[di Gabriele Sepio, pubblicato in «Il Sole 24 Ore» di domenica 25 maggio, pag. 25]
A distanza di quasi dieci anni dall’avvio della riforma del Terzo settore, il non profit italiano si trova di fronte a una nuova sfida: far sì che il piano d’azione sull’economia sociale promosso dalla Raccomandazione europea si traduca in misure concrete per gli enti che ne fanno parte. Il previsto monitoraggio sullo stato di attuazione dei piani nazionali fino al 2032 contribuirà non solo a evitare la riduzione dell’action plan a un mero elenco di buoni propositi ma anche ad assumere una visione prospettica, dovendosi disegnare oggi azioni che potranno essere implementate anche fra diversi anni.
Proviamo allora a collocarci idealmente nel 2032 quando, per non sprecare l’occasione offerta dalla raccomandazione del Consiglio europeo, l’economia sociale dovrà essere entrata stabilmente nell’ordinamento giuridico italiano ma anche nei modelli culturali, nei corridoi della pubblica amministrazione e nelle aule delle università. Non a caso il piano d’azione, in corso di elaborazione, richiederà di investire anche in conoscenza e formazione.
Per raggiungere questo scenario, il punto di partenza è rappresentato senz’altro dalla definizione giuridica dell’economia sociale: un settore che ricomprende organizzazioni fra loro eterogenee – dagli enti erogativi fondati sul volontariato alle realtà imprenditoriali strutturate – che si contraddistinguono tutte per l’assenza del lucro soggettivo. È questo l’elemento distintivo rispetto ad altre realtà, anch’esse orientate alla sostenibilità sociale ma finalizzate alla speculazione privata, come le società benefit. Una simile perimetrazione non è naturalmente volta a erigere steccati bensì a creare ponti fra operatori del mercato che agiscono secondo logiche diverse, ma che possono fare rete per rispondere ai bisogni della collettività.
Sul piano della fiscalità, una visione prospettica dell’economia sociale conduce a immaginare in futuro un framework che abbia saputo recepire il principio dirompente espresso nella comfort letter della DG Competition del 7 marzo scorso in merito all’assenza di un’autentica disponibilità dei redditi da parte degli enti che non possono remunerare il capitale con i propri profitti. Si tratta di un principio in grado di incidere su diversi fronti, a partire da un inquadramento fiscale più equo delle riserve indisponibili delle cooperative fino a un ripensamento delle condizioni di esenzione Imu per gli enti non commerciali, oggi eccessivamente restrittive nella qualificazione delle attività come non commerciali.
Infine, l’economia sociale dovrà essere in grado di contaminare i documenti di finanza pubblica, con la presenza di un capitolo di spesa dedicato esclusivamente a tale settore, e la stessa pubblica amministrazione, attraverso la costituzione di una struttura dedicata all’economia sociale. Quest’ultima misura rappresenterebbe una risposta alla recente e inattesa chiusura dell’unità per l’economia sociale presso la DG Grow della Commissione UE, segnando un’inversione di tendenza a livello nazionale che potrebbe favorire un ripensamento a Bruxelles. I piani d’azione che stanno disegnando i singoli paesi UE saranno, infatti, la risposta concreta alla esigenza di dare sempre più centralità agli enti portatori di interessi generali e collettivi. Per queste realtà occorre urgentemente trovare uno spazio nel sistema giuridico ed economico europeo superando gli interventi emergenziali ed estemporanei che finora non hanno consentito la creazione di un quadro unitario in grado di riconoscere e rafforzare i fin troppo resilienti enti dell’economia sociale.