[pubblicato in The Good in Town del 31 maggio 2024]
Sempre più caldo il tema CSRD, la Corporate Sustainability Reporting Directive, la nuova norma di riferimento per la comunicazione della sostenibilità aziendale che porterà una vera e propria rivoluzione. Prima di tutto perchè cresce in modo importante il numero di imprese che saranno tenute obbligatoriamente a fare il report (o bilancio) di sostenibilità.
La CSRD si inquadra nell’ambito del Green Deal Europeo e ha lo scopo di promuovere la trasparenza e la divulgazione di informazioni da parte delle imprese riguardo agli impatti ambientali, sociali e legati alla governance (ESG) delle loro attività, attraverso l’introduzione di obblighi di reporting da parte delle imprese realizzati sulla base di standard omogenei e confrontabili, anch’essi in fase di definizione a livello europeo (ESRS).
Le imprese che dovranno rendicontare in Europa passeranno da 11.000 a 50.000, mentre in Italia saranno circa 4.000. Le prime a farlo, a partire dall’esercizio finanziario 2024, saranno le società che attualmente già redigono una dichiarazione non finanziaria – contenuta nella relazione sulla gestione allegata al bilancio d’esercizio – ai sensi della Direttiva NFRD. A partire dal 2025 lo dovranno fare le grandi aziende di interesse pubblico (EIP) con più di
500 dipendenti ele grandi imprese (con più di 250 dipendenti e 40 milioni di euro di fatturato); dal 2026 l’obbligo del bilancio di sostenibilità CSRD dovrà essere redatto dalle PMI quotate; e dal 1° gennaio 2028 sarà invece quello di riferimento per le imprese di Paesi terzi.
La rivoluzione CSRD
Oltre all’ampio ventaglio di aziende coinvolte, la CSRD introduce diverse novità, in particolare: i nuovi standard ESRS; l’approccio di filiera; l’obbligatorietà di uso del formato elettronico unico europeo; maggiore attenzione ai rischi e introduzione della doppia materialità.
Un punto cruciale è infatti l’approccio di filiera che la CSRD impone: l’impresa non dovrà rendicontare solo la sua parte, ma dovrà dar conto di quello che succede a monte e a valle. Nel tessuto economico italiano la filiera è composta prevalentemente da PMI, a cui bisognerà chiedere i dati sulla sostenibilità, che gli permettano di stare in quella catena produttiva, perché il rischio è l’estromissione.
L’EFRAG (European Financial Reporting Advisory Group) nel suo ruolo di consulente tecnico della Commissione europea, ha realizzato nel 2023 il primo insieme di 12 standard per redigere il bilancio di sostenibilità, che per le aziende si traducono con “oltre 1100 richieste informative, di cui 200 da dare sempre, 800 da dare su temi materiali, il resto su base volontaria” come ricorda Consob, sottolineando ancora una volta la portata della rivoluzione.
Chiara Del Prete, Presidente TEG di EFRAG, ha portato quindi l’attenzione su un altro aspetto che può risultare complicato per le imprese, ovvero l’analisi della materialità, ovvero degli ambiti che ogni azienda deve dichiarare. “Proprio per questo EFRAG sta preparando il prossimo step, previsto per i primi mesi del 2025, che è quello degli standard settoriali, che permetterà di avere più certezza su quelli che sono gli ambiti di materialità di ciascun settore. Le aziende avranno già un elenco degli argomenti, che sapranno essere materiali per quel settore. Si partirà dai settori più impattanti: oil e gas, industria estrattiva, tessile e trasporto. Mentre nel 2026 saranno messi in consultazione banche e istituzioni finanziarie, assicurazioni e capital market.”
La debolezza della S
Da tempo si sottolinea, tra gli addetti ai lavori e gli esperti, come tra le dimensioni della sostenibilità sia stata finora quella ambientale ad essere prevalentemente trattata dalle aziende, a discapito del sociale, il cui impatto è difficile da misurare e quindi rendicontare. Anche di questo si è parlato nell’evento romano. Luigi Bobba, Presidente di FondazioneTerzjus, ha indicato una possibile soluzione nel volontariato di competenza. “Secondo un’ indagine di Unioncamere “Excelsior” circa il 5% delle imprese italiane con più di 50 dipendenti dà la possibilità ai propri dipendenti di fare volontariato durante l’orario di lavoro e il 26% si dichiara disponibile a offrire in futuro questa opportunità ai propri collaboratori”. All’interno del campione composto da circa 5000 aziende, il 40% dichiara di adottare programmi di volontariato di competenza ovvero forme di prestito non oneroso di propri collaboratori verso Onlus o ETS in modalità non occasionali e non residuali. Tra le tipologie identificate nell’analisi qualitativa prevalgono nettamente quella relativa al volontariato educativo (attività a favore di studenti e minori in difficoltà) e quello di consulenza (attività di informazione e sensibilizzazione su temi di rilevanza sociale, sportelli informativi, ecc).
La collaborazione tra aziende e Terzo settore è fondamentale per la realizzazione di progetti in area Social, cioè tra i dipendenti dell’azienda e sul territorio. Giovanni Mantovani, Presidente Fondazione Comunità Veronese, ha spiegato come queste realtà abbiano degli strumenti e delle competenze utili per le aziende per rispondere a questi obblighi di rendicontazione, con dei risvolti pratici importanti: “Questo approccio può migliorare la trasparenza e l’affidabilità delle informazioni di sostenibilità ed evitare il “socialwashing”.
Interessante anche lo spunto lasciato da Andrea Rotondo, Presidente Confartigianato Roma che ha trasmesso “la necessità per le PMI – soprattutto manifatturiera e artigianato – di veder armonizzati gli indicatori e la richiesta documentale, che deve essere semplificata, soprattutto se alcuni dati sono già disponibili altrove”.