[di Gabriele Sepio, pubblicato in Vita.it il 18 ottobre 2025]
Per la prima volta l’Italia mette nero su bianco una strategia nazionale per lo sviluppo dell’economia sociale. Con la pubblicazione del Piano d’Azione italiano (Dipartimento Finanze – Consultazione sul Piano nazionale per l’economia sociale del Ministero dell’economia e delle finanze) si inaugura una strategia di lungo periodo che punta a riconoscere e sostenere un universo vastissimo di organizzazioni che operano senza finalità di lucro, ma con un impatto profondo sulla vita delle comunità. Il Piano d’azione è stato coordinato dal Mef e ha visto attivamente coinvolti diversi ministeri competenti, tra cui il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e il ministero delle Imprese e del Made in Italy, unitamente alle principali organizzazioni rappresentative del settore sotto la supervisione di Lucia Albano, sottosegretaria con delega all’economia sociale.
Il perimetro dell’economia sociale richiama tutte quelle realtà che ogni giorno stabilmente sono chiamate a svolgere attività di interesse generalesia in virtù della forma giuridica adottata (come avviene per le cooperative o per gli enti religiosi) sia per la qualifica giuridica (come per gli enti del terzo settore o sportivi dilettantistici). Si tratta di un insieme ampio ed eterogeneo che ogni giorno produce valore economico e coesione sociale, genera occupazione, promuove inclusione e rigenera capitale umano e relazionale. Questi obiettivi, tuttavia, devono essere accompagnati da strumenti adeguati in grado di tenere conto delle caratteristiche degli enti e supportarli nella propria opera a beneficio di tutti.
In questo senso, il Piano d’Azione italiano si propone di dare voce e forza a questo patrimonio diffuso, passando attraverso alcune tappe fondamentali. La prima è quella di individuare un perimetro di riferimento condiviso per definire gli enti che rientrano nell’economia sociale. Un quadro omogeneo capace di abbracciare e mettere in relazione i diversi attori che ne fanno parte, per poi individuare le aree di intervento su cui costruire politiche pubbliche dedicate. L’obiettivo è arrivare, entro il 2032, ad un sistema rodato entro cui l’economia sociale potrà beneficiare in via stabile di un sostegno dedicato, strumenti finanziari innovativi e un dialogo continuo con le istituzioni pubbliche. Il Piano traccia insomma una rotta, ma sarà attraverso la sua attuazione che l’Italia potrà trasformare la sua tradizione di solidarietà in una vera e propria leva di crescita economica.
Il Piano d’Azione resterà in consultazione pubblica fino al 12 novembre prossimo e segna un passaggio fondamentale: per la prima volta il Paese si dota di linee programmatiche per dare visibilità, identità e valorizzare gli strumenti pensati per il comparto dell’economia sociale, che, al di là delle normative di settore, ancora non disponeva di una strategia di pianificazione organica.
Il documento potrà essere integrato con le osservazioni provenienti da associazioni di categoria e sindacali, nonché realtà appartenenti al sistema-economia sociale e sarà poi trasmesso all’Europa per una valutazione complessiva.
Perché un Piano italiano per l’Economia Sociale
Il Piano nasce da una Raccomandazione europea (Raccomandazione del Consiglio UE del 27 novembre 2023), che invita gli Stati membri a sviluppare le condizioni quadro per promuovere l’economia sociale, ma va ben oltre gli indirizzi dell’Europa.
Questo perché l’Italia, come noto, ha una tradizione storica e una cultura del non profit molto marcata, che da sempre intreccia attività solidali, mutualismo e partecipazione civica. Al punto da diventare Paese di riferimento per lo sviluppo di strumenti innovativi che hanno aperto una breccia nelle rigide misure europee a salvaguardia del mercato. Pensiamo alla Comfort letter della UE con cui è stato dato il via libera alle nuove misure fiscali del terzo settore che entreranno in vigore dal prossimo anno.
Il Piano nasce da una considerazione preliminare contenuta nella Raccomandazione e che tiene conto della esigenza di trovare soluzioni e risposte alle diverse forme di lacerazione sociale e di povertà presenti nei sistemi europei, alla polarizzazione della ricchezza che ha portato a differenze salariali spesso insostenibili nonché alla crescente sfiducia dei cittadini verso le istituzioni accompagnate da un crescente disinteresse nella partecipazione al voto. In questo scenario gli enti dell’economia sociale rappresentano un baluardo fondamentale per creare coesione e svolgere piu efficacemente le attività a beneficio delle comunità locali. L’economia sociale non a caso parte da un modello culturale fondamentale che è quello dell’economia civile. Un contesto in grado di superare la logica del mercato e mettere al centro il primato della persona e della reciprocità. Aspetti che oggi ritroviamo nella Raccomandazione del Consiglio europeo ma che fondano le proprie basi orgogliosamente in Italia e più precisamente nella scuola napoletana del ‘700 che fa riferimento a Genovesi.
I soggetti dell’economia sociale in Italia
Uno dei passaggi più significativi riguarda la definizione di economia sociale. Il documento parte dalla definizione europea e la adatta alla realtà italiana: l’economia sociale è formata da enti di diritto privato che producono beni e servizi a beneficio dei propri membri o della collettività e che operano secondo tre principi fondamentali.
- il primato delle persone e delle finalità sociali o ambientali rispetto al profitto.
- il reinvestimento della totalità o della maggior parte degli utili per scopi di interesse generale o collettivo.
- una governance democratica o, comunque, partecipata.
Si tratta di una definizione ampia, che abbraccia diversi modelli organizzativi accomunati da una stessa logica: produrre valore economico e sociale mettendo al centro le persone, non il capitale. Ma non solo. Gli enti attratti in questo perimetro sono realtà che prevalentemente fanno riferimento a Registri pubblici ispirati alla alogica della trasparenza e accountability e che abbracciano precisi vincoli nello svolgimento di attività di interesse generale (pensiamo al Registro delle imprese, al RUNTS, o al RASD).
Da qui il Piano individua le quattro grandi famiglie dell’economia sociale italiana: la cooperazione, il Terzo settore, lo sport dilettantistico e gli enti religiosi civilmente riconosciuti. Quattro mondi diversi per storia e cultura, ma uniti da un filo comune: la volontà di generare benessere comune e di promuovere modelli di sviluppo senza finalità speculative.
Proprio per valorizzare questa pluralità di enti, con il Piano d’Azione si intende introdurre, con un intervento legislativo, una definizione puntuale di “ente dell’economia sociale” che possa fornire un quadro ricognitivo delle forme e delle qualifiche esistenti oggi nel nostro sistema e che integrano i presupposti descritti. L’obiettivo, dunque, non è creare un nuovo tipo di soggetto giuridico, ma individuare le condizioni che permettono di far parte del sistema e, di conseguenza, di accedere agli strumenti di sostegno, ai regimi fiscali e alle politiche pubbliche previste nella seconda parte del Piano. Una cornice pensata per dare certezza giuridica ad un comparto che rappresenta una delle risorse più dinamiche e resilienti del Paese.
Gli obiettivi del Piano
Dopo aver indicato i soggetti “tipici” dell’economia sociale, il Piano d’Azione individua alcune macroaree di intervento. Si tratta di ambiti distinti ma strettamente collegati, legati dall’idea di fondo che l’economia sociale necessita di condizioni favorevoli per esprimere appieno la sua forza generativa. Dal consolidamento del quadro esistente al miglioramento dell’accesso a strumenti e risorse economiche, dall’attività formativa verso privati ed enti pubblici fino alla definizione di meccanismi di monitoraggio degli obiettivi, ciascuna delle aree racchiude un insieme di azioni che dovranno essere concretamente sviluppate. Vediamo in rapida carrellata le misure previste.
Rinnovare il contesto istituzionale e valorizzare le misure esistenti. Un primo filone del Piano d’Azione è dedicato al contesto istituzionale, ossia a tutto ciò che serve perché l’economia sociale trovi un ambiente capace di accompagnarne la crescita. Il Piano parte da un principio semplice: chi produce valore per la collettività non chiede trattamenti speciali, ma politiche coerenti e strumenti che ne sostengano lo sviluppo. Per questo, si prevede di creare una regia nazionale che assicuri un dialogo continuo tra amministrazioni, territori e rappresentanze del settore.
Una parte significativa del Piano riguarda la fiscalità. Si propone di costruire un quadro capace di riconoscere la specificità degli enti che reinvestono gli utili nelle proprie attività socialmente rilevanti, promuovendo un’impostazione più equa e coerente rispetto alla loro natura non lucrativa. In questo caso esistono già importanti punti di riferimento che hanno inciso nella evoluzione del quadro europeo a partire dalla riforma del terzo settore. Il riferimento è evidentemente alla recente comfort letter della Commissione europea, che ha riconosciuto la compatibilità del regime fiscale italiano del Terzo settore con le regole in materia di aiuti di Stato, ribadendo che gli enti senza scopo di lucro non si “appropriano” mai realmente del valore economico generato. Aspetto, quest’ultimo, che di per se è in grado di escludere tali enti dalle ordinarie forme di tassazione. Sul fronte europeo, il Piano invita a utilizzare in modo più pieno la disciplina sugli aiuti di Stato e sui Servizi di Interesse Economico Generale (SIEG), così da rendere più accessibili i sostegni pubblici a chi produce beni e servizi di utilità collettiva. Ma “rinnovare il contesto” significa anche rafforzare le condizioni materiali in cui queste organizzazioni operano. Il Piano punta, ad esempio, a valorizzare le esperienze delle cooperative di comunità, delle imprese culturali e delle realtà agroalimentari, nonché a sostenere la diffusione delle comunità energetiche rinnovabili. Si prevede inoltre di aggiornare la classificazione delle attività economiche, superando le rigidità dei codici Ateco che spesso impediscono alle organizzazioni multifunzionali di accedere a bandi e incentivi. Del resto i codici Ateco sono pensati per le imprese tradizionali che operano sul mercato con la classificazione dei settori ispirati a logiche non sempre adattabili ai modelli organizzativi dell’economia sociale
Ancora, il lavoro e il volontariato diventano, nella prospettiva del Piano d’azione, due fondamentali punti su cui costruire un nuovo assetto economico e sociale. Il Piano valorizza i soggetti dell’economia sociale che promuovono l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, come cooperative e imprese sociali, riconoscendo la loro funzione come strumenti di integrazione e di cittadinanza attiva. Allo stesso tempo, viene rilanciato il ruolo del volontariato, considerato una risorsa vitale per l’economia sociale: si prevedono, in tal senso, misure per la formazione dei volontari, il riconoscimento delle competenze acquisite e la creazione di piattaforme digitali per facilitare l’incontro tra persone e organizzazioni.
Si riconosce poi nell’amministrazione condivisa uno degli strumenti più innovativi per facilitare iniziative tra pubblico e privato. Si propone quindi di promuovere la co-progettazione e la co-programmazione tra enti locali e enti del Terzo settore, sostenendo economicamente i Comuni che adottano questo modello e raccogliendo le buone pratiche già diffuse in molte Regioni. In questa stessa direzione si muovono le azioni per la transizione ecologica, dove l’economia sociale è chiamata a essere protagonista: si pensi alle pratiche agricole sostenibili e ai progetti di rigenerazione urbana.
Migliorare l’accesso a strumenti e risorse finanziarie. Un secondo ambito del Piano riguarda l’accesso ai finanziamenti, uno dei nodi strutturali per la crescita dell’economia sociale. Molte organizzazioni faticano a ottenere credito perché i criteri bancari non riconoscono il valore del loro patrimonio collettivo né la capacità di generare impatto. Il Piano propone quindi una strategia complessiva per favorire l’inclusione finanziaria del settore, attraverso nuovi strumenti e una migliore integrazione tra risorse pubbliche e private. Si punta, in particolare, a promuovere investimenti “pazienti” e a impatto sociale, che consentano di sostenere le attività di lungo periodo.
Tra le azioni più innovative rientra l’introduzione di un rating sociale, destinato a riconoscere la solidità e l’impatto delle organizzazioni come parametro di merito creditizio. Questo permetterebbe di superare la logica secondo cui il finanziamento degli istituti di credito rivolto verso soggetti non profit esprime profili di rischio per definizione a prescindere dalla reale solidità dei modelli.
Accanto agli strumenti di finanza, il Piano valorizza il ruolo della filantropia e delle fondazioni di origine bancaria, con l’obiettivo di agevolare gli investimenti filantropici riducendo la tassazione sulle rendite reinvestite in progetti di utilità sociale.
Un altro asse di intervento è il rafforzamento delle reti e delle organizzazioni di secondo livello, considerate fondamentali per la rappresentanza, la formazione e il dialogo con le istituzioni. Il Piano prevede misure di sostegno per creare programmi di digitalizzazione e piattaforme per favorire la condivisione di esperienze e la progettazione comune.
Ampio spazio è dedicato anche alla valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e privato. Il Piano mira a promuovere modelli di abitare sostenibile e rigenerazione urbana, istituendo fondi di garanzia per l’housing sociale e favorendo partenariati tra enti pubblici e soggetti dell’economia sociale per il recupero di immobili inutilizzati.
Infine, si incoraggiano partnership tra economia sociale e imprese tradizionali, riconoscendo il valore della collaborazione tra i due mondi. Tra le misure previste: incentivi fiscali per i contratti di rete che coinvolgono enti dell’economia sociale, elenchi di fornitori sociali presso le Camere di commercio e la promozione di forme di welfare aziendale gestite in collaborazione con organizzazioni del Terzo settore.
Formare per riconoscere l’economia sociale
Il Piano d’azione guarda anche alla formazione e alla conoscenza del contesto entro cui operano gli enti dell’economia sociale. Oggi le competenze specifiche in questo campo sono ancora poco diffuse, e ciò rappresenta un ostacolo sia per chi già opera nel settore sia per chi vorrebbe avvicinarsi a questo mondo. Il Piano prevede quindi un insieme di azioni per inserire l’economia sociale nei percorsi scolastici, universitari e professionali, promuovendo una vera e propria cultura dell’economia sociale. Il Piano incoraggia un collegamento stabile tra università, enti del Terzo settore e cooperative, anche attraverso tirocini e programmi condivisi. La formazione riguarda anche la pubblica amministrazione. Perché l’economia sociale possa crescere, è necessario che chi la regola ne conosca davvero il funzionamento. Si propongono quindi percorsi specifici per funzionari e amministratori, manuali operativi, linee guida e attività di assistenza tecnica per rendere più semplice e uniforme il dialogo dell’economia sociale con gli enti pubblici. Di particolare interesse la sezione dedicata alla misurazione dell’impatto sociale come strumento di trasparenza e miglioramento del proprio operato e di conoscibilità verso l’esterno. Il Piano prevede la definizione di standard comuni per la valutazione e la rendicontazione, la diffusione di buone pratiche e la creazione di piattaforme pubbliche per condividere i dati sull’impatto. L’obiettivo è costruire una cultura della valutazione per valorizzare le specificità degli enti e la loro missione collettiva.
Il futuro dell’economia sociale: dal Piano d’Azione ai fatti
Il Piano d’Azione è, prima di tutto, una prova di maturità per il sistema istituzionale. Indica una direzione chiara, ma la sua efficacia dipenderà dalla reale capacità di tradurre le intenzioni in fatti. È un documento che non vive di parole, ma di relazioni: perché funzioni davvero, occorre che tutti gli attori coinvolti si riconoscano parte di uno stesso percorso. La sfida, in fondo, non sta soltanto nello scrivere nuove norme, ma nel far funzionare quelle esistenti, mettendo ordine e continuità in un campo dove troppo spesso le energie si disperdono per mancanza di coordinamento.
Il vero cambio di passo starà, quindi, nel metodo. D’altronde, lo stesso Piano d’Azione invita a “agire come sistema”, a condividere obiettivi e responsabilità, a misurare i risultati non in base alle risorse spese, ma agli effetti reali sul lavoro, sui territori, sulle persone. Significa ripensare la governance pubblica in chiave collaborativa, con una regia nazionale capace di tenere insieme i diversi livelli di governo e di garantire un dialogo stabile con chi opera quotidianamente nel settore.
In questo senso, il Piano rappresenta un punto di partenza importante, perché per la prima volta mette ordine, offre una visione unitaria e riconosce all’economia sociale il posto che le spetta nelle politiche di sviluppo. Ma ogni piano, per quanto ambizioso, resta solo l’inizio di un percorso. Da qui in avanti tutto dipenderà dalla capacità di trasformare i diversi (e meritevoli) obiettivi in risultati concreti.
L’invito è dunque quello di favorire la partecipazione alla consultazione pubblica per fornire un contributo alla costruzione delle nuove tappe dell’economia sociale italiana.