Il terzo settore è composto da una costellazione di organizzazioni presenti nella società in maniera capillare e diffusa, che gestiscono attività benefiche e meritorie. Il valore del terzo settore non è dato semplicemente dal numero delle organizzazioni, dal Pil prodotto o dai posti di lavoro generati, che pure sono imponenti e potrebbero di per sé meritare i galloni di “comparto produttivo” di tutto rilievo nel contesto economico italiano ed europeo. Il valore principale del terzo settore è la sua capacità di generare bene, capitale sociale, relazioni di fiducia, cioè beni intangibili che effondono i loro effetti benefici nelle relazioni interpersonali, nella società e verso le istituzioni.
Con le sue azioni capillari, tempestive e benefiche il Terzo Settore contribuisce in maniera determinante alla coesione sociale della nazione italiana. È un aspetto che è stato più volte sottolineato dalle massime istituzioni, in primis dal Presidente della Repubblica1, ma anche sancito in una recente sentenza della Corte Costituzionale:
“Gli ETS, in quanto rappresentativi della “società solidale”, spesso costituiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale”2.
Ebbene, gli Enti del terzo settore, così come generano fiducia, si fondano su rapporti di fiducia: fiducia dei volontari e dei donatori che donano tempo e denaro per sostenere e contribuire alle attività di interesse generale svolte dall’ente di terzo settore, fiducia delle istituzioni pubbliche che vi si relazionano alla pari; fiducia delle persone fragili e vulnerabili che si rivolgono agli ETS per ricevere riconoscimento, ascolto, aiuto. Per questo, nel momento in cui le pagine di cronaca si trovano a narrare di scandali o reati compiuti da persone attive nelle organizzazioni del terzo settore, gli effetti sulla “società solidale” sono dirompenti. Le persone si ritraggono sdegnate perché avevano frequentato il servizio di quella cooperativa sociale, o donato a quella fondazione, o svolto volontariato presso quell’associazione, perché si fidavano, ma ora scoprono che qualcuno, all’interno dell’ente, ha compiuto un grave illecito, addirittura penale. La credibilità dell’organizzazione viene minata alle radici, a volte irrimediabilmente. Ma il discredito e la sfiducia non si fermano alla singola organizzazione ove è avvenuto il fatto: si propagano verso le altre organizzazioni che fanno parte del terzo settore, verso lo Stato che non ha adeguatamente vigilato, infine verso le altre persone. La “ferita” prodotta dall’aver mal riposto la propria fiducia porta le persone propense al bene ad un atteggiamento di chiusura e all’interruzione di molte relazioni sociali positive.
Anche per queste ragioni è importante che gli ETS operino per prevenire simili situazioni: il nuovo diritto del terzo settore ha voluto rafforzare i presidi di vigilanza, anche a protezione della fiducia, “linfa vitale” della società solidale. Il corretto bilanciamento tra sistemi di gestione e controllo versus libertà e autonomia delle organizzazioni private è certamente delicato. In questo articolo non intendiamo affrontare i nodi, pur noti, della “societarizzazione” degli enti non societari disciplinati nel primo libro del codice civile3. Proveremo invece ad affrontare un altro tema, altrettanto fondamentale, cioè il richiamo che la riforma ha espressamente voluto effettuare alle norme sulla responsabilità amministrativa degli enti.
Per farlo, partiremo da una considerazione abbastanza netta: pare a chi scrive che gli enti del terzo settore, perfino quelli che già prima della riforma erano organizzati in forma cooperativa o societaria, abbiano per lunghissimo tempo ignorato norme già vigenti nell’ordinamento e che pur avrebbero potuto efficacemente operare a presidio del rapporto di fiducia con le organizzazioni della “società solidale”. Esattamente venti anni fa il legislatore ha introdotto nell’ordinamento italiano, sulla scorta di esigenze interne ed obblighi sovranazionali, la disciplina della responsabilità, autonoma e diretta, degli enti nell’ipotesi di reati compiuti da persone fisiche interne all’organizzazione a vantaggio o nell’interesse dell’ente stesso. Il D.lgs. 231/01, ha così disciplinato per la prima volta una responsabilità “parapenale” degli enti, per i reati commessi a loro vantaggio o nel loro interesse dalle persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’ente o da chi esercita, anche di fatto, funzioni di direzione e controllo, oltre che dai soggetti sottoposti alla loro direzione o vigilanza.
Il sistema disegnato dal D.lgs. n. 231 ha previsto che gli enti debbano essere attivi nella promozione della legalità all’interno della propria organizzazione ed ha disposto che, per evitare di incorrere in responsabilità, debbano predisporre ed attuare un Modello di Organizzazione e Gestione idoneo ad individuare e prevenire i reati. Questo Modello di Organizzazione e Gestione (MOG) non è altro che un sistema organico di procedure, nonché di attività di vigilanza, teso a prevenire la commissione delle diverse tipologie di reato richiamate nel D.lgs. 231/2001 (i c.d. reati presupposto); adottarlo significa aver assunto la consapevolezza degli effetti che può avere un’eventuale condotta delle persone fisiche che operano all’interno dell’ente a danno dell’organizzazione. La prevenzione del rischio di commissione dei reati ha le funzioni di:
- diffondere la cultura legalitaria a 360 gradi rispetto, oltre che alle disposizioni di legge, ai principi etico-sociali che l’ente persegue nello svolgimento delle attività a tutela, soprattutto, degli interessi propri e dei propri stakeholders;
- assolvere in modo preciso ad un onere di legge in cui si riflette il generale principio di vigilanza insito nel mandato degli organi dell’ente.
La disciplina del Decreto 231 ha dunque previsto “un’esimente”, ovvero la possibilità per l’ente di non subire le conseguenze della contestazione della sanzione amministrativa per l’azione criminosa commessa da una o più persone fisiche nell’interesse e a vantaggio dell’ente. L’ente può evitare di incorrere in responsabilità amministrativa qualora adotti, preventivamente, strumenti manageriali, che, se mantenuti attivi e opportunamente controllati ed aggiornati, offrono una difesa all’applicazione delle sanzioni. Al fine di evitare le conseguenze amministrative derivanti dalla responsabilità “penale”, l’ente dovrà dimostrare che (art. 6 D.lgs. 231/2001):
- prima della commissione del fatto, il suo organo dirigente aveva adottato ed efficacemente attuato, un modello di organizzazione e di gestione (MOG) idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
- aveva affidato il compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli a un organismo di vigilanza (OdV) composto da soggetti con adeguate caratteristiche di professionalità, autonomia e indipendenza, e con adeguati poteri, e non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo;
- se il reato è stato commesso dai vertici dell’ente (figure apicali) ciò è stato possibile perché hanno eluso fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione.
Già dopo pochi anni dalla sua introduzione, si era ben presto compreso che il D.lgs. 231/2001 si potesse applicare non solo alle grandi società for profit, ma ad ogni ente, con o senza personalità giuridica, con o senza finalità di lucro, e dunque anche agli enti del Terzo Settore. Tra gli enti destinatari di tali previsioni si rinvengono anche le associazioni e società sportive che, connotate da strutture organizzative complesse ed articolate, si trovano a dover fare i conti con ipotesi di responsabilità, e dunque sanzioni piuttosto gravose, a causa di fatti illeciti commessi da categorie eterogenee di soggetti. Per quanto la giurisprudenza si fosse anche pronunciata su specifiche realtà4, e ciò fosse stato esplicitato anche da ANAC nel 20165, la stragrande maggioranza degli ETS faticava (e ancora oggi fatica) a comprendere quanto sia importante adottare il sistema di prevenzione di cui al decreto 231.
Eppure, le sanzioni previste dal decreto 231 sono estremamente invasive e possono minare la vita stessa dell’ente del terzo settore che non si è attivato nella prevenzione dei reati: il giudice penale che all’esito del giudizio accerti la responsabilità dell’ente, può comminare direttamente all’ETS, tra le altre, sanzioni pecuniarie amministrative (computati in quote variabili) che possono arrivare ad oltre €. 1.500.000,00, cui possono aggiungersi sanzioni interdittive come il divieto di contrarre con la Pubblica Amministrazione o la revoca di contributi pubblici percepiti o percipiendi.
Il numero di c.d. “reati presupposto”, cioè di quei reati richiamati nel sistema del d.lgs. 231/016 e che possono “attivare” la responsabilità amministrativa degli enti (anche del Terzo Settore) è vastissimo ed in continuo aggiornamento. Più evidenti aree a rischio di reato, oltre ai “sempiterni” reati commessi con violazione della norme (d.lgs. 81/08) sulla tutela della salute e sicurezza del lavoro (norme che, è bene ricordare, si applicano non solo con riferimento ai dipendenti ma anche ai volontari), ad esempio, sono l’acquisizione e impiego di erogazioni pubbliche (nazionali e comunitarie in forma di contributi, finanziamenti, sovvenzioni e altre erogazioni), la stipula di contratti o convenzioni con soggetti pubblici mediante procedure negoziate (affidamento diretto o trattativa privata) o ad evidenza pubblica (aperte o ristrette), nonché la gestione dei rapporti per l’ottenimento di autorizzazioni e licenze per l’esercizio delle attività dell’Ente. La gestione dei rapporti con Autorità Pubbliche, gli adempimenti e ispezioni in materia di sicurezza e igiene sul lavoro e, infine, la gestione dei rapporti con enti pubblici (Inps, INAIL, etc.)7.
In base alla disciplina del d.lgs. 231/01, una volta che l’ente abbia predisposto e adottato il modello organizzativo, deve nominare un organismo di vigilanza, chiamato a vigilare sull’effettività e adeguatezza dell’organizzazione adottata dall’ente. L’organismo di vigilanza deve inoltre promuovere e verificare che l’ente organizzi un’adeguata attività formativa in materia 231, scambiare informazioni (flussi informativi) nonché esaminare le eventuali segnalazioni che provengano afferenti al modello organizzativo adottato.
Questa breve sintesi della disciplina non è ovviamente esaustiva, ma riteniamo possa essere già significativa per fare comprendere come gli ETS, che sono fondati su relazioni di fiducia, si avvalgono di elargizioni pubbliche e private, oltre che di benefici fiscali (primo tra tutti il 5 per mille) e svolgono attività di interesse generale quasi sempre in raccordo con la Pubblica Amministrazione, abbiano interesse e necessità di attivarsi per prevenire il compimento di reati adottando un Modello di Organizzazione e Gestione secondo la disciplina del d.lgs. 231/01. La normativa di cui al d.lgs. 231/01 è finalizzata a far sì che gli enti privati siano attivi nel prevenire la commissione di illeciti penali, attraverso la predisposizione di sistemi di analisi dei rischi, formazione e controllo e ciò, nell’ambito specifico del Terzo Settore, è anche un presidio fondamentale per proteggere la fiducia che la collettività ripone nell’ETS e in tutto il Terzo Settore.
In questo contesto, la legge delega per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale (l. n. 106/2016) ha previsto espressamente (art. 4 lettera g) che il Codice del Terzo settore dovesse “disciplinare gli obblighi di controllo interno, di rendicontazione, di trasparenza e d’informazione nei confronti degli associati, dei lavoratori e dei terzi, differenziati anche in ragione della dimensione economica dell’attività svolta e dell’impiego di risorse pubbliche, tenendo conto di quanto previsto dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, nonché prevedere il relativo regime sanzionatorio”. La medesima legge ha poi previsto, in materia di impresa sociale (art. 6 lettera l) che il decreto delegato disciplinante la normativa sull’impresa sociale dovesse prevedere “la nomina, in base a princìpi di terzietà, fin dall’atto costitutivo, di uno o più sindaci allo scopo di monitorare e vigilare sull’osservanza della legge e dello statuto da parte dell’impresa sociale, sul rispetto dei princìpi di corretta amministrazione, anche con riferimento alle disposizioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile” dell’ente stesso.
In attuazione della summenzionata legge delega, nel 2017 sono stati emanati il decreto legislativo sull’Impresa Sociale (n. 112/2017) e il Codice Terzo Settore (d.lgs. n. 117/2017). Per quanto riguarda il Codice del Terzo Settore, l’art. 30, tra i compiti dell’Organo di Controllo, ha disposto (art. 30, comma 6) che debba vigilare “ […] anche con riferimento alle disposizioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, qualora applicabili, nonché sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile e sul suo concreto funzionamento”. In senso analogo si esprime il decreto legislativo sull’impresa sociale (art. 10 d.lgs. 112/2017) prevedendo che “I sindaci vigilano […] anche con riferimento alle disposizioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, qualora applicabili, nonché sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile e sul suo concreto funzionamento”.
La decisione dell’ETS, se adottare o meno tale sistema organizzativo, resta discrezionale e non obbligatoria. Tuttavia, gli amministratori degli ETS dovranno valutare attentamente se approntare tale sistema di prevenzione perché, in caso di mancata adozione, e quindi di non adeguata organizzazione, qualora l’ente dovesse essere sanzionato ai sensi del d.lgs. 231, gli amministratori potrebbero essere chiamati a rispondere dei danni prodotti all’ente a seguito della sanzione. L’adozione del modello permette di abbattere questa tipologia di rischi: questo dovrà essere basato sulla concreta organizzazione dell’ente, sulle attività svolte e sul livello di rischio delle stesse, alla luce delle ipotesi di reato presupposto previste dagli artt. 24 e ss. d.lgs. 231/01. La costruzione dei modelli organizzativi non può prescindere da un’attenta analisi anche del contesto territoriale, sociale e culturale ove l’ente si trova ad operare.
La precisazione contenuta nelle nuove norme del terzo settore, secondo cui gli organi di controllo possono vigilare anche in materia di d.lgs. n. 231/01, pare voler precisare che i componenti di tali organi possono assumere in sé anche il diverso e ulteriore ruolo di organismo di vigilanza, esplicitando cioè la compatibilità e la cumulabilità dei due incarichi, sia come singoli componenti che come organo. Tale precisazione potrebbe tuttavia destare qualche perplessità, soprattutto in ordine alle competenze richieste, che non sono sempre sovrapponibili. Infatti, uno degli elementi che viene verificato a posteriori dall’autorità giudiziaria, qualora nell’organizzazione venga commesso un reato presupposto, sono le competenze (la professionalità) dei componenti l’organo di vigilanza: qualora si accerti la loro inidoneità e/o carenza, l’ente non riuscirà a giovarsi dell’esimente.
Si può allora ritenere che il legislatore abbia voluto richiamare la disciplina di cui al d.lgs. n. 231 all’interno della disciplina sui collegi sindacali/organi di controllo, per orientare gli ETS nella direzione di individuare organi di vigilanza composti preferenzialmente da soggetti esterni, cioè dotati di requisiti professionali in linea con quelli richiesti per poter sedere nei collegi sindacali8, lasciando ovviamente al singolo ente il compito di valutare se distinguere o meno le due funzioni in ragione delle necessità e dell’organizzazione concreta9 tenendo presente il richiamo della disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti di cui al d.lgs. 231/01. Il richiamo effettuato dalla riforma alla responsabilità amministrativa degli enti risulta opportuno e coerente con la volontà di presidiare e rafforzare i legami di fiducia che questi enti sono capaci di generare all’interno della società.