Il passaggio di competenze dalla Direzione generale Grow alla Direzione Empl (affari sociali e occupazione) non significa un ritorno al passato. Per quattro motivi
[di Sabina Bellione e Flaviano Zandonai, pubblicato in «Vita» l’8 Maggio 2025]
L’improvvisa chiusura dell’unità dedicata all’economia sociale all’interno della Direzione generale Grow della Commissione Europea impone agli stakeholder del settore di fare “armi e bagagli” – a proposito di armi chissà se dietro a questa decisione c’è anche la nuova strategia europea di riarmo – per trasferirsi altrove.
In realtà non si andrà troppo lontano e in un luogo sconosciuto. Si tratterà della Dg Empl cioè della Direzione generale dedicata agli affari sociali e all’occupazione, dove tutto è nato ormai qualche decennio fa, quando l’Unione europea a impianto burocratico e spinta dall’ideologia del libero mercato ha iniziato ad occuparsi anche del settore “sociale” che dopo vari passaggi terminologici e concettuali – Terzo settore, social business, ecc. – è approdato all’economia sociale.
La chiarezza nei termini definitori
Un marchio, quest’ultimo, ben conosciuto anche se forse storicamente non così carico in termini identitari e di missione perché rimanda a un conglomerato di forme giuridiche e retaggi politico culturali sparsi in giro per l’Europa.
Ma grazie al Piano d’azione europeo per l’economia sociale approvato nel 2021 c’è sicuramente non solo maggiore chiarezza in termini definitori, ma soprattutto un insieme di dispositivi conoscitivi, progettuali e di policy che si possono considerare un’eredità rilevante da trasferire ora in altri contesti, ricominciando così un percorso che già comunque aveva conseguito risultati importanti.
Per questo oltre all’attività di advocacy finalizzata a far cambiare idea alla Commissione grazie in particolare a un appello rilanciato da Social Impact Agenda per l’Italia e già sottoscritto da decine di organizzazioni e reti, può essere utile capitalizzare quanto fin qui realizzato per cercare di rimetterlo in moto all’interno di nuovi contesti di azione.
Le quattro eredità per un nuovo assetto
Perché adesso la palla passa – ancor di più – nel campo degli stakeholder dell’economia sociale, europei e non solo. Sta a loro dimostrare, nei fatti e in senso unitario, che questa politica alimentata in senso top down in questi ultimi anni può funzionare anche a fronte del parziale disinvestimento dell’Europa. Ecco quindi, a nostro avviso, quattro eredità importanti da salvaguardare e reinvestire all’interno di un nuovo assetto (peraltro in buona parte da costruire).
La prima eredità è di tipo politico e si concretizza nella diffusione di piani locali – ma sarebbe interessante se fossero anche settoriali o d’ambito – sull’economia sociale. In Italia c’è Bologna in prima fila, seguita da Torino e auspicabilmente anche da altri territori. C’è poi il Piano nazionale sull’economia sociale in corso di elaborazione e che può trasformare in opportunità questo passaggio negativo facendo recuperare terreno all’Italia, una nazione dove l’economia sociale ha molto peso ma che negli ultimi anni non ha brillato a livello governativo per spirito e capacità d’iniziativa a livello europeo.
Il piano d’azione europeo e le ricadute positive
La seconda eredità è di natura sistemica e si concretizza nei cluster di economia sociale e di prossimità che si sono accreditati grazie a una piattaforma costruita come ricaduta operativa del Piano d’azione europeo. Si tratta, in buona sostanza, di reti locali dove l’economia sociale diventa il vettore per la rigenerazione di economie di prossimità che non si collocano quindi esclusivamente all’interno del suo perimetro ma che ne presentano i caratteri tipici guardando agli impatti che generano a livello di inclusione, coesione sociale, ecc.
Questi cluster – sono decine a livello europeo con una buona rappresentanza a livello nazionale – sono la migliore dimostrazione che l’economia sociale “si può fare” non solo salvaguardando alcune nicchie di rilievo sociale (il welfare ad esempio) ma agendo attraverso una logica di industry che “socializza” segmenti più ampi dell’economia, ad iniziare da quella “sotto casa”: commercio, piccole imprese, ecc.
La leva degli acquisti a impatto sociale da parte non solo di cittadini consapevoli, ma anche di imprese e istituzioni pubbliche (il cosiddetto social procurement) rappresenta una modalità promettente per costituire e consolidare i cluster come distretti e catene del valore contrastando la deriva degli appalti tradizionali e i limiti dell’amministrazione condivisa.
Una terza importante eredità consiste nell’aver inserito l’economia sociale all’interno delle transizioni mainstream della società e dell’economia europea (e non solo) ovvero quelle digitale e ambientale (la cosiddetta twin transition).
La possibilità di accedere a risorse economiche e finanziarie dedicate oltre a programmi di innovazione e capacity anche da parte dell’economia sociale su questi due fronti può consentire di giocare meglio la partita dell’altra transizione, cioè quella giusta (just transition) che tiene assieme, non solo in chiave di tutela ma come fattore di sviluppo, obiettivi di giustizia sociale.
Le sfide epocali cui rispondere
Infine, ma certamente non per ultima, c’è l’eredità rappresentata dalla conoscenza. In questi anni sono state investite risorse per cercare di conoscere meglio ciò che sta tra lo Stato e il mercato nei vari Paesi europei. Indagini, mappature, gruppi di esperti hanno contribuito a definire un quadro piuttosto aggiornato soprattutto di natura definitoria e descrittiva.
Quel che serve oggi è un rilancio della conoscenza per meglio comprendere come l’economia sociale può contribuire a politiche trasformative a più ampio raggio che sono chiamate a rispondere a sfide ambientali e sociali epocali ma che non sembrano ancora adeguatamente performative come dimostrano le difficoltà dell’Agenda 2030 o l’indebolimento delle tassonomie Esg.
Non si tornerà al passato
In sintesi l’improvvisa decisione dei giorni scorsi si configura certamente come un declassamento dell’economia sociale nelle priorità europee, sia a livello di governance che di tecnostruttura.
Ma d’altro canto non si tratterà probabilmente di un ritorno al passato, anzi. Basti pensare alla rilevanza del tema del lavoro e del capitale umano emersa in questi ultimi anni e che potrà essere adeguatamente affrontata all’interno della Direzione Generale Empl. Ma soprattutto l’insieme degli apprendimenti a livello di politica, di cluster locali, di supporti alla twin transition e di conoscenza potranno garantire una base relativamente solida per mantenere l’economia sociale agganciata, nei fatti, alle principali industrie europee.
Un’esigenza che risponde non solo a necessità di salvaguardia del settore ma soprattutto di rafforzamento di quel “terzo pilastro” della società senza il quale l’Unione rischia uno scivolamento verso assetti che la faranno assomigliare sempre meno a quelli preconizzati dai suoi fondatori e faticosamente costruiti nei decenni successivi.