C’è chi pensa che il diritto e le norme attengano solo agli addetti ai lavori, ai professionisti insomma che le praticano e le applicano, dopo averle lette e interpretate. A dire il vero c’è anche chi le scrive, traducendo la volontà politica del legislatore nazionale o regionale. Poi c’è chi le norme le vive in quanto destinatario e sono i cittadini, per un principio costituzionale tutti eguali dinanzi alla legge.
Ma se è indiscutibile che ogni cittadino è eguale dinanzi alla legge, non è certo eguale nelle sue condizioni di partenza, siano esse economiche, sociali, sanitarie, di istruzione, occupazionali, ecc. Non a caso la Repubblica si impegna a rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono l’uguaglianza sostanziale dei cittadini. Quest’ultimo, che non è un principio astratto, “autorizza” il sistema pubblico di sostegno agli studi per gli studenti privi di mezzi economici, il patrocinio legale gratuito per l’imputato che non può permettersi la difesa in giudizio, la casa “popolare” per chi non può averne una in locazione o di proprietà, il reddito di cittadinanza per chi non ha i mezzi per vivere, ecc. Tutto il sistema di solidarietà sociale, in sintesi, discende dal principio di uguaglianza sostanziale. Ma il principio di uguaglianza sostanziale, impatta a ben vedere anche con il modo in cui si scrivono le leggi. Proviamo a spiegarne il perché.
Norme affastellate, non coordinate in un unico testo, scritte male, sovrapposte nel tempo, in contraddizione l’una con l’altra, continuamente necessitate di un’interpretazione che possa farle convivere, non solo confondono e disorientano tutti i cittadini, ma generano disuguaglianze. Situazioni di questo tipo che spesso moltiplicano appelli alla semplificazione, dovrebbero gridare invece all’effettivo rispetto del principio più caro e più importante della nostra Carta Costituzionale e di tutte le civiltà democratiche: il principio di uguaglianza appunto! Infatti se sono un cittadino “svantaggiato” in ragione della mia condizione culturale che non mi permette di orientarmi nella foresta normativa o di quella economica che non mi permette una dotazione di consulenti esperti che mi supportino, la “confusione” legislativa pesa di più su di me rispetto a quella di un cittadino che quello svantaggio non se lo porta sulle spalle.PUBBLICITÀ
Ma non è solo una questione di leggi scritte uguali tra diseguali, per parafrasare Don Milani. È anche questione attinente all’oggetto della tutela che una legge sottende.
Se infatti una normativa vuole tutelare la parte debole, è perché la ritiene meritevole di “difesa” preventiva, in quanto fragile strutturalmente: è quella che in un contratto può patire clausole vessatorie che una parte debole subisce per un palese sbilancio di competenze e potere contrattuale (contratti con il consumatore); è quella che vuole tutelare il soggetto “incapace” (tutela, inabilitazione, amministrazione di sostegno, ecc.); ma è anche quella che vuole prevenire l’abuso tra la parte forte gerarchicamente sovraordinata e quella strutturalmente debole che paga tale sovraordinazione (datore di lavoro/lavoratore o segnalante/segnalato nelle moderne procedure di derivazione anglosassone di whisteblowing per prevenire la corruzione e la cattiva amministrazione nella PA e più in generale nei luoghi di lavoro); è debole anche il diversamente abile che ha diritto all’integrazione e all’inclusione sociale; ecc.
La sistematizzazione legislativa, l’ordine intelligibile con cui questa viene oggettivamente percepita, la sua codicizzazione, se la materia è la tutela delle fragilità, non è solo un fatto di semplificazione o di raffinatezza nello scrivere o di opzione di modello normativo scelto, è essa stessa parte di una tutela piena che, ove mancante la rende nella migliore delle ipotesi parziale, nella peggiore evanescente e solo formale.
Alla luce delle brevi riflessioni fatte, coglierà il lettore che nella tendenza a produrre codici, tutti quelli finora adottati hanno guardato a disciplinare organicamente una materia (il codice penale, il codice civile, il codice di procedura civile, il codice di procedura penale, il codice del processo amministrativo, per citare i principali) con lo scopo prevalente di semplificare e organizzarne sistematicamente una disciplina. Forse, a dire il vero, l’evoluzione della specie codicistica, con il Codice Unico del Terzo Settore ha virato la ratio del redigente legislatore verso la finalità di riorganizzare il paradigma del rapporto tra Stato e “cittadini” attivi, più che di una specifica materia omogenea.
Ma in una società dove le fragilità si modificano come le varianti dei virus e dove un compro auto o un compro oro on line, nei tempi del sovraindebitamento e delle ludopatie, richiedono una tutela strutturata dinanzi a delle debolezze altrettanto strutturate che si misurano con speculazioni legalizzate, non è forse il tempo di avere la consapevolezza che il primo codice su cui impegnarsi a scrivere e legiferare è quello sulle fragilità, da quelle antiche che la natura dona con la diversabilità e con le non autosufficienze, a quelle che il mutare dei fenomeni sociali genera nei comportamenti degenerati e autolesionisti dell’uomo? Perché non organizzare e sistematizzare (e semplificare) la risposta legislativa alla “circonvenzione” di soggetto fragile, nelle forme classiche di quella d’incapace fino a quella più subdola di leggi scritte con lo stesso metodo pur avendo dinanzi una platea di destinatari che pur non incapaci, a ridotta capacità sono per le vicissitudini di vita che hanno patito?
Articolo pubblicato dall’autore sull’Huffington Post del 25 gennaio 2022