Lo scritto è destinato alla pubblicazione nel volume a cura di Andrea Fusato dal titolo “Il terzo settore tra pubblico e privato nel prisma della comparazione” (Genova University Press), che raccoglie gli atti del convegno organizzato il 30 ottobre 2020 dall’Università di Genova quale evento conclusivo dell’attività del Corso di Dottorato in Diritto per l’a.a. 2019/2020
1. La sentenza 131/2020 e il ruolo della Corte Costituzionale a supporto del terzo settore e del suo diritto
La Costituzione italiana non menziona gli enti del terzo settore (“ETS”), che costituiscono, com’è noto, una creatura concettuale e legislativa ad essa successiva. È fuor di dubbio, tuttavia, che la particolare natura giuridica di questi enti li collochi in posizione di rilievo, seppur implicitamente, nell’ordinamento costituzionale. Gli ETS attuano principi fondamentali e contribuiscono al perseguimento di specifici obiettivi costituzionali, ciò che rende il Codice del terzo settore (e le leggi ad esso collegate, come il d.gs. 112/2017 sull’impresa sociale e la legge 3818/1886 sulle società di mutuo soccorso) una disciplina di attuazione costituzionale la cui mancanza si avvertiva da tempo. Un’inspiegabile lacuna è stata colmata con la riforma legislativa del 2017, grazie alla quale gli ETS sono divenuti destinatari di una normativa ampia e sofisticata al pari di quelle relative ad altre categorie di enti (come le società di capitali) la cui rilevanza costituzionale è sicuramente inferiore. Del resto, non v’è ragione alcuna per cui l’azione collettiva solidale condotta attraverso gli enti del terzo settore debba ricevere minore attenzione legislativa di altre attività, come l’attività economica lucrativa tipicamente svolta dalle società. Le forme giuridiche di azione dell’“uomo buono” dovrebbero anzi godere di maggiore considerazione legislativa rispetto a quelle dell’“uomo economico”, perché sono strumenti di coesione sociale e di sviluppo economico in misura financo maggiore delle forme giuridiche congegnate allo scopo di dividere gli utili da attività economiche1.
Si può ben comprendere, allora, quel generale senso di soddisfazione che la Corte Costituzionale sembra esprimere nella sentenza 131/2020 rispetto all’opera legislativa di riforma, intrapresa nel 2016 (con la legge delega n. 106) e culminata nel d.lgs. 117/2017, recante il Codice del terzo settore (“CTS”). L’apprezzamento riguarda non soltanto, ovviamente, l’art. 55 CTS (definito dalla Corte “una delle più significative attuazioni del principio di sussidiarietà orizzontale valorizzato dall’art. 118, quarto comma, Cost.”, ovvero un articolo che “realizza per la prima volta in termini generali una vera e propria procedimentalizzazione dell’azione sussidiaria”), che era al centro della vicenda giurisprudenziale, ma la nuova disciplina nel suo complesso, con particolare riferimento ai requisiti di qualificazione degli ETS, poiché sono questi requisiti (peraltro soggetti, come ricorda la Corte, a “rigorosi controlli”) che assicurano la “terzietà” di tali enti, rendendo i loro interessi “comuni” a quelli delle pubbliche amministrazioni, ciò che legittima l’instaurazione tra le due distinte categorie di soggetti di “rapporti collaborativi” (ovvero con causa di “comunione di scopo”) piuttosto che “sinallagmatici” (cioè con causa di scambio)2.
Tutto ciò è ancora più significativo se si considera che la Corte – per il tipo di questione ad essa sottoposta – non aveva l’esigenza di entrare nel merito della nuova disciplina. Il caso, infatti, poteva essere risolto in maniera molto più rapida e semplice, senza affrontare il tema dell’inquadramento costituzionale dell’art. 55 CTS3. Se la Corte ha voluto comunque esprimersi sul punto (e se lo ha fatto in maniera così enfatica), ciò vuol dire che lo considera centrale per l’assetto costituzionale e democratico del nostro paese4.
Non già, dunque, una questione di legittimità costituzionale come tante altre, bensì una questione che interessa valori fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, anche nel loro porsi in relazione con altri valori, potenzialmente antitetici, espressi dall’ordinamento euro-unitario. In breve, il valore della solidarietà opposto a quello della concorrenza.
In assenza di espressi riferimenti nella Costituzione, ecco dunque il fondamentale ruolo svolto dalla Corte Costituzionale in favore del terzo settore e del suo diritto. Una funzione che, a ben vedere, la Corte ha assolto a più riprese, anche prima della “grande” riforma del 2017, quanto meno a partire dalle decisioni rese negli anni 80’ in tema di IPAB, come uno dei più attenti ed appassionati studiosi del terzo settore ha avuto modo di osservare in un recente intervento convegnistico5.
Se è vero pertanto che la sentenza 131/2020 già rappresenta una pietra miliare del “nuovo” diritto costituzionale del terzo settore6, d’altra parte essa non costituisce una pronuncia eccentrica ed isolata, ma s’inserisce in una più ampia giurisprudenza di cui non si può fare a meno di porre in rilievo il contributo positivo non solo al radicamento costituzionale degli enti del terzo settore ma anche all’edificazione del terzo settore come distinta ed autonoma categoria soggettiva di enti giuridici.
2. Gli enti del terzo settore come modelli organizzativi dell’azione collettiva solidale
La specificità degli enti del terzo settore emerge già dalla loro denominazione. Gli enti del terzo settore sono infatti “terzi” in quanto “diversi” e “autonomi” sia dalle imprese private lucrative (il “secondo” settore) sia dagli enti pubblici (il “primo” settore). L’appellativo non sottintende invece la minore importanza del nostro settore rispetto ai primi due.
Eppure, in certe analisi, agli enti del terzo settore è data giustificazione in termini esclusivamente economici per la loro capacità di soddisfare bisogni disattesi da Stato e mercato, e dunque di sopperire al “fallimento” del primo e del secondo settore. Ne consegue che i nostri enti non avrebbero un’autonoma ragion d’essere, poiché in presenza di risposte soddisfacenti da parte dei primi due settori non esisterebbero né dovrebbero essere invocati7.
Secondo questa (parziale e non condivisibile) prospettiva, il terzo settore svolge pertanto una funzione meramente residuale e sussidiaria rispetto agli altri due settori, rilevando soltanto nel suo ruolo di supplenza.
È chiaro che in presenza di una Costituzione come quella italiana in cui si riconosce e promuove il principio di sussidiarietà orizzontale, in cui la solidarietà è “dovere inderogabile” e l’eguaglianza sostanziale il punto di arrivo di un processo di trasformazione agognato dal costituente, il terzo settore non può che porsi su un piano di parità logico-ordinamentale, se non di superiorità rispetto agli altri settori. Non richiede giustificazione quasi fosse “anomalo” rispetto ai settori “convenzionali”, ma rappresenta il naturale dispiegarsi dell’iniziativa comunitaria rivolta al bene comune, nonché il modello giuridico-organizzativo più congeniale a tali intraprese.
Così si spiega il primo articolo del Codice del terzo settore, che non si limita ad individuare il fondamento costituzionale della disciplina, ma piuttosto ne sottolinea la strumentalità rispetto a fini costituzionalmente rilevanti, ovvero quelli di cui all’art. 118, comma 4, ed altri ad essi correlati. L’ente del terzo settore si candida così ad assumere il ruolo di veste giuridica alle iniziative comunitarie di stampo solidaristico. E proprio per questa ragione, come sottolinea l’articolo 2 del medesimo Codice, ha valore e funzione sociale e ne deve essere promosso lo sviluppo anche mediante forme di collaborazione con lo Stato e gli altri enti pubblici.
La Corte costituzionale ha più volte posto in risalto, anche prima della riforma costituzionale del 2001, il collegamento esistente tra gli enti giuridici ascrivibili a quello che oggi sarebbe il terzo settore e l’azione collettiva solidale, sottolineandone altresì il fondamentale ruolo a livello politico-istituzionale, in una posizione di parità e non già di subordinazione o dipendenza dagli enti pubblici.
Lo ha fatto già allorquando ha sancito, con la sentenza 396/1988, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 6972/19808, sottolineando come i fini di assistenza e beneficenza che connotavano le IPAB non fossero “per loro natura esclusivi delle strutture pubbliche” (C. Cost 396/1988). Stato ed enti pubblici, d’altro canto, si prosegue in quella decisione, possono perseguire i medesimi fini (e dunque porre in essere un sistema di assistenza e beneficenza legali) dotandosi di strutture proprie, sicché la generale pubblicizzazione delle IPAB non poteva trovare fondamento costituzionale, tanto più tenendo conto del “principio pluralistico che ispira nel suo complesso la Costituzione repubblicana e che, nel campo della assistenza, è garantito, quanto alle iniziative private, dall’ultimo comma dell’art. 38, rispetto al quale è divenuto ormai incompatibile il monopolio pubblico delle istituzioni relative”.
Un anno prima, nella sentenza 243/1987, si metteva in evidenza il ruolo politico-sociale del volontariato, quale manifestazione della “partecipazione popolare alla lotta contro il grave flagello della droga”, e lo si considerava “uno strumento utile per sopperire a carenze delle strutture pubbliche, come nuovo modello di cura di interessi pubblici e di esercente attività idonee a conseguire fini sociali senza avere scopi di lucro e, anche per questa ragione, con ampia libertà di organizzazione”. Anche da queste parole emerge un apprezzamento della solidarietà organizzata dei cittadini non soltanto per il ruolo di supplenza rispetto allo Stato, ma anche per la capacità di soddisfare bisogni in maniera innovativa.
Altre due sentenze parecchio significative di quel periodo sono dedicate a due fattispecie soggettive del terzo settore che a quel tempo erano state da poco riconosciute a livello legislativo e che ancora oggi sono esistenti dopo la riforma del 2017, ovverosia le organizzazioni di volontariato e le cooperative sociali9.
La “storica” sentenza 75/1992 chiarisce che il volontariato non costituisce una materia, ma un modo d’essere della persona nell’ambito dei rapporti sociali, ovvero un paradigma dell’azione sociale riferibile a singoli individui o ad associazioni di più individui.
Il volontariato è modello fondamentale dell’azione positiva e responsabile dell’individuo e rappresenta l’espressione più immediata della primigenia vocazione sociale dell’uomo, derivante dalla sua identificazione con le formazioni sociali e dal conseguente vincolo di appartenenza attiva che lega l’individuo alla comunità degli uomini.
Il volontariato costituisce “in altre parole, la più diretta realizzazione del principio di solidarietà sociale, per il quale la persona agisce non per calcolo utilitaristico o per imposizione dell’autorità, ma per libera e spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza la persona stessa. Si tratta di un principio che, comportando l’originaria connotazione dell’uomo uti socius, è posto dalla Costituzione tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, tanto da essere solennemente riconosciuto e garantito, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, dall’art. 2 della Carta costituzionale come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente. Della natura di tali diritti fondamentali il volontariato partecipa: e vi partecipa come istanza dialettica volta al superamento del limite atomistico della libertà individuale, nel senso che di tale libertà è una manifestazione che conduce il singolo sulla via della costruzione dei rapporti sociali e dei legami tra gli uomini, al di là di vincoli derivanti da doveri pubblici o da comandi dell’autorità”.
La seconda e meno nota sentenza 202/1992 riconduce le attività delle cooperative sociali al principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., che l’intera comunità deve promuovere.
Un ulteriore tassello è aggiunto dalla, anch’essa molto conosciuta, sentenza 500/1993 in tema di volontariato e fondazioni di origine bancaria, secondo cui la solidarietà concorre a realizzare quell’eguaglianza sostanziale che consente lo sviluppo della personalità e mira ad ottenere da tutti i cittadini, e non solo dallo Stato, la collaborazione per conseguire essenziali beni comuni. Da qui il collegamento tra l’art. 2 e l’art. 3, comma 2, Cost.
Nella successiva sentenza 300/2003 compare l’espressione, che avrà in seguito enorme successo, “soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali” (e non già delle funzioni pubbliche) riferita alle fondazioni di origine bancaria10, anche in ragione di quanto disposto dall’allora appena introdotto art. 118, comma 4, Cost.
In seguito, nella sentenza 309/2013, la Corte ritiene contraria al principio di ragionevolezza la negazione agli stranieri della possibilità di svolgere il servizio civile nazionale, “in quanto si tratta di prestazioni personali effettuate spontaneamente a favore di altri individui o della collettività. Tali prestazioni rappresentano la più diretta realizzazione del principio di solidarietà sociale, per il quale la persona è chiamata ad agire non per calcolo utilitaristico o per imposizione di un’autorità, e la partecipazione a tale forma di solidarietà deve essere ricompresa tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente”.
Successivamente all’entrata in vigore del Codice del terzo settore, la Corte Costituzionale (nella sentenza 185/2018), nel valutare costituzionalmente legittima la nuova disciplina dei centri di servizio per il volontariato, ha avuto modo di sottolineare nuovamente, richiamando alcune sue precedenti decisioni, come “il Terzo settore, come già il volontariato, non possa essere configurato quale ‘materia’ in senso stretto”, e che “i soggetti del Terzo settore, in quanto soggetti di diritto privato, per quanto attiene alla loro conformazione specifica, alla loro organizzazione e alle regole essenziali di correlazione con le autorità pubbliche, ricadono tipicamente nell’‘ordinamento civile’. L’‘ordinamento civile’, com’è noto, comprende tali discipline, allo scopo di garantire l’uniformità̀ di trattamento sull’intero territorio nazionale, in ossequio al principio costituzionale di eguaglianza, oltreché di assicurare l’‘essenziale e irrinunciabile autonomia’ che deve caratterizzare i soggetti del Terzo settore, nel rispetto dell’art. 118, quarto comma, Cost.”.
Di particolare interesse, ancorché per un aspetto diverso da quelli sin qui esaminati, è anche la sentenza 277/2019 nella quale la Corte decreta l’illegittimità per irragionevolezza ex art. 3 Cost. di alcune disposizioni di legge regionale che limitavano alle organizzazioni di volontariato la legittimazione ad essere parti di accordi con la PA relativi all’erogazione di servizi in materia di tutela degli animali. La Corte non individua alcuna ragionevole giustificazione per escludere da questi accordi gli enti del terzo settore diversi dalle ODV, che dalle norme dichiarate illegittime sarebbero stati dunque arbitrariamente discriminati. Una decisione di questo tipo è stata senz’altro resa possibile dall’unificazione del terzo settore che si è realizzata con il Codice del 2017. Una decisione simile sarebbe stata infatti impensabile ai tempi in cui vigeva una moltitudine “aggrovigliata” di leggi speciali su singole, e tra loro separate, fattispecie dell’allora soltanto cosiddetto terzo settore.
La riconduzione ad unità del terzo settore con la riforma del 2017 non preclude tuttavia al legislatore nazionale di prevedere trattamenti diversi per tipologie differenti di enti del terzo settore, quando naturalmente vi sia una ragione per un trattamento differenziato, che può derivare dalla medesima natura giuridica degli enti del terzo settore in questione. È il caso dell’art. 57 CTS, che limita alle ODV il ricorso prioritario alle convenzioni relative ai trasporti sanitari di emergenza e urgenza, escludendo altre tipologie di soggetti del terzo settore, come ad esempio le cooperative sociali. Pur essendo entrambe formalmente appartenenti al terzo settore post riforma, le ODV tuttavia si differenziano dalle cooperative sociali per numerosi motivi, ciò che può giustificare il trattamento differenziato operato dall’art. 57. In questo senso, i dubbi rispetto alle legittimità dell’art. 57 CTS che sembrano emergere dalla sentenza 255/2020 della Corte Costituzionale non hanno ragione di sussistere11.
Gli enti del terzo settore non rilevano soltanto per il significativo contributo recato all’attuazione dei principi costituzionali di sussidiarietà, solidarietà ed eguaglianza sostanziale, non essendo da meno – ammesso (e non concesso) che sia possibile discutere separatamente dei profili sociali e dei profili economici di una determinata azione – il loro apporto di natura economica
Il punto è colto dalla Corte Costituzionale nella sentenza 131/2020, dove si mette in luce come gli ETS, proprio in quanto rappresentativi della società solidale, e prossimi al tessuto sociale, siano “in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi (altrimenti conseguibili in tempi più lunghi e con costi organizzativi a proprio carico), sia un’importante capacità organizzativa e di intervento: ciò che produce spesso effetti positivi, sia in termini di risparmio di risorse che di aumento della qualità dei servizi e delle prestazioni erogate a favore della ‘società del bisogno’”12.
In ciò la Corte Costituzionale si pone in linea di continuità con precedenti e ben note pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea nelle quali si giustifica il ricorso prioritario e diretto alle organizzazioni di volontariato per l’affidamento di servizi di trasporto sanitario di emergenza e urgenza non solo in chiave solidaristica ma anche di efficienza economica, poiché il particolare modo di agire delle ODV permette all’amministrazione procedente e ai cittadini beneficiari del servizio di ottenere la migliore qualità al miglior prezzo, con evidente vantaggio anche per la finanza pubblica, che è a sua volta funzionale a garantire l’universalità del servizio13.
Gli enti del terzo settore, in definitiva, non derivano la loro giustificazione dai “fallimenti” delle categorie “convenzionali” di enti (cioè del “primo” e del “secondo” settore), ma hanno una propria giustificazione sia sociale sia economica, idonea ad attribuire loro il primato in un’ipotetica classifica degli enti basata sul grado della loro rilevanza costituzionale.
3. L’identità giuridica degli enti del terzo settore e la giustificazione costituzionale della legislazione promozionale che li riguarda
Tra i principali meriti ascrivibili alla riforma legislativa del 2017, v’è sicuramente quello di aver attribuito una precisa identità giuridica agli enti del terzo settore. È infatti questa specifica identità, oggi riconosciuta e tutelata dalla legge, che consente di giustificare e legittimare la disciplina promozionale di cui gli ETS sono destinatari, anche sotto il profilo dei loro rapporti con gli enti pubblici (che sono sottratti alla disciplina ordinaria dei contratti pubblici e sottoposti a specifiche regole sicuramente favorevoli agli ETS). La sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale ne offre una dimostrazione inconfutabile.
La nozione di ente del terzo settore fatta propria dalla legislazione di riforma del 2017 si presta ad assumere la funzione concreta di “certificazione di qualità” degli enti ad essa riconducibili. Una certificazione “protetta” mediante il sistema di controlli ex ante ed in itinere messi in piedi dal CTS e dalla normativa derivata e collegata.
Ed è in questo senso, invero, che anche la Corte Costituzionale se ne avvale per formare il suo giudizio, se è vero che – nel ricercare il motivo per cui “lo specifico modello di condivisione della funzione pubblica prefigurato dal richiamato art. 55 è … riservato in via esclusiva agli enti che rientrano nel perimetro definito dall’art. 4 CTS” – lo individua nella “stretta connessione” esistente “tra i requisiti di qualificazione degli ETS e i contenuti della disciplina del loro coinvolgimento nella funzione pubblica”.
Infatti, sempre secondo la Corte, “la originale e innovativa (nella sua attuale ampiezza) forma di collaborazione che si instaura mediante gli strumenti delineati dall’art. 55 CTS richiede, negli enti privati che possono prendervi parte, la rigorosa garanzia della comunanza di interessi da perseguire e quindi la effettiva ‘terzietà’ (verificata e assicurata attraverso specifici requisiti giuridici e relativi sistemi di controllo) rispetto al mercato e alle finalità di profitto che lo caratterizzano”.
I requisiti di qualificazione degli enti del terzo settore garantiscono dunque la “terzietà” dell’ente e la sua prossimità rispetto alle finalità perseguite dagli enti pubblici, giustificando così il particolare regime loro “riservato” di rapporti ai sensi dell’art. 55 CTS.
Gli elementi identitari degli enti del terzo settore “sono quindi valorizzati come la chiave di volta di un nuovo rapporto collaborativo con i soggetti pubblici: secondo le disposizioni specifiche delle leggi di settore e in coerenza con quanto disposto dal codice medesimo, agli ETS, al fine di rendere più efficace l’azione amministrativa nei settori di attività di interesse generale definiti dal CTS, è riconosciuta una specifica attitudine a partecipare insieme ai soggetti pubblici alla realizzazione dell’interesse generale”.
A livello interpretativo, le parole della Corte confermano quanto si era già sostenuto all’indomani dell’approvazione del Codice, ovvero che quella di “ente del terzo settore” è una qualifica che può essere acquisita (e mantenuta) da un ente (già esistente o costituito ad hoc) che risulti in possesso dei necessari requisiti normativi di qualificazione14.
Non già dunque un nuovo tipo o sottotipo di ente (ovvero di contratto associativo), bensì uno status attribuibile ad enti costituiti ai sensi di altre normative (in primo luogo, ovviamente, del codice civile). Ciò è confermato sia dal dato testuale che dall’analisi sistematica (ed è la conseguenza necessaria della funzione essenzialmente promozionale della legislazione sul terzo settore). Il legislatore, infatti, a proposito dell’impresa sociale, parla espressamente di “acquisire la qualifica” e di “perdere la qualifica” (artt. 1, comma 1, e 12, comma 5, d.lgs. 112/2017), e più in generale non ricollega necessariamente all’iscrizione nel RUNTS l’acquisizione della personalità giuridica (alla stregua dell’art. 22, CTS, questa è infatti una possibilità per gli ETS ma non già una necessità), né fa inevitabilmente derivare dalla cancellazione dal RUNTS l’estinzione dell’ente (ma solo la perdita del patrimonio accumulato, se l’ente vuole continuare ad operare “ai sensi del codice civile”: art. 50, comma 2, CTS).
Più precisamente, si tratta di una qualifica normativa opzionale che un ente giuridico può da subito o nel corso della sua esistenza decidere di assumere15, ma che potrebbe anche smarrire qualora decida volontariamente di “uscire” dal terzo settore cancellandosi dal RUNTS oppure sia da tale registro cancellato dall’autorità pubblica vigilante in presenza di accertate violazioni della normativa applicabile.
L’acquisto e la conservazione della qualifica sono, come detto, subordinate al possesso da parte dell’ente, di alcuni requisiti essenziali di varia natura, ovvero:
a) la forma giuridica di associazione, riconosciuta o non riconosciuta (come persona giuridica), o di fondazione o di altro ente di carattere privato diverso dalle società16;
b) l’indipendenza dai soggetti di cui all’art. 4, comma 2, CTS, ovverosia da amministrazioni pubbliche, formazioni e associazioni politiche, sindacati, associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, associazioni di datori di lavoro, che sono poi quei soggetti che non possono mai acquisire la qualifica di ente del terzo settore17;
c) l’esercizio in via esclusiva, o quanto meno principale, di una o più attività di interesse generale, in una qualsiasi forma – non solo gratuita, volontaria o erogativa, ma anche mutualistica o imprenditoriale – e fatta salva la possibilità di esercitare attività “diverse” da quelle di interesse generale entro limiti predeterminati dalla legge18;
d) il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche o di utilità sociale;
e) l’assenza di scopo di lucro19;
f) l’iscrizione nel RUNTS20.
Questi requisiti sono tra loro cumulativi, nel senso che devono essere tutti quanti posseduti da un determinato ente affinché esso possa qualificarsi come ente del terzo settore. Sono questi requisiti a dar forma a quella specifica identità degli enti del terzo settore che giustifica e legittima la riserva in loro favore dei rapporti con la pubblica amministrazione di cui all’art. 55 CTS e che allo stesso tempo non ne consente l’estensione per legge regionale (o in via interpretativa) a soggetti che formalmente non appartengono al terzo settore, come nel caso specifico oggetto del giudizio risolto con la sentenza 131/2020 erano le cooperative di comunità (in quanto tali)21.
La natura giuridica della parte privata diventa dunque un fondamentale elemento distintivo dei rapporti pubblico-privato di cui all’art. 55 CTS.
Nella sentenza 131/2020, il ragionamento della Corte Costituzionale è limitato all’articolo 55 CTS, non essendo gli articoli 56 e 57 CTS nemmeno menzionati. Analoghe considerazioni possono tuttavia valere anche a loro riguardo.
In relazione agli articoli 56 e 57 preme anzi sottolineare come il loro ambito di applicazione sia ancora più ristretto di quello di cui all’art. 55, essendo circoscritto a quelle tipologie organizzative (ovvero qualifiche particolari) del terzo settore – cioè le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale (l’art. 57, invero, alle sole organizzazioni di volontariato, per di più aderenti ad una rete associativa nazionale del terzo settore22 ed accreditate secondo la normativa regionale applicabile) – i cui requisiti di qualificazione sono ancora più stringenti, ciò che le rende financo più “virtuose” (come testimonia il regime fiscale di maggior favore di cui godono all’interno del CTS) e funzionalmente “più vicine” agli enti pubblici di ogni altra tipologia di ente del terzo settore.
Infatti, come già in precedenza si osservava, anche al fine di recepire la prassi preesistente al Codice del 2017, il legislatore della riforma ha sì unificato il terzo settore fornendo un’identità comune a tutti gli enti che lo compongono, ma non l’ha uniformato, rispettando la intrinseca varietà tipologica che continua a connotarlo grazie ad una precisa tecnica normativa, che è stata quella di affiancare ad una fattispecie generale ed “atipica” nei suoi possibili contenuti (cioè l’ente del terzo settore in generale, i cui tratti distintivi abbiamo sopra presentato), alcune fattispecie particolari e “tipiche”, specializzate rispetto alla fattispecie generale e tra loro distinte, in virtù di norme particolari loro applicabili che prevalgono, ove sussistenti, sulla disciplina generale (art. 3, comma 1, CTS)23. Il risultato è stato dunque che la riforma ha dato normativamente vita sia ad un ente del terzo settore “in generale” (da iscriversi nella sezione residuale del RUNTS dedicata agli “altri enti del terzo settore”) sia a “singoli” enti del terzo settore (a ciascuno dei quali corrisponde una diversa sezione del RUNTS).
Ebbene, tra queste qualifiche particolari, quelle dell’organizzazione di volontariato e dell’associazione di promozione sociale (ed in particolare la prima delle due) più si caratterizzano per la dimensione gratuito-erogativa dell’agire e la struttura democratica e partecipata di governance, ciò che le rende ancora più coerenti rispetto agli obiettivi dell’“amministrazione condivisa” di quanto non lo siano gli altri enti del terzo settore24.
Il che giustifica il favor legislativo che si attua indirizzando le misure di collaborazione pubblico-privato di cui agli articoli 56 e 57 CTS soltanto a queste particolari tipologie di enti del terzo settore (più precisamente, l’art. 57, come già ricordato, si rivolge soltanto alle organizzazioni di volontariato)25.
L’importanza attribuita alla particolare natura giuridica della parte privata al fine di giustificare (e legittimare) rapporti pubblico-privato del carattere di quelli di cui agli artt. 55-57 CTS non costituisce del resto una novità in giurisprudenza. Emerge già dalle importanti decisioni rese dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in materia di affidamento di servizi di trasporto sanitario, di cui prima si è già dato conto, che a loro volta hanno fatto breccia sulla giurisprudenza amministrativa italiana in tema di art. 57 CTS, nonché, più recentemente, anche su quella in materia di convenzioni ex art. 56 CTS26.
Chiaro ed importante è, in conclusione, il condivisibile messaggio della Corte Costituzionale: solo per enti con una identità legislativa che li renda funzionalmente simili alle pubbliche amministrazioni è possibile contemplare modalità di rapporto con queste ultime ispirate al paradigma dell’amministrazione condivisa. La legittimità di questi rapporti rispetto a quelli fondati sul Codice dei contratti pubblici dipende da questo presupposto fondamentale, ovvero che la disciplina del soggetto privato sia tale da garantirne “comunanza di interessi” rispetto all’amministrazione pubblica e “terzietà” rispetto al mercato e al profitto.
Il Codice del terzo settore costituisce dunque una legislazione “epocale” già solo per il fatto di essere stato capace di attribuire agli enti da esso regolati un’identità foriera di così rilevanti benefici27.