Sei milioni di persone e 400 mila realtà: così si colmano le lacune di Stato e mercato. Oggi la sfida è la sostenibilità economica. Nuovi bisogni: ambiente, abitare, giustizia. Survey di Secondo welfare. Il caso Bologna. L’universo. Uno scenario variegato composto da cooperative, mutue, associazioni, fondazioni e imprese
di Paola D’Amico, pubblicato in «Corriere BuoneNotizie» pag. 40 del 30 settembre 2025]
È un «ecosistema» così composito che anche chi lo studia fatica a trovare una definizione univoca. I numeri dell’economia sociale elaborati da Euricse documentano un vivace e dinamico scenario che, solo nel nostro Paese, è fatto di quasi 400 mila tra cooperative, mutue, associazioni, fondazioni e imprese sociali e coinvolge oltre 6 milioni di persone tra chi vi lavora (1,5 milioni) e volontari. Per tutte queste realtà la principale sfida dei prossimi 5 anni «sarà la sostenibilità economica» oltre ad avere la capacità non solo di coprire bisogni esistenti ma «anticipare le trasformazioni future». Ne è convinta la vasta platea di esperti (126) che Percorsi di secondo welfare, laboratorio di ricerca dell’Università di Milano, ha coinvolto in una Expert survey per capire quanto l’economia sociale è davvero riconosciuta come parte integrante delle infrastrutture sociali dell’Italia, qual è il suo ruolo in relazione all’evoluzione del welfare, quali saranno i fattori di impatto di qui al 2030.Che sia l’elemento centrale per una società più equa e sostenibile non è in discussione: la consapevolezza che lo sviluppo sostenibile di una società non può poggiare unicamente sulla dimensione economica, ma deve fondarsi su un equilibrio tra crescita, coesione sociale e giustizia ambientale, è diffusa. «Abbiamo però pensato di raccogliere attraverso una metodologia poco usata in Italia i pareri di chi, studiando quotidianamente queste tematiche, può avere una visione prospettica. Sulla definizione di economia sociale – spiega Chiara Lodi Rizzini, politologa e ricercatrice di Percorsi di secondo welfare – emerge ancora un po’ di confusione. Ma ciò è dovuto al fatto che è un mondo eterogeneo al suo interno». Tutti gli esperti collocano chiaramente l’economia sociale come «parte integrante dell’architettura del welfare contemporaneo». Centosettantuno anni sono trascorsi da quando è nata la prima cooperativa, il Magazzino di previdenza di Torino: iniziativa degli operai per contrastare l’aumento dei prezzi. Oggi le imprese dell’economia sociale operano ovunque: città, campagne, aree interne dove offrono servizi spesso essenziali. Hanno dimostrato una buona capacità nel colmare le lacune lasciate da Stato e mercato, si sono dimostrate innovative, adattabili e reattive ai bisogni delle comunità, e un modello per sostenere l’economia in tempi di crisi, dando priorità agli obiettivi sociali rispetto al profitto, reinvestendo gli utili nelle finalità sociali. Per gli esperti i settori in cui l’economia sociale è più forte (e impiega più persone) sono quelli dell’inclusione dei gruppi vulnerabili (71,4%), dell’assistenza agli anziani e alle persone non autosufficienti (51,6%), della disabilità (51,6%) e dei servizi per l’infanzia, educativi, istruzione e formazione (41,3%). Più rare le politiche per l’abitare (18,3%) e le politiche attive del lavoro (12,7%). «Ma secondo la survey – continua Lodi Rizzini – c’è un margine di crescita per allargare il perimetro della protezione sociale, si pensi alle nuove sfide: ambiente, abitare, conciliazione».La sfida per il futuro, oltre che su sostenibilità economica, cambiamenti demografici, diseguaglianze, polarizzazione sociale, «si giocherà anche sulla capacità di questo ecosistema complesso di relazionarsi, non essere autoreferenziale, imparare ad adattarsi a nuovi interlocutori che hanno una visione diversa». Per questo è importante la formazione. «Per poter sviluppare l’economia sociale è infatti necessario lavorare all’interno – conclude la ricercatrice – formando gli operatori. Servono non solo incentivi fiscali ma incentivare la professione». Insomma, il cambiamento e la crescita possono/devono venire innanzitutto da dentro.Intanto, precisa Luigi Bobba fondatore di Terzjus, «il nostro Governo ha dichiarato l’intenzione di realizzare entro fine novembre il Piano nazionale della economia sociale, scelta coerente con la raccomandazione Ue del 2023, che obbliga a definire in modo chiaro il perimetro dei soggetti, operazione necessaria se si vogliono mettere in campo le politiche adeguate, strumenti e risorse, utili a far sì che questi soggetti creino più occupazione e più inclusione». Cruciale è anche il ruolo delle amministrazioni locali nell’abilitare l’economia sociale. Un buon esempio di visione arriva da Bologna che, come spiega Laura Freddi che ne è la responsabile, ha già redatto il Piano Metropolitano per l’economia sociale (economiasocialebologna.it). Qui si tracciano le direttrici per lo sviluppo economico della città nella direzione della sostenibilità, dell’inclusione e dell’equità: «È anche una base per crescere e espandere pratiche che forniscono tanto valore di economia sociale ma sono molto fragili, dall’oggi al domani potrebbero non esserci più».
È un «ecosistema» così composito che anche chi lo studia fatica a trovare una definizione univoca. I numeri dell’economia sociale elaborati da Euricse documentano un vivace e dinamico scenario che, solo nel nostro Paese, è fatto di quasi 400 mila tra cooperative, mutue, associazioni, fondazioni e imprese sociali e coinvolge oltre 6 milioni di persone tra chi vi lavora (1,5 milioni) e volontari. Per tutte queste realtà la principale sfida dei prossimi 5 anni «sarà la sostenibilità economica» oltre ad avere la capacità non solo di coprire bisogni esistenti ma «anticipare le trasformazioni future». Ne è convinta la vasta platea di esperti (126) che Percorsi di secondo welfare, laboratorio di ricerca dell’Università di Milano, ha coinvolto in una Expert survey per capire quanto l’economia sociale è davvero riconosciuta come parte integrante delle infrastrutture sociali dell’Italia, qual è il suo ruolo in relazione all’evoluzione del welfare, quali saranno i fattori di impatto di qui al 2030.Che sia l’elemento centrale per una società più equa e sostenibile non è in discussione: la consapevolezza che lo sviluppo sostenibile di una società non può poggiare unicamente sulla dimensione economica, ma deve fondarsi su un equilibrio tra crescita, coesione sociale e giustizia ambientale, è diffusa. «Abbiamo però pensato di raccogliere attraverso una metodologia poco usata in Italia i pareri di chi, studiando quotidianamente queste tematiche, può avere una visione prospettica. Sulla definizione di economia sociale – spiega Chiara Lodi Rizzini, politologa e ricercatrice di Percorsi di secondo welfare – emerge ancora un po’ di confusione. Ma ciò è dovuto al fatto che è un mondo eterogeneo al suo interno». Tutti gli esperti collocano chiaramente l’economia sociale come «parte integrante dell’architettura del welfare contemporaneo». Centosettantuno anni sono trascorsi da quando è nata la prima cooperativa, il Magazzino di previdenza di Torino: iniziativa degli operai per contrastare l’aumento dei prezzi. Oggi le imprese dell’economia sociale operano ovunque: città, campagne, aree interne dove offrono servizi spesso essenziali. Hanno dimostrato una buona capacità nel colmare le lacune lasciate da Stato e mercato, si sono dimostrate innovative, adattabili e reattive ai bisogni delle comunità, e un modello per sostenere l’economia in tempi di crisi, dando priorità agli obiettivi sociali rispetto al profitto, reinvestendo gli utili nelle finalità sociali. Per gli esperti i settori in cui l’economia sociale è più forte (e impiega più persone) sono quelli dell’inclusione dei gruppi vulnerabili (71,4%), dell’assistenza agli anziani e alle persone non autosufficienti (51,6%), della disabilità (51,6%) e dei servizi per l’infanzia, educativi, istruzione e formazione (41,3%). Più rare le politiche per l’abitare (18,3%) e le politiche attive del lavoro (12,7%). «Ma secondo la survey – continua Lodi Rizzini – c’è un margine di crescita per allargare il perimetro della protezione sociale, si pensi alle nuove sfide: ambiente, abitare, conciliazione».La sfida per il futuro, oltre che su sostenibilità economica, cambiamenti demografici, diseguaglianze, polarizzazione sociale, «si giocherà anche sulla capacità di questo ecosistema complesso di relazionarsi, non essere autoreferenziale, imparare ad adattarsi a nuovi interlocutori che hanno una visione diversa». Per questo è importante la formazione. «Per poter sviluppare l’economia sociale è infatti necessario lavorare all’interno – conclude la ricercatrice – formando gli operatori. Servono non solo incentivi fiscali ma incentivare la professione». Insomma, il cambiamento e la crescita possono/devono venire innanzitutto da dentro.Intanto, precisa Luigi Bobba fondatore di Terzjus, «il nostro Governo ha dichiarato l’intenzione di realizzare entro fine novembre il Piano nazionale della economia sociale, scelta coerente con la raccomandazione Ue del 2023, che obbliga a definire in modo chiaro il perimetro dei soggetti, operazione necessaria se si vogliono mettere in campo le politiche adeguate, strumenti e risorse, utili a far sì che questi soggetti creino più occupazione e più inclusione». Cruciale è anche il ruolo delle amministrazioni locali nell’abilitare l’economia sociale. Un buon esempio di visione arriva da Bologna che, come spiega Laura Freddi che ne è la responsabile, ha già redatto il Piano Metropolitano per l’economia sociale (economiasocialebologna.it). Qui si tracciano le direttrici per lo sviluppo economico della città nella direzione della sostenibilità, dell’inclusione e dell’equità: «È anche una base per crescere e espandere pratiche che forniscono tanto valore di economia sociale ma sono molto fragili, dall’oggi al domani potrebbero non esserci più».