[di Luigi Bobba e Gabriele Sepio, «Il Sole 24 Ore» del 17 luglio, pag. 23]
Il Rapporto annuale Inps, presentato ieri (si veda anche il servizio a pagina 8), dedica ampio spazio all’analisi della platea degli operatori del Terzo settore, restituendo una fotografia aggiornata di un comparto in espansione sotto il profilo occupazionale ma che continua a presentare elementi strutturali di fragilità, specie sul versante contrattuale e retributivo.
Le cifre dell’occupazione
I dati raccolti dall’Istituto in collaborazione con la Fondazione Terzjus sono frutto di un’integrazione tra l’archivio Runts al 31 dicembre 2024 e quello Uniemens. L’analisi evidenzia come il numero complessivo dei lavoratori del Terzo settore (con almeno un contributo previdenziale versato nel corso dell’anno) sia salito a quota 890.388, in aumento del 3,6% rispetto al 2023 e del 6,5% rispetto al 2022.
A trainare questa crescita sono stati soprattutto i lavoratori dipendenti del settore privato non agricolo, che rappresentano da soli l’85% dell’incremento registrato nell’ultimo biennio.
Accanto alla dinamica quantitativa, il Rapporto offre alcuni elementi di valutazione sulla composizione qualitativa della forza lavoro impiegata in quest’ambito. La componente femminile continua a essere nettamente prevalente, con una quota che nel 2024 si attesta al 71,6% del totale. L’occupazione giovanile, invece, resta limitata: solo il 28,2% dei lavoratori ha meno di 34 anni, mentre la classe di età più rappresentata è quella compresa tra i 35 e i 54 anni, pari al 48,3% del campione totale.
Contratti e redditi
Dal punto di vista contrattuale, si conferma un’ampia diffusione del lavoro a tempo parziale: tra i lavoratori dipendenti, la quota di part-time raggiunge il 61,7%, con un’incidenza particolarmente elevata tra le donne che, nel 63,3% dei casi, lavorano part-time anche nei contratti a tempo indeterminato. Solo il 56,8% dei dipendenti dispone di un contratto stabile e tra questi la maggioranza lavora comunque con un orario ridotto. In termini assoluti, su circa 850mila lavoratori dipendenti, meno di 325mila risultano impiegati full time e a tempo indeterminato.
La situazione è ancor più articolata per i collaboratori iscritti alla Gestione separata, che rappresentano circa il 5% del campione totale. Di questi, oltre l’81% opera esclusivamente nel Terzo settore, svolgendo attività continuativa spesso legata a incarichi professionali o di tipo amministrativo. Tuttavia, i redditi medi di questa categoria si mantengono molto contenuti: nel 2024, il compenso annuo medio per i cosiddetti collaboratori esclusivi è pari a 6.681 euro, in lieve aumento rispetto all’anno precedente ma ancora distante da livelli di sostenibilità.
Per quanto riguarda il reddito medio dell’intera platea dei lavoratori, l’Inps rileva una significativa differenza tra chi lavora soltanto nel Terzo settore e chi invece integra con altre attività. Nel primo caso, il reddito medio annuo si attesta a 15.452 euro per i dipendenti e a 6.681 euro per i collaboratori. Nel secondo caso, i valori salgono rispettivamente a 18.126 e 10.630 euro. Considerando la totalità dei lavoratori del comparto, il Terzo settore risulta coprire in media l’87,8% del reddito complessivo annuale degli occupati.
Criticità da risolvere
I dati delineano con chiarezza un settore in crescita ma ancora caratterizzato da elementi di vulnerabilità. L’incremento dei volumi occupazionali si accompagna a un’alta incidenza del lavoro precario, al ricorso diffuso al part-time e a retribuzioni che, per ampie fasce della popolazione lavorativa, si mantengono su livelli insufficienti.
In questo scenario, emerge la necessità di un intervento sistemico che sappia valorizzare l’apporto del Terzo settore nel sistema di welfare, anche con strumenti di incentivazione contrattuale e fiscale utili a favorire la stabilizzazione dei rapporti di lavoro e il miglioramento delle condizioni economiche degli operatori.
I NUMERI DEL TERZO SETTORE
Le differenze per Regione
La Lombardia è la prima Regione per numero di addetti, con oltre 211mila lavoratori iscritti alle diverse gestioni previdenziali, pari al 23,7% del totale nazionale. Seguono il Lazio con 73mila lavoratori, l’Emilia-Romagna con 82mila e la Toscana con 62mila.
Decisamente più bassa è la quota di lavoratori in alcune Regioni del Sud Italia, come la Campania (circa 54mila), la Puglia (circa 41mila) e la Sicilia (30mila). D’altronde, oltre il 53,9% degli occupati è concentrato nelle Regioni del Nord, con una prevalenza del 31,9% nel Nord Ovest e del 22% nel Nord Est. Il Centro Italia raccoglie il 20,6% del totale, mentre il Mezzogiorno si ferma al 25,5% del totale.
Disparità territoriali, quasi il 54% dei lavoratori è al Nord
La lettura geografica proposta dal rapporto Inps conferma un forte squilibrio territoriale nella distribuzione dei lavoratori del Terzo settore.
Oltre il 53,9% degli occupati è concentrato nelle Regioni settentrionali, con una prevalenza del 31,9% nel Nord Ovest e del 22% nel Nord Est. Il Centro Italia raccoglie il 20,6% del totale, mentre il Mezzogiorno rimane fortemente sottorappresentato, con una quota complessiva del 25,5%.
Il numero di lavoratori
La Lombardia si conferma come la prima Regione per numero di addetti, con oltre 211mila lavoratori iscritti alle diverse gestioni previdenziali, pari al 23,7% del totale nazionale.
Nella graduatoria seguono il Lazio, con 73mila lavoratori, l’Emilia-Romagna (82mila) e la Toscana (62mila).
Significativamente più bassa è la quota di lavoratori in alcune Regioni analogamente popolose del Sud come la Campania (circa 54mila), la Puglia (circa 41mila) e la Sicilia (30mila).
Dati che rispecchiano, in buona misura, il carattere dualistico del mercato del lavoro italiano e che vedono tradizionalmente penalizzate le aree del Sud sul fronte occupazionale.
Anche tra gli operai agricoli – seppur in valori assoluti più contenuti – la concentrazione al Nord raggiunge quasi il 70% del totale.
Gli squilibri regionali
Questa distribuzione riflette non solo la maggiore densità organizzativa e istituzionale del Terzo settore nelle Regioni settentrionali, ma anche un diverso grado di radicamento delle reti associative e dei servizi alla persona.
Laddove la presenza del Terzo settore è più diffusa, si rileva anche una maggiore articolazione delle funzioni svolte e una più intensa interazione con le amministrazioni pubbliche, in particolare attraverso strumenti come la co-progettazione e la co-programmazione.
Al contrario, nelle aree del Sud Italia, la dimensione istituzionale risulta più debole e la capacità di generare occupazione da parte degli enti di Terzo settore appare limitata, anche a causa di una minore stabilità delle fonti di finanziamento.
Servono politiche pubbliche
Il dato territoriale, in definitiva, si affianca alle altre evidenze raccolte nel rapporto Inps per suggerire l’urgenza di politiche pubbliche orientate a ridurre i divari strutturali.
Oltre a interventi di sostegno economico, appare necessario rafforzare la capacità organizzativa degli enti nelle Regioni svantaggiate, anche attraverso la leva fiscale, l’accompagnamento progettuale e la valorizzazione dei partenariati pubblico-privati.
In tal senso, il Terzo Settore può rappresentare un’opportunità concreta di crescita sostenibile e inclusiva, ma solo a condizione che venga riconosciuto come soggetto attivo delle politiche territoriali di coesione.