1. Osservazioni preliminari
Probabilmente traendo spunto dall’art. 47 co. 5 CTS, ove si prevede che gli atti costitutivi e gli statuti degli enti del Terzo settore possano essere redatti «in conformità a modelli standard tipizzati»1, la Conferenza Episcopale Italiana (CEI), l’Unione Superiore Maggiori d’Italia (USMI) e la Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori (CISM) hanno recentemente proposto dei «Modelli per l’adesione alle previsioni della Riforma del Terzo settore da parte degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti». Tali Modelli, frutto del lavoro di un comune “Tavolo Terzo settore”, rispondono a «un’esigenza ripetutamente manifestata»2 da molti enti religiosi che ritengono ormai maturi i tempi per un loro ingresso nel Terzo settore: per un verso, infatti, le ultime modifiche agli art. 4, co. 3 CTS e 1, co. 3 d.lgs. 112 del 2017 hanno fugato ogni dubbio sulle modalità costitutive e sugli effetti segregativi del patrimonio destinato da tali enti al proprio ramo del Terzo settore o d’impresa sociale3; per l’altro verso, l’art. 14 del d.m. 106 del 2020 ha puntualmente definito i contenuti del regolamento del medesimo ramo e della domanda d’iscrizione al RUNTS.
È bene precisare fin da subito che l’adozione dei Modelli proposti da CEI, USMI e CISM, non costituisce un obbligo per gli enti della Chiesa cattolica, né nell’ordinamento canonico né in quello civile; essi, piuttosto, vengono proposti quale strumento di lavoro di «carattere generale» per predisporre i documenti necessari all’adesione al Terzo settore, che può e «deve essere valutato nella sua concreta corrispondenza alle caratteristiche e alle esigenze del singolo ente» religioso4.
Nonostante ciò, appare inevitabile che i Modelli in parola costituiranno, per la particolare natura ed autorevolezza della loro fonte, un punto di riferimento privilegiato per gli amministratori e i consulenti degli enti ecclesiastici, divenendo progressivamente cogenti per il consolidarsi della prassi relativa alla loro adozione.
Sempre nell’ambito di brevi osservazioni preliminari, vale la pena di interrogarsi sulla scelta del citato “Tavolo Terzo settore” di predisporre dei Modelli per la costituzione dei rami destinandoli agli «enti ecclesiastici civilmente riconosciuti» – cioè di quegli enti che sono stati «riconosciut[i] agli effetti civili con decreto del Ministero dell’Interno»5 a norma dell’art. 7 dell’Accordo di revisione concordataria e della l. 222 del 1985 – anziché agli «enti religiosi civilmente riconosciuti» a cui il Codice del Terzo settore e il Decreto sull’impresa sociale offrono la possibilità di un accesso limitato ai relativi regimi speciali. Questa scelta, di cui non si dà conto nella Nota di accompagnamento, può spiegarsi in soli due modi: si è inteso – ed è una prima ipotesi – limitare la proposta di documenti standard ai soli enti ecclesiastici riconosciuti sulla base delle disposizioni pattizie poiché tali enti sono di gran lunga i più numerosi, i maggiormente rilevanti dal punto di vista ecclesiale e sociale e quelli soggetti ad un regime speciale che richiede un’attenta opera di coordinazione con la disciplina, altrettanto speciale, del Terzo settore; in alternativa, potrebbe essersi ritenuto che, almeno per quanto concerne gli enti riconducibili alla Chiesa cattolica, gli «enti ecclesiastici civilmente riconosciuti» esauriscano la categoria degli «enti religiosi civilmente riconosciuti» prevista dalla Riforma del Terzo settore, non essendo pertanto consentito alle persone giuridiche di diritto comune che perseguono un fine religioso-cultuale «corrispondente alla missione della Chiesa»6 (ad es., talune confraternite, associazioni private di fedeli, pie fondazioni, opere, etc.) dare vita ad un ramo del Terzo settore o d’impresa sociale7.
Merita, infine, di essere richiamata l’importante ed opportuna avvertenza che chiude la Nota accompagnatoria dei Modelli, con la quale si fa presente agli enti ecclesiastici che, poiché «l’adesione alle previsioni della Riforma comporta costi significativi per il rispetto della relativa disciplina, tanto nella fase iniziale quanto nel periodo successivo», è comunque necessario «un adeguato confronto con la competente autorità ecclesiastica, al fine di identificare le soluzioni più idonee a un’intelligente partecipazione al sistema del Terzo settore».
2. I Modelli di atto
I Modelli proposti dal Tavolo costituito da CEI, USMI e CISM sono quattro: due ad uso esclusivo dei notai e relativi alla predisposizione degli atti di «Adozione del regolamento e destinazione del patrimonio» ai sensi, rispettivamente, dell’art. 4, co. 3 CTS e dell’art. 1, co. 3 d.lgs. 112 del 2017; gli altri due redatti allo scopo di guidare gli enti ecclesiastici, e i loro amministratori e consulenti, nella stesura dei regolamenti dei rami del Terzo settore o d’impresa sociale.
I Modelli di atto, che devono necessariamente essere rivestiti della forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, si aprono con l’indicazione dei dati identificativi dell’ente ecclesiastico costituente il ramo (lett. a) e di coloro che, a norma del Codice di diritto canonico e, quando presenti, del diritto proprio dell’Istituto di vita consacrata ovvero degli statuti, ne sono gli amministratori (lett. b) e rappresentanti legali (lett. c).
Segue, poi, l’esplicito richiamo alla possibilità per gli enti ecclesiastici di «svolgere attività diverse da quelle di religione o di culto»8, anche «rient[ranti] nella nozione di attività di interesse generale» o d’«impresa di interesse generale» e per «il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale» (lett. d). Il riferimento a quest’ultimo carattere teleologico – ripreso anche negli artt. 2 e 3 dei Modelli di regolamento – appare tuttavia poco appropriato, poiché, fermo restando il divieto di distribuzione di utili in qualunque forma, tutte le attività degli enti ecclesiastici concorrono al perseguimento del loro fine «costitutivo ed essenziale» «di religione o di culto»9: è per tale ragione, infatti, che il Codice del Terzo settore e il Decreto sull’impresa sociale, nell’imporre anche agli enti religiosi l’adeguamento alle rispettive norme, fanno salvo «in ogni caso» il rispetto della «finalità di tali enti»10 e che l’art. 14 del d.m. 106 del 2020 non contempla le «finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale» tra i contenuti del regolamento del ramo.
Gli atti proposti da CEI, USMI e CISM proseguono, quindi, con un richiamo alle condizioni costitutive, del regolamento, del patrimonio destinato e delle scritture contabili separate, poste dagli art. 4, co. 3 CTS e 1, co. 3 d.lgs. 112 del 2017 (lett. e).
Le premesse contenute nei Modelli si concludono dando conto (lett. f) del rispetto dei controlli canonici in fase di costituzione del ramo e del patrimonio ad esso destinato, di cui dà prova un’apposita autorizzazione o dichiarazione della «competente autorità canonica» allegata all’atto e alla domanda di iscrizione al RUNTS11.
Quando, infatti, l’«adesione alle previsioni della Riforma del Terzo settore» comporta il compimento di atti che – a norma del Codice di diritto canonico, delle delibere della Conferenza episcopale italiana12, di appositi decreti vescovili, del diritto proprio dell’Istituto di vita consacrata o dello statuto dell’ente – eccedono «il limite e le modalità dell’amministrazione ordinaria»13 o «da cui la situazione patrimoniale della persona giuridica potrebbe subire detrimento»14, tale adesione dev’essere preventivamente autorizzata dell’autorità canonica15; diversamente, se la costituzione del ramo ricade nell’alveo dell’ordinaria amministrazione, o comunque gli atti che ne derivano non sono soggetti ad alcun controllo, è ugualmente richiesta una dichiarazione della medesima autorità che certifichi che l’iscrizione al RUNTS non necessita di alcuna autorizzazione.
In proposito, è interessante notare che il riferimento a quest’ultima dichiarazione, richiesta dall’art. 14, co. 3 del d.m. 106 del 2021 ai fini dell’iscrizione al RUNTS degli enti religiosi, è stato previsto anche nel Modello di atto costitutivo del ramo d’impresa sociale, sebbene non vi siano norme che espressamente la esigono per l’iscrizione al Registro delle imprese16.
«Tutto ciò premesso e considerato», i Modelli di atto prevedono: l’adozione del regolamento per lo svolgimento di attività di interesse generale ai sensi del Codice del Terzo settore o del Decreto sull’impresa sociale; la destinazione dei beni come individuati da apposito allegato; la delega al legale rappresentante dell’ente ecclesiastico, o al legale rappresentante della rete associativa cui l’ente medesimo aderisce17, a depositare presso il RUNTS ovvero presso il Registro delle imprese, l’atto stesso, il regolamento e gli altri allegati nonché a «svolgere ogni altra pratica a tal fine necessaria», conferendogli tutti i relativi poteri e facoltà.
3. I Modelli di regolamento
Nel loro complesso i Modelli di regolamento riproducono i contenuti statutari imposti dal Codice del Terzo settore e dal d.lgs. 112 del 2017 alle associazioni, alle fondazioni e agli altri enti che intendono assumere la qualifica di ETS o d’impresa sociale, con talune significative deroghe e con i necessari adattamenti. Talvolta tali deroghe e adattamenti risultano legittimati dagli espliciti esoneri pervisti per gli enti religiosi nelle disposizioni della Riforma (come quello relativo all’obbligo di utilizzare l’acronimo ETS o altro acronimo); talaltra, essi sono possibili grazie alla clausola generale del «rispetto – in ogni caso – della struttura e della finalità» degli enti religiosi, contenuta negli articoli 4, co. 1 CTS e 3, co.1 d.lgs. 112 del 2017 (ad es., il rinvio alle limitazioni ai poteri degli amministratori derivanti dai controlli canonici dotati di rilevanza civile).
La norma di apertura dei Modelli affronta, seppur implicitamente, il tema della denominazione del ramo: la condivisibile scelta del “Tavolo Terzo settore” è stata quella di non prevedere nel regolamento una denominazione specifica per indentificare il ramo ma di limitarsi a richiamare quella dell’ente ecclesiastico esercente l’attività, il quale è comunque esonerato dall’obbligo di utilizzo dell’acronimo ETS e di qualunque altro acronimo o indicazione, a norma degli articoli 12, co. 2 CTS e 6, co. 2, d.lgs. 112 del 2017.
Nei successivi articoli 2 e 3 i Modelli illustrano, rispettivamente, le attività di «interesse generale» e «diverse» che afferiscono al ramo. Per ciò che concerne le prime, i Modelli raccomandano di «indicare le attività di interesse generale effettivamente svolte con l’esplicito riferimento all’art. 5 CTS» o «2 DIS»: a tal proposito si può però osservare che, avendo il regolamento (al pari di uno statuto) un carattere anche programmatico, risulta senz’altro legittima la previsione al suo interno anche di attività di interesse generale che non sono (ancora) «effettivamente svolte» ma che l’ente intende sviluppare nel contesto del proprio ramo18. Inoltre, sarebbe stato opportuno richiamare gli estensori dei regolamenti alla necessità di integrare l’«esplicito riferimento» ai settori di attività di cui all’art. 5, co 1 CTS e 2 d.lgs. 112 del 2017 con «ulteriori specificazioni [ad esempio di carattere esemplificativo] circa i contenuti delle attività medesime», come richiesto in sede ministeriale19 e da taluni Uffici regionali del RUNTS. Nel Modello di regolamento per il ramo del Terzo settore si avverte, poi, la carenza del riferimento testuale allo «svolgimento, in via esclusiva o principale» delle attività di interesse generale, in simmetria con il carattere «stabile e principale» che esplicitamente connota l’attività d’impresa di interesse generale del ramo d’impresa sociale.
Quanto, invece, alle «attività diverse», i Modelli di regolamento propongono una clausola (art. 3) completamente aperta, con il solo vincolo del rispetto dei «modi e [d]ei limiti previsti dalla legge»20; nel caso del regolamento di ramo d’impresa sociale si prevede anche l’obbligo di «document[are] il carattere secondario e strumentale delle attività diverse in conformità a quanto previsto dalla legge», obbligo a cui sono tuttavia soggetti anche gli enti ecclesiastici che costituiscono un ramo del Terzo settore per generale disposizione dell’art. 13, co. 6 CTS.
Gli articoli 4 e 5 sono dedicati al divieto di distribuzione diretta e indiretta degli utili, con il richiamo delle relative previsioni di legge, e all’individuazione del patrimonio destinato mediante rinvio all’apposito allegato. Correttamente l’art. 6 del Modello di regolamento del ramo del Terzo settore, ove si prevede l’obbligo di devolvere «a uno o più enti iscritti nel RUNTS» «gli incrementi patrimoniali realizzati nel periodo in cui l’Ente è stato iscritto nel Registro» «qualora il regime previsto dal CTS cessi di trovare applicazione», non è stato riprodotto nel Modello di regolamento del ramo d’impresa sociale: l’art. 12, co. 5 del d.lgs. 112 del 2017 esonera infatti gli enti religiosi da qualunque obbligo devolutivo e qualora l’ente religioso dovesse cessare la propria attività d’impresa, ovvero perdere la qualifica d’impresa sociale, il patrimonio residuo tornerebbe a confondersi con il restante patrimonio dell’ente.
Seguono, quindi, le disposizioni regolamentari (artt. 7-10; artt. 6-9) dedicate alle scritture contabili, al bilancio, al bilancio sociale, ai libri sociali e al trattamento economico e normativo dei lavoratori impiegati nell’attività del ramo: ciascuna di esse tiene conto delle disposizioni generali del Codice del Terzo settore e delle norme specifiche dettate per le imprese sociali.
Entrambi i Modelli di regolamento contengono, poi, un articolo (art. 11; art. 10) sul «Lavoro volontario» d’identico contenuto, che, dopo aver affermato la facoltà di avvalersi di volontari nello svolgimento delle attività di interesse generale e diverse del ramo, regolano i rapporti economici con questi ultimi, sancendo il divieto di retribuzione e le modalità e i limiti dei rimborsi spesa. Per quanto riguarda il Modello di regolamento di ramo d’impresa sociale sarebbe stato tuttavia opportuno richiamare anche i limiti posti dall’art. 13, co. 2 e 2-bis del d.lgs. 112 del 2017, ove si stabilisce che «il numero dei volontari impiegati nell’attività d’impresa […] non può essere superiore a quello dei lavoratori» e che le «prestazioni di attività di volontariato possono essere utilizzate in misura complementare e non sostitutiva rispetto ai parametri di impiego di operatori professionali previsti dalle disposizioni vigenti». Non vi è ragione, infatti, per ritenere tali limiti derogati dalla clausola, contenuta nel primo comma del medesimo art. 13, che fa «salva la specifica disciplina per gli enti [religiosi]»; ad essa sembra piuttosto doversi attribuire la sola funzione di escludere dal calcolo del rapporto lavoratori-volontari tutti quei soggetti (chierici, religiosi, etc.) che, religionis causa, prestano la loro attività lavorativa gratuitamente in favore del ramo d’impresa sociale dell’ente ecclesiastico.
Di particolare rilevanza sono le norme dei due Modelli che trattano dei poteri di gestione e di rappresentanza del ramo (art. 12; art. 11). In tali disposizioni si ammette, sulla linea tracciata dall’art. 14, co. 1, lett. g), d.m. 106 del 2020, che la gestione delle attività del ramo e del patrimonio ad esse destinato nonché la rappresentanza dell’ente in tutti gli atti e i negozi che vi afferiscono, possano essere attribuite a soggetti differenti rispetto a coloro cui competono l’amministrazione e la rappresentanza dell’ente ecclesiastico. Infatti – spiega la Nota di accompagnamento ai Modelli – «[t]alune circostanze possono sollecitare la coincidenza dei soggetti a cui è attribuita [l’amministrazione e] la legale rappresentanza (per es.: nel caso di legale rappresentante di un Istituto che gestisce opere sanitarie); in altri casi, invece, può essere opportuno attribuire [l’amministrazione e la] legale rappresentanza per lo svolgimento delle attività di interesse generale a un soggetto diverso (per es.: al preside, anziché al parroco, per la gestione di una scuola parrocchiale)».
Le clausole regolamentari sui poteri di gestione e rappresentanza del ramo sono integrate da una norma (art. 13; art. 12) specificatamente dedicata alle limitazioni a tali poteri e ai relativi controlli interni «in conformità alle risultanze del Registro delle Persone giuridiche», nonché alle «condizioni di validità o di efficacia degli atti giuridici prescritte da[ll’ordinamento canonico]» e aventi rilevanza civile, come richiesto dall’art. 14, co. 1, lett. g) e h) del d.m. 106 del 2020.
In merito ad essa vale la pena di evidenziare, sotto il profilo metodologico, che i redattori dei Modelli suggeriscono di non «prevedere espressamente» nel regolamento le singole «condizioni di validità o di efficacia degli atti» stabilite dall’ordinamento canonico, ma propongono un’opportuna formula generica di rinvio alle fonti che le stabiliscono (il Codice di diritto canonico, le delibere della Conferenza Episcopale Italiana, i decreti vescovili, il diritto proprio degli Istituti di vita consacrata e gli statuti), accompagnato dal richiamo all’art. 18 della l. 222 del 1985 che ad esse attribuisce rilevanza civile.
Per quanto riguarda, poi, la formulazione testuale della disposizione sulle «condizioni di validità ed efficacia degli atti giuridici», si devono rilevare due criticità. Anzitutto, in essa si presuppone che tali condizioni coincidano necessariamente con un’«autorizzazione della competente autorità ecclesiastica», quando invece vi sono casi in cui l’ordinamento canonico subordina la validità degli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione ad altro genere di controlli, come ad esempio il consenso di specifici organi interni dell’ente ecclesiastico21. In secondo luogo, il passaggio della norma in cui si afferma che gli atti che la necessitano «producono effetti nell’ordinamento civile solo in presenza» dell’autorizzazione dell’autorità ecclesiastica sembra tradire l’adesione a quella linea interpretativa che riconduce i controlli canonici dotati di rilevanza civile a mere condizioni di efficacia di tali atti nell’ordinamento dello Stato, quando l’orientamento maggioritario e la Corte di Cassazione ne fanno invece dipendere la validità degli stessi22.
Disciplinati i poteri di gestione e di rappresentanza, il Modello di regolamento del ramo d’impresa sociale prevede anche la costituzione di un organo di controllo interno, con la composizione, i requisiti e le attribuzioni previste dall’art. 10 del d.lgs. 112 del 2017 e l’obbligo della revisione legale qualora «vengano superati due dei limiti di cui all’art. 2435-bis c.c.» (artt. 13 e 14).
Il Modello per il regolamento del ramo del Terzo settore, invece, contempla tale «organo di controllo di carattere tecnico» solo come «eventuale», suggerendo, «[i]n assenza di una specifica disposizione di legge» che lo imponga, di «valutare con attenzione» l’opportunità di prevederlo nel regolamento23. Rispetto a tale indicazione tocca però rilevare che non vi sono specifiche disposizioni di legge che richiedono agli enti religiosi di nominare un organo di controllo e che l’obbligatorietà o meno del medesimo dipende da un esercizio interpretativo dall’esito piuttosto incerto: per un verso, infatti, l’organo di controllo è imposto dall’art. 30 CTS alle fondazioni e a tutti quegli ETS che «costituiscono un patrimonio destinato ai sensi dell’articolo 10», cioè ad enti che risultano per più ragioni assimilabili agli enti religiosi che costituiscono un patrimonio destinato al proprio ramo del Terzo settore; per l’altro verso, però, l’obbligatorietà di tale organo è prevista per le associazioni ETS solo al superamento di certi limiti economico-dimensionali dell’attività24 e, soprattutto, l’art. 14 co. 2 del d.m. 106 del 2020 non ne contempla la nomina tra i contenuti del regolamento del ramo. Stante tale situazione d’incertezza e le indiscutibili ricadute benefiche sulla gestione del ramo che la costituzione di un organo di controllo determina, la sua previsione nel regolamento è senz’altro opportuna, magari optando per una composizione monocratica che consente di contenere i costi connessi alla necessità di avvalersi di professionisti qualificati.
I Modelli si chiudono con due norme (artt. 14,15; artt. 15,16) dedicate alla «Raccolta fondi», che deve essere organizzata nel rispetto delle apposite Linee guida ministeriali, e alle modifiche del regolamento, la cui competenza può essere attribuita tanto all’amministratore dell’ente quanto, se differente, a quello del ramo, entrambi ugualmente tenuti al rispetto delle «norme previste dal diritto canonico universale e particolare» e al deposito del regolamento modificato nel RUNTS o nel Registro delle imprese.