Appunti e spunti in tema di impresa sociale degli enti ecclesiastici

1. Introduzione: la natura opzionale (anche per gli enti ecclesiastici) delle qualifiche di ente del terzo settore e di impresa sociale

2. I presupposti della scelta: il regime d’esenzione di cui godono gli enti ecclesiastici che gestiscono “direttamente” le attività

3. Il “ramo impresa sociale” e il problema della separazione patrimoniale

4. Le ragioni in favore della scelta per la “soggettivizzazione”

5. La variabile della governance

6. Conclusioni

Introduzione: la natura opzionale (anche per gli enti ecclesiastici) delle qualifiche di ente del terzo settore e di impresa sociale

Ci si propone in questo scritto di analizzare alcuni profili rilevanti, di matrice prevalentemente giuridico-organizzativa, ai fini della scelta da parte di un ente ecclesiastico (ovvero di un “ente religioso civilmente riconosciuto”) tra il gestire in proprio un’impresa sociale (in qualsiasi settore di interesse generale: socio-assistenziale, socio-sanitario, sanitario, educativo, ecc.) oppure affidarla ad un ente strumentale (e precisamente ad una società, s.r.l. o s.p.a., unipersonale) da esso a tal fine appositamente costituito.

Si assumono qui come già preliminarmente risolte in senso affermativo dall’ente ecclesiastico che deve fronteggiare la scelta le seguenti questioni:

– se “entrare” oppure no nel terzo settore, e specificamente nell’impresa sociale di cui al d.lgs. 112/2017;

– se preferire, a tal fine, l’opzione d’ingresso rappresentata dall’“impresa sociale” rispetto alle altre possibili opzioni consentite dal d.lgs. 117/2017, recante il Codice del terzo settore (o CTS). Occorre infatti essere consapevoli del fatto che quella di cui al CTS e al d.lgs. 112/2017 è una disciplina del tutto opzionale, e che quella di “ente del terzo settore” (o, più in particolare, di “impresa sociale”) è una qualifica che un ente in possesso dei necessari requisiti di legge ha la facoltà di assumere, ma non è affatto costretto ad acquisire. Il terzo settore è dunque una “casa aperta” e non già una “prigione”1.

Può ospitare gli enti che lo desiderino (e che ovviamente decidano di conformarsi alle “regole della casa”), ma non costringe nessuno a risiedervi. Ciò significa che la scelta di fare ingresso nel terzo settore si fonda su una preventiva valutazione di opportunità, la quale, a sua volta, se le finalità altruistiche o solidaristiche dell’ente sono davvero effettive (ciò che nel caso degli enti ecclesiastici diamo per scontato), non può che riguardare la convenienza di tale accesso sotto il profilo del migliore svolgimento delle attività di interesse generale e conseguentemente del più efficace soddisfacimento dell’interesse dei beneficiari di tali attività. Al riguardo, si deve riconosce che, guardando alla realtà degli enti ecclesiastici, la gran mole di commenti (anche molto autorevoli) e di eventi (convegni, seminari, ecc.) dedicati agli enti ecclesiastici nella riforma del terzo settore sembra confermare il grande interesse di questo mondo verso la nuova disciplina2.

In secondo luogo, bisogna considerare che la “casa aperta” del terzo settore hanumerose “porte di accesso”. Sono sette, precisamente, quante sono le sezioni del Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (o RUNTS), recente oggetto del d.m. 106/2020 che ne disciplina funzionamento e gestione. Ciascun ente, quindi, incluso un ente ecclesiastico (le cui modalità d’ingresso nel terzo settore sono peraltro, come vedremo, molto particolari), deve decidere da quale porta accedere alla casa del terzo settore, ovverosia se assumere la qualifica di impresa sociale o quella di organizzazione di volontariato (ODV) o di associazione di promozione sociale (APS), ecc., tenendo conto che è possibile accedere soltanto da una porta, anche se successivamente, all’interno della casa, è consentito cambiare veste3.

La presente analisi, pertanto, potrebbe essere di supporto ad un ente ecclesiastico che abbia già deciso di avvalersi della disciplina sul terzo settore e più in particolare di quella di cui al d.lgs. 112/2017. Se la questione relativa all’an è risolta positivamente, l’ente ecclesiastico deve subito dopo affrontare la scelta relativa al quomodo. È qui che, almeno così si spera, gli argomenti presentati in questo studio potranno contribuire ad orientare coloro che avranno la pazienza di leggerli.

I presupposti della scelta: il regime d’esenzione di cui godono gli enti ecclesiastici che gestiscono “direttamente” le attività

Ciascun ente ecclesiastico deve dunque affrontare una scelta che, per comodità espositiva, si può sintetizzare e rappresentare nella maniera seguente:

OPZIONE “A”gestire le attività d’impresa di interesse generale “direttamente”, costituendo un “ramo impresa sociale”
OPZIONE “B”gestire le attività d’impresa di interesse generale “indirettamente”, costituendo un ente strumentale (una s.r.l. o una s.p.a. di cui l’ente ecclesiastico è unico socio)

Deve ammettersi che, a ben guardare, la scelta tra gestione “diretta” e gestione “indiretta” è a disposizione non solo degli enti ecclesiastici, ma più in generale di tutti gli enti ai quali la legge riconosce la possibilità di controllare un’impresa sociale4. Enti senza scopo di lucro ed enti (già) del terzo settore possono infatti decidere se assumere la qualifica di impresa sociale (gestione “diretta”) oppure costituire un’impresa sociale societaria da essi controllata (gestione “indiretta”)5. Nondimeno, nel caso in cui la scelta tra le due opzioni debba essere fatta da un ente ecclesiastico, vi sono delle specificità che rendono l’alternativa affatto peculiare.

Da dove deriva la speciale posizione degli enti ecclesiastici rispetto alla disciplina del terzo settore e dell’impresa sociale? Essa discende dal fatto che agli enti ecclesiastici il legislatore della riforma del 2017 – attenendosi ad un modello già utilizzato in passato (precisamente nel d.lgs. 460/1997 sulle ONLUS) – ha riservato un trattamento particolare, da ritenersi peraltro non già (ingiustificatamente) “privilegiato”, bensì (ragionevolmente) “adeguato” alle loro caratteristiche anche normative6.

Tale speciale trattamento trova fonte nell’art. 1, comma 3, d.lgs. 112/2017 (e più in generale nell’art. 4, comma 3, CTS), secondo cui:

Agli enti religiosi civilmente riconosciuti le norme del presente decreto si applicano limitatamente allo svolgimento delle attività di cui all’articolo 2, a condizione che per tali attività adottino un regolamento, in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata, che, ove non diversamente previsto ed in ogni caso nel rispetto della struttura e delle finalità di tali enti, recepisca le norme del presente decreto. Per lo svolgimento di tali attività deve essere costituito un patrimonio destinato e devono essere tenute separatamente le scritture contabili di cui all’articolo 9”.

Questa disposizione dice non soltanto che gli enti ecclesiastici possono anch’essi avvalersi del d.lgs. 112/2017 per esercitare un’attività d’impresa di interesse generale (auto-vincolandosi alla normativa in questione mediante l’adozione di uno specifico “regolamento”), ma anche (e soprattutto) che essi possono farlo in un contesto più favorevole rispetto agli altri enti, poiché molti oneri e vincoli di cui al d.lgs. 112/2017 non sono applicabili agli enti ecclesiastici (sicché il “regolamento” dell’ente ecclesiastico non deve necessariamente recepirli).

Le norme del decreto, infatti, si applicano agli enti ecclesiastici “ove non diversamente previsto ed in ogni caso nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti”. Anzi, volendo, talmente ampio è il quadro delle esenzioni totali o parziali disposte dal legislatore in loro favore che si fa forse prima a dire quali norme del d.lgs. 112/2017 siano integralmente applicabili agli enti ecclesiastici che quali norme invece non lo siano o lo siano soltanto parzialmente.

V’è infatti, innanzitutto, una lunga serie di disposizioni che danno sostanza a quel “diversamente previsto” di cui all’art. 1, comma 3, d.lgs. 112/2017, prevedendo deroghe espresse o parziali alla disciplina applicabile agli enti ecclesiastici.

Tali disposizioni sono:

a) l’art. 2, comma 6, secondo il quale le disposizioni di cui ai commi 3 e 5 dell’articolo medesimo si applicano a tali enti solo limitatamente allo svolgimento delle attività di cui al medesimo articolo;

b) l’art. 5, comma 4, secondo cui gli enti ecclesiastici sono tenuti a depositare nel registro delle imprese soltanto il regolamento (e le sue modificazioni);

c) l’art. 6, comma 2, che esclude l’applicazione agli enti ecclesiastici del comma 1 dell’articolo medesimo sull’onere di inserire nella denominazione dell’ente e di far uso della locuzione “impresa sociale”;

d) l’art. 9, comma 3, secondo il quale le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo medesimo si applicano agli enti ecclesiastici solo limitatamente alle attività indicate nel regolamento;

e) l’art. 11, comma 5, secondo cui non sono applicabili agli enti ecclesiastici le disposizioni di cui all’art. 11 in tema di coinvolgimento di lavoratori, utenti e altri soggetti interessati all’attività;

f) l’art. 12, comma 1, ultimo periodo, secondo il quale le disposizioni di cui al medesimo comma 1 si applicano agli enti ecclesiastici solo limitatamente alle attività indicate nel regolamento;

g) l’art. 12, comma 5, ultimo periodo, che esclude l’applicazione agli enti ecclesiastici delle disposizioni di cui al comma 5 dell’articolo medesimo, in tema di destinazione del patrimonio residuo in caso di scioglimento dell’ente o di perdita volontaria della qualifica di impresa sociale;

h) l’art. 13, comma 2, che fa salva la specifica disciplina degli enti ecclesiastici in materia di attività di volontariato;

i) l’art. 14, comma 6, che esclude l’applicazione agli enti ecclesiastici delle disposizioni di cui all’art. 14 in tema di procedure concorsuali.

Non si deve poi trascurare il collegamento esistente tra il d.lgs. 112/2017 e il d.lgs. 117/2017 recante il Codice del terzo settore. Infatti, ai sensi dell’art. 1, comma 5, d.lgs. 112/2017, “alle imprese sociali si applicano, in quanto compatibili con le disposizioni del presente decreto, le norme del codice del Terzo settore di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117”. In maniera speculare, l’art. 3, comma 1, CTS, prevede l’applicabilità delle disposizioni del Codice anche agli enti del terzo settore, come le imprese sociali, che hanno una disciplina particolare, purché le prime non siano derogate dalla seconda e siano con quest’ultima compatibili.

Dovendosi ritenere questa correlazione tra fonti rilevante anche per gli enti ecclesiastici (pur non essendo in senso stretto questi ultimi né imprese sociali né enti del terzo settore sottoposti ad una disciplina particolare), ne discende la non applicabilità agli enti ecclesiastici esercenti un’impresa sociale attraverso un “ramo” dell’art. 15, comma 3, CTS, sul diritto degli associati o aderenti di esaminare i libri sociali dell’ente del terzo settore, e dell’art. 29, comma 1 e 2, CTS, sul potere di denunzia al tribunale o all’organo di controllo (rispettivamente esclusi dagli articoli 15, comma 4, e 29, comma 3, CTS).

Vi sono infine alcune disposizioni che risultano tendenzialmente inapplicabili agli enti ecclesiastici poiché contrastanti con la loro particolare “struttura”. È il caso degli articoli 7, comma 1, e 8 del d.lgs. 112/2017, volti a regolare enti a struttura associativa e perciò non estensibili agli enti ecclesiastici che tale struttura non hanno.

Le disposizioni che residuano, e che sono dunque integralmente applicabili agli enti ecclesiastici (ancorché indirettamente, attraverso il “regolamento”), sono pertanto esclusivamente quelle di cui agli articoli 2, 3, 4, 7, commi 2 e 3, 9, 10, 13, comma 1, 15, 16 e 18, comma 1.

Considerato che molte di queste disposizioni si limitano a configurare la fattispecie impresa sociale senza imporre oneri agli enti (si pensi all’articolo 2) o ad attribuire loro facoltà (cfr. articolo 16) e benefici (cfr. art. 18, comma 1), il quadro che ne risulta appare molto favorevole agli enti ecclesiastici che vogliano costituire un “ramo impresa sociale”7, al punto tale che occorre domandarsi se, alla luce di tutto ciò, la questione della scelta tra le due opzioni disponibili ai nostri enti non sia già da considerarsi risolta nel senso della preferenza per l’opzione “A” rispetto alla “B”.

Il “ramo impresa sociale” e il problema della separazione patrimoniale

La risposta, tuttavia, non è scontata come potrebbe a prima vista apparire sulla base delle considerazioni sin qui svolte.

V’è infatti un altro fondamentale elemento da valutare con particolare attenzione, che è quello del rischio d’impresa e della conseguente responsabilità patrimoniale del soggetto cui l’impresa sia giuridicamente imputabile.

È chiaro infatti che, selezionando l’opzione “A”, l’ente ecclesiastico, gestore “diretto” di un’impresa di interesse generale, risponderebbe con tutti i propri beni delle obbligazioni contratte nell’esercizio della medesima. Anche tenendo conto della fisiologica destinazione dei beni degli enti ecclesiastici alle loro immanenti finalità di religione e culto, ciò potrebbe rivelarsi determinante in favore dell’opzione “B”, poiché la costituzione di un soggetto ad hoc per la gestione dell’impresa d’interesse generale consentirebbe all’ente ecclesiastico di limitare il rischio d’impresa al conferimento in società, ovvero alla quota di capitale sociale sottoscritta, essendo s.r.l. e s.p.a. (anche se unipersonali) tipi societari a responsabilità limitata. Ciò avrebbe ancora più senso qualora si scartasse l’interpretazione, invero minoritaria, secondo cui il legislatore della riforma del terzo settore, facendo riferimento alla costituzione di un “patrimonio destinato” nell’art. 1, comma 3, d.lgs. 112/2017 (così come nell’art. 4, comma 3, CTS), abbia in tal modo automaticamente reso “separato” (dal restante patrimonio) il patrimonio destinato dall’ente ecclesiastico al “ramo impresa sociale”, che sarebbe pertanto l’unico aggredibile dai creditori “particolari” del “ramo”, mentre non lo sarebbe dai creditori “generali” dell’ente ecclesiastico. In sostanza, secondo questa tesi, l’art. 1, comma 3, d.lgs. 112/2017 (e l’art. 4, comma 3, CTS), sarebbe “uno dei casi stabiliti dalla legge” cui fa rinvio l’art. 2740, comma 2, c.c., al fine di limitare l’altrimenti generale soggezione del patrimonio del debitore (“tutti i suoi beni presenti e futuri”) alla responsabilità per inadempimento delle obbligazioni8.

V’è tuttavia da considerare che – pur condividendo l’opinione maggioritaria secondo la quale il patrimonio destinato al “ramo” di per sé non sia sostanzialmente “separato” ai sensi ed effetti di cui all’art. 2740, comma 2, c.c. – nulla impedirebbe all’ente ecclesiastico che intendesse insistere con l’opzione “A” di avvalersi di norme e istituti civilistici che consentano di spezzare l’unità del suo patrimonio, creando patrimoni separati per determinate attività.

In sostanza, se l’art. 1, comma 3, d.lgs. 112/2017, non è di per sé idoneo a produrre l’effetto di separazione, tale effetto ben potrebbe ottenersi sulla base di altre norme o istituti generali di legge.

Tralasciando qui figure come il trust, i fondi comuni di investimento, i vincoli di destinazione di cui all’art. 2645-ter, c.c., il primo istituto che viene in mente è quello dei “patrimoni destinati ad uno specifico affare” di cui all’art. 2447-bis e seguenti, c.c. Lo è perché l’art. 10 CTS espressamente ne estende l’applicazione agli enti del terzo settore muniti di personalità giuridica ed iscritti nel registro delle imprese.L’art. 10 CTS è dunque applicabile agli enti ecclesiastici che depositano il proprio regolamento nella sezione “imprese sociali” del Registro delle imprese, e rappresenta la via maestra per attribuire al “ramo” un patrimonio che sia effettivamente “segregato” non solo perché esclusivamente su di esso possono concentrarsi le pretese dei creditori “particolari” del “ramo”, ma anche perché inattaccabile dai creditori “generali” dell’ente ecclesiastico. La separazione “bilaterale” o “a doppio senso”9 disposta dall’art. 2447-quinquies c.c. con riguardo ai patrimoni destinati ad uno specifico affare soddisfa l’esigenza dell’ente ecclesiastico di non rischiare di compromettere (tutti) i propri beni per attività diverse da quelle di culto e religione.

Nella disciplina vigente si trova tuttavia un potenziale ostacolo che può superarsi soltanto con un’attenta ed intensa attività interpretativa (che gli enti ecclesiastici potrebbero promuovere).

Infatti, l’art. 2447-bis, comma 2, c.c., in principio applicabile (considerato il generico rinvio presente nell’art. 10 CTS) anche ai patrimoni destinati ad uno specifico affare dagli enti del terzo settore, stabilisce che “salvo quanto disposto in leggi speciali, i patrimoni destinati ai sensi della lettera a) del primo comma non possono essere costituiti per un valore complessivamente superiore al dieci per cento del patrimonio netto della società”. Si tratta indubbiamente di un serio (sebbene non insuperabile) limite, anche per gli enti ecclesiastici.

Sorge il dubbio, però, se questo limite del dieci per cento sia “compatibile” con la natura degli enti ecclesiastici e con la particolare modalità con cui essi si avvalgono della disciplina dell’impresa sociale. Se infatti il limite può avere un senso in materia di società per azioni e di imprese sociali in generale (che istituzionalmente svolgono attività commerciali)10, esso appare invece irragionevole se riferito ad enti la cui attività istituzionale sia quella di religione e di culto11.

Infatti, istituendo un “ramo” e destinandovi un patrimonio separato, gli enti ecclesiastici non parcellizzano la propria complessiva attività d’impresa, ma separano l’attività d’impresa da quella istituzionale che tale natura non ha (né potrebbe avere). Non vi sarebbe pertanto alcun rischio aggiuntivo per i creditori “generali” dell’ente ecclesiastico, che anzi dalla separazione potrebbero trarre il beneficio di evitare il concorso con i creditori di attività necessariamente rischiose come quelle d’impresa. Quanto invece ai creditori del “ramo impresa sociale”, la conoscenza preventiva che essi hanno della separazione (la deliberazione istitutiva deve infatti pubblicarsi nel registro delle imprese ai sensi dell’art. 2447-quater c.c.) è sufficiente a porli al riparo da affidamenti mal risposti sulla solidità patrimoniale del soggetto con cui si relazionano.

In conclusione, grazie all’art. 10 CTS, gli enti ecclesiastici possono costituire un patrimonio separato ai sensi dell’art. 2447-quinquies c.c. da destinare al proprio “ramo impresa sociale”. V’è il vincolo del 10% rispetto al patrimonio netto, ma esso potrebbe superarsi o mediante l’interpretazione della norma in precedenza suggerita, che fa leva sull’incompatibilità del limite del 10% di cui all’art. 2447-bis, comma 2, c.c. con la struttura e la funzione degli enti ecclesiastici, oppure mediante una modifica dell’art. 10 CTS, che potrebbe sotto questo specifico profilo espressamente derogare all’art. 2447-bis, comma 2, c.c., eventualità che già, peraltro, il medesimo art. 2447-bis, comma 2, contempla.

È chiaro che nel caso in cui nessuna di queste due situazioni si verificasse, ovvero qualora né l’interpretazione proposta né la modifica legislativa avessero seguito, l’opzione “B”, cioè la costituzione di un ente strumentale per l’esercizio di un’impresa d’interesse generale, riguadagnerebbe terreno, dando luogo, grazie alla soggettivazione, ad un patrimonio sicuramente separato, con l’effetto di circoscrivere il rischio dell’ente ecclesiastico al capitale conferito in società. Una modifica all’art. 10 CTS nel senso suindicato o il prevalere dell’interpretazione dell’art. 10 CTS sopra suggerita renderebbero invece l’ipotesi del “ramo impresa sociale” ancora più vantaggiosa per l’ente ecclesiastico, che oltre a poter contare sul trattamento “di favore” che si è descritto nel precedente paragrafo di questo scritto, potrebbe altresì beneficiare della responsabilità limitata al patrimonio conferito nel “ramo”12.

Ma anche ove così fosse, sarebbe la questione davvero risolta definitivamente in favore dell’opzione “A”? O sussisterebbero ancora possibili ragioni in favore dell’opzione “B”?

Nonostante tutto, ad avviso di chi scrive, sembrano ancora sussistere sufficienti motivi per preferire, quanto meno in determinati casi, l’opzione “B” all’opzione “A”. Nel prossimo paragrafo si cercherà di spiegare brevemente perché.

Le ragioni in favore della scelta per la “soggettivizzazione”

La scelta tra opzione “A” e opzione “B” dovrebbe essere affrontata da un ente ecclesiastico avendo piena consapevolezza non solo dei potenziali benefici della soluzione “A” – che si sono in precedenza illustrati – ma anche dei potenziali benefici della soluzione “B”, alcuni dei quali peraltro irrealizzabili facendo la scelta opposta.

Innanzitutto, costituendo un soggetto giuridico ad hoc, si risolve radicalmente il problema della separazione patrimoniale di cui soffre invece l’opzione “A”. Come si è più volte sottolineato, l’ente ecclesiastico che dia vita ad una s.p.a. o ad una s.r.l. unipersonale per la gestione dell’attività d’impresa d’interesse generale rischierebbe soltanto il capitale conferito in società e nulla più. Ottiene dunque quell’effetto di separazione tra il patrimonio specifico da dedicare all’impresa sociale e il patrimonio generale da mantenere per i propri fini di religione e culto che è più complesso (ancorché, come spiegato, non impossibile) ottenere seguendo la via del “ramo”.

In secondo luogo, il soggetto giuridico costituito ad hoc, essendo interamente sottoposto alla disciplina dell’impresa sociale (perché le esenzioni ex art. 1, comma 3, d.lgs. 112/2017, riguardano ovviamente soltanto l’ente ecclesiastico che costituisce il “ramo” e non anche la società costituita e partecipata dall’ente ecclesiastico) e per di più avendo natura societaria, se da una parte è soggetto a maggiori oneri e vincoli, dall’altra parte può però sfruttare alcune opportunità che sono precluse al “ramo impresa sociale”.

La società impresa sociale (costituita da un ente ecclesiastico) potrebbe infatti:

a) distribuire utili all’ente ecclesiastico, nei limiti di quanto previsto dall’art. 3, comma 3, lettera a), d.lgs. 112/201713;

b) facilitare, ove necessario, i rapporti dell’ente ecclesiastico fondatore dell’impresa sociale con altri enti ecclesiastici, altri enti del terzo settore o altri partner, che sottoscrivendo il capitale della società potrebbero entrare a far parte della comune intrapresa14;

c) agevolare il ricorso ai finanziamenti, anche di rischio, se si pensa alla possibilità che ha una società di emettere strumenti finanziari;

d) facilitare, ove necessario, la cessione o il trasferimento dell’impresa ad altri enti ecclesiastici o altri soggetti considerati meglio in grado di gestirla;

e) beneficiare delle agevolazioni previste dai commi 3 e 4 dell’articolo 18, d.lgs. 112/2017, significative soprattutto nel caso in cui si dovessero ammettere nuovi soci15;

f) consentire rapporti con gli enti pubblici ai sensi dell’art. 55 CTS16.

Infine, la società impresa sociale potrebbe trarre vantaggio dall’assolvimento dei medesimi oneri cui è sottoposta, se è vero che, come molti ritengono, alcuni di questi oneri sono pensati per accrescere la fiducia degli stakeholder nell’impresa sociale, potendo così favorire il successo dell’impresa sociale a medio-lungo termine grazie all’indispensabile favor dei medesimi stakeholder. Si pensi, tra tutte, alla misura del coinvolgimento di lavoratori, utenti ed altri interessati nella gestione dell’attività (art. 11, d.lgs. 112/2017).

La variabile della governance

Al fine di poter effettuare una scelta davvero consapevole tra opzione “A” e opzione “B” è necessario riflettere su un ulteriore aspetto sinora sottovalutato nel dibattito in corso a beneficio di altri aspetti, come l’autonomia patrimoniale, che invece forse lo sono stati troppo.

Questo aspetto è quello della struttura di governo preposta alla gestione dell’attività d’impresa d’interesse generale: nel caso del “ramo”, tale struttura è (tendenzialmente) la medesima dell’ente ecclesiastico, poiché non vi è dissociazione soggettiva (bensì tutt’al più patrimoniale) tra “ramo” ed ente ecclesiastico; mentre nel caso di costituzione di un ente strumentale, la struttura di governance è ovviamente distinta da quella dell’ente ecclesiastico ed è quella del soggetto societario costituito ad hoc dall’ente ecclesiastico (con significative differenze, peraltro, a seconda che la società sia a responsabilità limitata o per azioni).L’aspetto organizzativo può assumere centrale importanza ai fini della scelta tra opzione “A” e opzione “B”, soprattutto se le differenze relative al profilo della separazione patrimoniale si attenuano per effetto del riconoscimento della possibilità di destinare al “ramo” un patrimonio sostanzialmente (e non solo contabilmente) separato17.

L’alternativa qui in discussione è quella tra controllo o autonomia, o più correttamente tra maggior controllo (il “ramo”) o maggiore autonomia (l’ente strumentale), dal momento che, a prescindere dalla soluzione adottata (“ramo” o ente strumentale), da un lato il collegamento tra ente ecclesiastico e attività d’impresa d’interesse generale non sarà mai del tutto assente (neanche nel caso dell’ente strumentale), dall’altro lato un certo grado di autonomia organizzativa nella gestione dell’attività d’impresa d’interesse generale sarà sempre presente (anche nel caso del “ramo”), non foss’altro per effetto degli oneri cui l’ente ecclesiastico è sottoposto quando gestisce un “ramo impresa sociale” (tra i quali dotarsi di un organo di controllo interno ed eventualmente anche di un revisore legale). L’attenzione sembra essersi sin qui maggiormente concentrata sul “ramo” perché esso è quello in grado di assicurare il maggior livello di controllo (sul patrimonio e) sull’attività di interesse generale, che a sua volta serve all’ente ecclesiastico per assicurarne la fedeltà al proprio carisma18. Ma è forse tempo di cominciare anche a riflettere sui potenziali benefici che una governance più autonoma attraverso una società strumentale può essere in grado di generare in termini di (maggiore) efficacia ed efficienza della gestione (del patrimonio e dell’attività). Questi effetti positivi possono determinare il successo dell’attività di impresa di interesse generale e, a cascata, il maggiore e migliore soddisfacimento degli interessi dei beneficiari dell’attività, quel che poi dovrebbe essere il principale obiettivo di chiunque si cimenti nella produzione di servizi di interesse generale attraverso enti del terzo settore e imprese sociali.

Considerata la funzione (anche) organizzativa della soggettività giuridica, la strada della “soggettivizzazione” consente infatti, a differenza di quella del “ramo” (imperniata principalmente sulla separazione patrimoniale), di soddisfare contemporaneamente tanto l’esigenza di separazione patrimoniale quanto l’esigenza di affidare patrimonio ed attività alle cure di una “struttura organizzativa complessa, che ha in sé modalità di produzione della decisione tendenzialmente più sofisticate e destinate ad operare nel tempo” grazie anche al fatto che “la procedimentalizzazione delle decisioni trova spazio in sedi e organi precostituiti19.

Affidarsi ad un ente giuridico costituito ad hoc – specie se in forma societaria – può essere dunque un modo per assicurarsi maggiore adeguatezza e professionalità nella gestione di patrimonio ed attività. Ancor prima, può consentire di attenuare la autoreferenzialità di cui l’amministrazione di patrimonio ed attività inevitabilmente risente allorché sia soggetta alla sfera di dominio (spesso idiosincratica) di un dominus esclusivo20.

Separando non solo il patrimonio ma anche la governance può rafforzarsi, anche per effetto dell’intensificarsi dei rapporti con i beneficiari dell’attività (si pensi all’applicazione dell’art. 11 d.lgs. 112/2017), il vincolo dell’agire nell’interesse altrui che connota la dimensione del terzo settore e dell’impresa sociale.

In definitiva, la struttura organizzativa complessa, e dunque la via della “soggettivizzazione”, non deve essere vista dall’ente ecclesiastico solo come un inutile costo o come un potenziale rischio sotto il profilo della perdita del controllo, bensì anche e soprattutto come un’opportunità in termini di maggiore efficacia ed efficienza della gestione (del patrimonio e) dell’attività d’impresa di interesse generale. Ovviamente, affinché ciò avvenga, è necessario che la scelta di costituire un ente strumentale, una volta operata, sia effettiva e non solo formale. Qualora infatti si riducesse drasticamente l’autonomia dell’ente strumentale – oltre ad esporre l’ente ecclesiastico al rischio di incorrere in responsabilità da direzione e coordinamento dell’impresa sociale ai sensi dell’art. 2497 c.c.21, anche tenendo conto di quanto prescrive l’art. 4, comma 1, d.lgs. 112/201722, o financo di essere qualificato come suo “amministratore di fatto”23, smarrendo così in entrambi i casi i benefici della separazione patrimoniale – le ragioni in favore di questa scelta alternativa a quella del “ramo” si annullerebbero.

Conclusioni

Per come il rapporto tra enti ecclesiastici e disciplina (del terzo settore e) dell’impresa sociale è strutturato, l’ente ecclesiastico non può, in senso stretto, né assumere la qualifica di ente del terzo settore né quella, più specifica, di impresa sociale, anche perché ciò sarebbe incompatibile con la sua natura, che gli deriva dallo svolgimento di attività di religione e culto in via istituzionale e prevalente.

L’ente ecclesiastico può tuttavia avvalersi della disciplina di cui al d.lgs. 112/2017 (come in generale di quella di cui al Codice del terzo settore) per esercitare, direttamente o indirettamente, un’attività d’impresa d’interesse generale.

Ciò può avvenire in due modi: o costituendo un “ramo impresa sociale” oppure costituendo un’impresa sociale strumentale in forma di s.r.l. o di s.p.a. unipersonale. In questo scritto le due soluzioni sono state indicate rispettivamente come opzione “A” e opzione “B”.

L’opzione “B” non è tale perché entra in gioco solo in un secondo momento, dopo che si sia appurato che l’opzione “A” per qualche ragione non funziona. In realtà, entrambe le due vie si collocano sullo stesso piano e sono ambedue allo stesso modo percorribili dall’ente ecclesiastico; ciascuna presenta i propri vantaggi e svantaggi, i propri costi e benefici, che nel corso di questo scritto si è cercato di illustrare.

Entrambe le opzioni separano l’impresa sociale dall’ente ecclesiastico, ma mentre la prima lo fa solo contabilmente e/o finanziariamente, la seconda lo fa anche organizzativamente, cioè sotto il profilo della governance. Ciò potrebbe far propendere in certi casi verso la costituzione del “soggetto impresa sociale” piuttosto che del “ramo impresa sociale”, soprattutto allorché l’attività d’impresa d’interesse generale richieda di essere governata da una struttura organizzativa sofisticata, articolata, dedicata e altamente professionalizzata (si pensi, a mo’ d’esempio, all’attività sanitaria), ma anche allorché l’attività sia particolarmente capace di generare utili, parte dei quali si vuole siano distribuiti all’ente ecclesiastico “proprietario” dell’impresa sociale societaria.

In tutti gli altri casi, soprattutto quando l’attività d’impresa non sia particolarmente complessa e rischiosa, il “ramo impresa sociale” potrebbe essere sufficiente a soddisfare le esigenze dell’ente ecclesiastico.

Se si guarda non solo all’ente ecclesiastico che assume l’iniziativa, ma anche all’attività d’impresa d’interesse generale in sé considerata, ulteriori valutazioni possono essere svolte, ad esempio in merito a quale delle due opzioni possa meglio garantire lo sviluppo dell’attività (anche grazie alla collaborazione con altri enti o alla possibile emissione di strumenti finanziari) o la continuità dell’attività oltre l’ente ecclesiastico che l’ha originariamente intrapresa. Se si esamina la vicenda da questa prospettiva, argomenti aggiuntivi in favore dell’opzione “B” potrebbero allora emergere. D’altra parte, tuttavia, il diverso regime del “ramo” rispetto al “soggetto” sotto il profilo della devoluzione patrimoniale disinteressata in caso di perdita volontaria della qualifica di impresa sociale potrebbe in alcuni casi concorrere in favore dell’opzione “A”24.

In conclusione, come tutte le decisioni, anche quella relativa a se gestire l’impresa sociale “direttamente” attraverso la costituzione di un “ramo” oppure “indirettamente” attraverso la costituzione di un “soggetto” a ciò preposto, avviene sempre al costo delle opportunità perdute scartando l’altra alternativa. L’opzione selezionata deve essere perciò capace di produrre benefici attesi superiori a quelli smarriti per effetto della scelta.

In questo scritto si è cercato di fornire alcuni elementi utili a condurre questa valutazione. Rimane, tuttavia, un grosso problema, che è quello di capire in quale prospettiva e direzione calcolare i benefici attesi. La domanda cui occorre rispondere è la seguente: “benefici per chi”? per l’ente ecclesiastico in sé e per sé considerato, oppure per i destinatari della sua attività d’impresa d’interesse generale? per l’ente “proprietario” dell’impresa sociale o per i beneficiari di quest’ultima? È evidente come la risposta a queste domande possa in concreto influenzare la scelta tra le opzioni “A” e “B” al di là e a prescindere da ogni discussione teorica in merito.

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[2]

Può essere qui sufficiente ricordare, non solo per l’autorevolezza dell’Autore ma anche per l’approccio costruttivo al tema, Dalla Torre, Enti ecclesiastici e Terzo settore. Annotazioni prospettiche, in Stato, chiese e pluralismo confessionale, n. 16/2018, secondo cui “la nuova disciplina del non-profit si present[a] quale opportunità per le comunità ecclesiali, che sollecita la loro intelligenza non solo in rapporto a fini e attività, ma anche in rapporto alla scelta degli strumenti giuridici con i quali supportare la moltitudine di attività, anche economiche, da esse poste in essere per il bene della persona umana e per l’implementazione del bene comune”. Per un generale approccio al tema degli enti ecclesiastici nella riforma, mi permetto di suggerire (seppur consapevole del fatto che la letteratura sul punto, tra articoli in riviste, opere monografiche, capitoli di libri e commentari, è già sconfinata), per tutti, Simonelli, Gli enti religiosi civilmente riconosciuti e la riforma del terzo settore, in Fici (a cura di), La riforma del terzo settore e dell’impresa sociale. Una introduzione, Napoli, 2018, p. 307 ss.; Perrone e Marano, La riforma del Terzo settore e gli enti ecclesiastici: un rischio, un costo o un’opportunità?, in Stato, chiese e pluralismo confessionale, n. 35/2018; e più di recente Simonelli, Il regolamento del Ramo dell’ente religioso. Disciplina e prospettive; e Perrone, Gli enti ecclesiastici e il diritto del Terzo settore, in www.terzjus.it. Prima della riforma, cfr. per un chiaro inquadramento di natura generale dei problemi correlati al rapporto tra enti ecclesiastici e potenziale disciplina del terzo settore, Pilon, L’ente ecclesiastico ed il terzo settore, in Clementi e Simonelli (a cura di), L’ente ecclesiastico a trent’anni dalla revisione del Concordato, Milano, 2015, p. 439 ss.

[3]

Un ente può dunque qualificarsi come ODV, APS, ecc., chiedendo di essere iscritto in una sezione del RUNTS, ma non può assumere allo stesso tempo due qualifiche risultando contemporaneamente iscritto in due sezioni del RUNTS. In verità, solo alle reti associative è consentito iscriversi, oltre che nella sezione “reti associative” del RUNTS, anche in un’altra sezione del medesimo registro. Ciò detto, un ente può decidere (o anche, talvolta, qualora da ciò dipenda la sua permanenza nel terzo settore, essere costretto a decidere) di cambiare la qualifica ovvero di mutare sezione del RUNTS nella quale è iscritto (c.d. “migrazione”). Ciò è consentito dalla legge senza impedimenti di sorta e senza alcuna penalità a carico dell’ente. Cfr. Fici, Il Decreto ministeriale n. 106/2020 sul RUNTS: analisi, questioni e prospettive (Parte Prima), in www.terzjus.it.

[4]

La disposizione di riferimento è qui l’art. 4, comma 3, d.lgs. 112/2017, e non già quella di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. 117/2017, applicabile a tutti gli enti del terzo settore diversi dalle imprese sociali.

[5]

Ovviamente, l’ente già del terzo settore, qualora decidesse di gestire “direttamente” l’impresa sociale, dovrebbe cambiare sezione del RUNTS nella quale si trova iscritto: cfr. la precedente nota 3. L’opzione tra gestione “diretta” ed indiretta” non è invece a disposizione di tutti quegli enti cui la legge impedisca anche sola una delle due vie d’accesso. Ad esempio, le fondazioni di origine bancaria potrebbero gestire un’impresa sociale solo “indirettamente” e non anche “direttamente” in virtù di quanto disposto dall’art. 1, comma 7, d.lgs. 112/2017: cfr. sul punto Fici, La riforma del terzo settore e le fondazioni di origine bancaria, in Id., Un diritto per il terzo settore. Studi sulla riforma, Napoli, 2020, p. 141 ss.

[6]

Ciò quale conseguenza del loro necessario fine di religione o di culto, così come cristallizzato nella normativa concordataria. Lascio la spiegazione a chi ne sa molto più di me, ovvero agli esperti della materia come Simonelli, Gli enti religiosi civilmente riconosciuti e la riforma del terzo settore, cit., nonché Id., Il regolamento del Ramo dell’ente religioso. Disciplina e prospettive. Da profano, ho trovato molto utile, al fine di comprendere la natura dei problemi che concernono gli enti ecclesiastici rispetto alla disciplina del terzo settore, anche “sul campo” (seppur nel limitato campo delle scuole cattoliche), la lettura di Perego, L’ente gestore della scuola cattolica. Temi di attualità giuridica, Padova, 2018.

[7]

Forse gli oneri maggiori o più gravosi per l’ente ecclesiastico sono quelli di cui all’articolo 9, comma 2, d.lgs. 112/2017, con riguardo all’obbligo di redazione del bilancio sociale, e di cui all’articolo 10 d.lgs. 112/2017, con riguardo alla necessaria presenza dell’organo di controllo interno ed a quella eventuale del revisore legale, che peraltro diverrebbe necessaria ove si costituissero patrimoni separati ai sensi dell’art. 10 CTS.

[8]

In questo senso Chianale, Appunti sui finanziamenti bancari agli enti religiosi operanti come impresa sociale e nel Terzo settore: la separazione patrimoniale, in Rivista di diritto bancario, 2020, p. 543 ss., il quale motiva così motiva la conclusione cui perviene: “Se il creditore del ramo di attività di impresa sociale o di Terzo settore potesse aggredire i beni destinati al perseguimento dello scopo religioso o di culto, il principio costituzionale di non ingerenza statale in queste attività subirebbe una lesione. La giurisdizione civile inciderebbe sulla struttura patrimoniale dell’ente. Pare quindi necessario ricondurre al nuovo dettato normativo la creazione di un effettivo patrimonio separato, non soltanto per ragioni testuali, ma anche (e forse soprattutto) per coerenza con la salvaguardia da parte dell’ordinamento civile dello scopo religioso o di culto degli enti interessati. Ne segue che soltanto il patrimonio destinato risponde dei debiti dell’attività di impresa sociale o di Terzo settore; che i creditori di queste attività non possono soddisfarsi sui restanti beni dell’ente; che i creditori dell’attività di religione o di culto dell’ente non possono aggredire il patrimonio destinato all’impresa sociale o al terzo settore” (ivi, p. 552).

[9]

Cfr. Rubino De Ritis, La costituzione dei patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Abbadessa e Portale (diretto da), Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, vol. 1, rist., Torino, 2007, p. 818

[10]

Cfr. Santagata, Patrimoni destinati a “specifici affari”, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione commerciale, Agg., vol. 3, Torino, 2007, p. 616, dove si riconduce il limite – peraltro da calcolarsi sul netto, e dunque permettendosi un bilanciamento dell’attivo con corrispondenti passività – a comprensibili esigenze di salvaguardia dei creditori sociali.

[11]

Per la medesima conclusione, cfr. Chianale, Appunti sui finanziamenti bancari agli enti religiosi operanti come impresa sociale e nel Terzo settore: la separazione patrimoniale, cit., p. 546.

[12]

Da ricordare, per quanto riguarda gli oneri, che la costituzione di un patrimonio separato, comporta l’obbligo di nomina di un revisore legale o di una società di revisione legale per la revisione dei conti dell’affare (art. 2447-ter, comma 1, lettera f), a meno che non sussista già un revisore nominato ai sensi dell’art. 10, comma 5, CTS (o, per quanto specificamente riguarda l’impresa sociale, dell’art. 10, comma 5, d.lgs. 112/2017).

[13]

L’impresa sociale può destinare alla distribuzione di dividendi ai soci una quota inferiore al cinquanta per cento degli utili e degli avanzi di gestione annuali, dedotte eventuali perdite maturate negli esercizi precedenti. Ciascun socio non può comunque ricevere dividendi in misura superiore all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato

[14]

La società unipersonale non costituisce infatti un tipo autonomo di società, sicché, sebbene costituita inizialmente da un socio, essa potrebbe successivamente avere più soci senza doversi perciò preventivamente trasformare o dover modificare il proprio statuto.

[15]

Infatti, i commi 3 e 4 dell’art. 18, d.lgs. 112/2017, permettono un’importante detrazione d’imposta sul reddito delle persone fisiche o deduzione dal reddito dei soggetti sottoposti all’IRES i quali investano nel capitale sociale di una società impresa sociale e mantengano l’investimento per almeno cinque anni. La misura non è ancora operativa poiché soggetta al nulla-osta della Commissione europea che non è ancora arrivato, ma potrebbe fortemente favorire, allorché sarà efficace (si spera presto), la capitalizzazione delle imprese sociali societarie.

[16]

L’art. 55 CTS, sul coinvolgimento degli enti del terzo settore mediante forme di co-programmazione, co-progettazione e accreditamento, che possono risolversi in partenariati con la P.A., è destinato infatti, letteralmente, agli “enti del terzo settore”, sicché può discutersi se sia applicabile agli enti ecclesiastici che abbiano costituito un “ramo”, tanto più tenendo conto del suo fondamento costituzionale nell’art. 118, comma 4, Cost., e dunque nelle iniziative dei cittadini organizzati (e non di per sé degli enti ecclesiastici), come di recente enfatizzato dalla Corte Costituzionale nella fondamentale sentenza n. 131/2020 (su cui cfr. Fici, Gallo e Giglioni (a cura di), I rapporti tra pubbliche amministrazioni ed enti del terzo settore. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 131del 2020, Napoli, 2020). Ciò non esclude, forse, che gli enti ecclesiastici possano in linea di principio accedere all’art. 55 attraverso il loro “ramo”, ma porta tuttavia a ritenere che, qualora vi accedano tramite un ente del terzo settore (inclusa un’impresa sociale) da essi costituito, possano avere maggiori opportunità di essere effettivamente coinvolti.

[17]

Possibilità che, peraltro, come ho già sottolineato, già sussiste (senza che si pongano questioni interpretative) nei limiti del 10% del patrimonio dell’ente ecclesiastico.

[18]

Cfr. sul punto, Sarti, Carisma, gestione dei beni ed adeguatezza della governance. Nuove ed urgenti sfide per gli enti ecclesiastici, in Lozupone (a cura di), Corresponsabilità e trasparenza nell’amministrazione dei beni della Chiesa, Roma, 2015, p. 147 ss.

[19]

In questi termini Iamiceli, Unità e separazione dei patrimoni, Padova, 2003, p. 218 s.

[20]

Cfr. ancora Iamiceli, Unità e separazione dei patrimoni, cit., p. 221

[21]

Sul tema cfr. G. Scognamiglio, Danno sociale e azione individuale nella disciplina della responsabilità da direzione e coordinamento, in Abbadessa e Portale (diretto da), Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, vol. 3, rist., Torino, 2007, p. 945 ss.

[22]

L’art. 4, comma 1, dopo aver precisato che “all’attività di direzione e coordinamento di un’impresa sociale si applicano, in quanto compatibili, le norme di cui al capo IX del titolo V del libro V e l’articolo 2545-septies del codice civile”, stabilisce “si considera, in ogni caso, esercitare attività di direzione e coordinamento il soggetto che, per previsioni statutarie o per qualsiasi altra ragione, abbia la facoltà di nominare la maggioranza dei componenti dell’organo di amministrazione dell’impresa sociale”. V’è dunque in questo caso una presunzione assoluta di direzione e coordinamento in capo a chi controlla l’impresa sociale, in deroga a quanto previsto dall’art. 2497-sexies, c.c., secondo cui la presunzione è solo relativa.

[23]

Cfr. di recente Cass., 8 ottobre 2020, n. 21730, nonché Pescatore, Prossima fermata: persona giuridica amministratore di fatto, in Giurisprudenza commerciale, 2014, p. 647 ss.

[24]

L’articolo 12, comma 5, d.lgs. 112/2017, impone, nel caso di perdita volontaria della qualifica di impresa sociale (per cancellazione dell’ente dalla sezione “imprese sociali” del Registro delle imprese), la devoluzione ad altri enti del terzo settore del patrimonio residuo, ma questa norma, come chiarisce lo stesso comma 5, non si applica agli enti ecclesiastici che costituiscono un “ramo”. Con riguardo ad essi, dunque, o si ritiene applicabile l’art. 50, comma 2, CTS, che in caso di cancellazione dell’ente del terzo settore dal RUNTS lo obbliga a devolvere ad altri enti del terzo settore solo l’incremento patrimoniale realizzato durante il tempo di iscrizione al RUNTS, oppure si ritiene che il patrimonio del “ramo” possa ri-confluire nel patrimonio generale dell’ente ecclesiastico.

L’impresa sociale societaria costituita dall’ente ecclesiastico dovrebbe invece effettuare la devoluzione patrimoniale ai sensi dell’art. 12, comma 5, d.lgs. 112/2017, potendo perciò l’ente ecclesiastico recuperare soltanto il capitale sociale sottoscritto ed effettivamente versato.

Nel caso invece di perdita della qualifica di impresa sociale a seguito di provvedimento dell’autorità vigilante, l’art. 15, comma 8, d.lgs. 112/2017, non distingue il regime del “ramo” rispetto a quello del “soggetto”, sicché anche il patrimonio del “ramo” dovrebbe costituire oggetto di devoluzione. Qui, invece, più favorevole appare il regime della società impresa sociale, perché il provvedimento di cancellazione dalla sezione “imprese sociali” del Registro delle imprese consentirebbe comunque all’ente ecclesiastico di recuperare quanto meno il capitale sociale sottoscritto ed effettivamente versato.

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