore di lavoro condiziona l’erogazione di premi monetari fiscalmente agevolati al raggiungimento di obiettivi slegati da caratteri meramente economici bensì di natura solidaristica, idonei ad aumentare la responsabilità sociale dell’azienda.
Senza poi contare che la pratica del volontariato di competenza potrebberappresentare, come anticipato, un parametro per “misurare” la Csr delle imprese a fronte dell’attuazione di politiche aziendali con impatto sociale. Ai fini della rendicontazione, il volontariato di competenza, se qualificato come un indicatore idoneo ad adempiere a tali obblighi e a certificare l’adozione di pratiche responsabili, potrebbe trovare maggiore diffusione tra gli operatori economici, incluse le piccole e medie imprese. Insomma volontariato e lavoro possono costituire un tandem inedito che nel caso delle imprese trova sostegno nel fisco per incoraggiare nuove forme di solidarietà. Una sfida che il mercato sta raccogliendo sempre di più per dare forma a modelli che creano valore attraverso il dialogo profit/non profit.