di Cristiano Caltabiano e Cecilia Ficcadenti, pubblicato in «Impresa Sociale» Numero 4 / 2025
Abstract
A partire dagli studi sui tiny publics portati avanti specialmente dal sociologo americano G.A. Fine che mettono a fuoco come l’aggregazione in piccoli gruppi possa costituire un livello meso che connette le istituzioni e la società civile, si indaga come le pratiche associative di civic engagement riescano ad entrare nei processi di cambiamento istituzionale. L’articolo si basa su nove casi di studio in diversi contesti istituzionali, quello della salute mentale, del lavoro nel settore della cultura e della scuola, attraverso l’utilizzo di tecniche d’intervista e di osservazione. I principali risultati mettono in luce come l’attivazione dei destinatari di queste esperienze associative (giovani studenti, lavoratori precari, persone con disagi psichici), attraverso pratiche di socializzazione e riconoscimento, generi degli spazi di produzione di nuovi saperi oltreché legami solidaristici e cooperativi, ovvero un campo di possibilità per l’azione collettiva territoriale.
1. Introduzione
Negli studi sulle organizzazioni non profit, tanto in Italia che all’estero, si è registrata negli ultimi decenni una convergenza verso la nozione di ibridazione, un concetto che aiuta a spiegare l’evoluzione della variegata platea di enti riconducibili al Terzo settore (ETS) nelle democrazie tardocapitalistiche (Reggiardo, 2022). L’idea è che, per quanto siano portatori di istanze radicalmente diverse rispetto al mercato e allo Stato, questi attori (associazioni prosociali e di volontariato, imprese sociali, altri soggetti filantropici, mutualistici, di matrice caritativa o di altra natura) finiscano in qualche modo con l’assumere tratti simili alle burocrazie pubbliche e alle imprese for-profit, proprio perché non operano in un “vuoto sociale”, essendo piuttosto coinvolti in una trama di rapporti all’interno della società, che ne condizionano lo sviluppo.
Guardando alle relazioni con la sfera politica, si tende a parlare di isomorfismo, seguendo gli assunti dell’analisi neoistituzionale delle organizzazioni complesse (Powell, Di Maggio, 1991), per cui gli ETS, partecipando stabilmente alla costruzione sul territorio dei servizi di welfare (e di altre policy pubbliche) avrebbero progressivamente assunto la postura delle amministrazioni locali, irrigidendosi nel proceduralismo, ovvero andando incontro a processi di burocratizzazione (Corchia, 2011; Eliasoph, 2009; Papakostas, 2011). Per altri versi, sul versante degli intrecci con il mercato, si assisterebbe ad una professionalizzazione o aziendalizzazione del mondo della solidarietà organizzata, laddove un numero crescente di ETS sarebbero spinti ad adottare sempre più modelli business like, caratterizzati dall’enfasi sul project management, sulla performance e sul marketing sociale, con il rischio di snaturare le proprie finalità (mercatizzazione), un esito alquanto paradossale per istanze e pratiche nate spesso proprio per dare una risposta (seppur non risolutiva) alle contraddizioni più stridenti del neoliberismo, fra tutte la necessità di includere le persone fragili o svantaggiate che restano nelle retrovie della società (Roy, Eikenberry, Teasdale, 2022).
Vi è senza dubbio un fondo di verità negli scenari dell’ibridazione del Terzo settore, in quanto sarebbe fuorviante presumere che vi sia una netta separazione dell’associazionismo e dell’imprenditorialità sociale rispetto alle sfere dello Stato e del mercato, trascurando il dato di fatto che vi è un intreccio di rapporti (più o meno fitto) che lega gli enti della solidarietà organizzata ai poteri economici e pubblici, locali e nazionali. Ma alcune disamine sugli effetti di questa contaminazione (o condizionamento) convincono francamente meno, soprattutto la tesi secondo cui gli ETS si sarebbero depoliticizzati a causa dell’abbraccio fatale con le logiche tipiche dell’economia e del sistema politico-istituzionale, in conseguenza del quale vi sarebbe stata una perdita complessiva della carica trasformativa rispetto alla realtà esistente (Busso, 2018, 2020). È persino scontato osservare che nel Terzo settore convivano prassi e organizzazioni talmente variegate da rendere la normalizzazione politica una dinamica pur sempre relativa: accanto ad esperienze civiche che col trascorrere del tempo possono diventare meno incisive, limitandosi ad agire in un’ottica riparativa o semplicemente conformandosi al sistema vigente, si affermano di continuo anche iniziative sociali mosse dall’ambizione di innescare dei mutamenti significativi nelle comunità locali dove operano.
Spesso si fa fatica a cogliere l’effervescenza della società civile, forse perché si concentra troppo l’attenzione sulle funzioni che l’associazionismo di promozione sociale, il volontariato, l’impresa sociale e la filantropia svolgono nella nostra società, volendo misurare gli effetti che questi (ed altri) attori creano nei differenti contesti in cui agiscono (Vitale, 2024). Studi di questo genere portano a fare un bilancio sui costi-benefici, per capire se con l’apporto degli ETS la qualità e l’efficienza dell’offerta dei servizi alla persona siano migliorate, oppure mirino a valutare l’impatto sociale delle iniziative poste in essere dagli soggetti solidaristici sul territorio o, in ultima analisi, cerchino di monitorare l’andamento dei volontari e degli attivisti nel corso del tempo, per scoprire se l’associazionismo e il volontariato offrano ancora spazi e occasioni per coltivare la cittadinanza attiva. Non c’è nulla di sbagliato nel rispondere alla domanda “A cosa servono gli ETS?”, ma forse sarebbe anche opportuno chiedersi come e perché le esperienze associative continuino a generarsi nel tessuto della società civile[1].
Oltreoceano, da qualche tempo, ci si è resi conto della scarsità di ricerche sui meccanismi interni di formazione delle azioni civiche che prendono corpo nella società. Alcuni autori hanno cambiato decisamente prospettiva nello studio del non profit, andando oltre gli approcci macro (studi comparativi internazionali e cross-settoriali sul profilo organizzativo e i vincoli sistemici che affrontano tali soggetti collettivi) e le prospettive d’indagine micro (ricerche demoscopiche o etnografiche sulle motivazioni e i comportamenti delle persone che si impegnano a titolo gratuito o lavorano in tali organizzazioni). Si punta in tale ottica a riesaminare la dimensione meso nella società civile, soffermandosi soprattutto su come si formano e con quali logiche operano le associazioni solidaristiche o i soggetti dell’economia sociale[2].
In un influente articolo apparso circa dieci anni fa, Lichterman e Eliasoph hanno proposto una visione alternativa dell’azione civica, fondata su resoconti etnografici di scene associative, mutuando apparati concettuali e strumenti di osservazione dall’interazionismo simbolico e da Goffman (Lichterman, Eliasoph, 2014). Questa metodologia qualitativa è stata peraltro ripresa anche da Citroni, che l’ha utilizzata di recente per ricostruire il repertorio d’azione di alcune realtà organizzative del Terzo settore in Lombardia (Citroni, 2022). In una prospettiva simile si muovono anche le riflessioni e le ricerche del sociologo Fine (2012), il quale ha sostenuto che è necessario indagare la genesi e i processi di mobilitazione dei gruppi che si formano incessantemente nella società civile, recuperando una tradizione di ricerca che affonda le radici tra gli anni ’40 e gli anni ’60 dello scorso secolo: dai lavori pionieristici di Whyte sulle subculture urbane (Whyte, 1943) agli studi sperimentali di Sherif sulle relazioni intergruppo (Sherif et al., 1961), passando per la rilettura sistematica di questa letteratura empirica ad opera di Merton, da cui è scaturita la teoria dei gruppi di riferimento (Merton, Rossi, 1950). Fine sostiene che ha ancora un senso approfondire la funzione svolta dai gruppi associativi (formali e informali) nelle democrazie contemporanee, afflitte dall’astensionismo elettorale e dai rigurgiti neopopulisti, nella misura in cui questi corpi intermedi sono ambienti socio-cognitivi dove i cittadini possono generare risorse per l’azione collettiva e in tal senso costituiscono un ponte (una cerniera, per usare la metafora dell’autore) tra l’individuo e la sfera pubblica (Fine, 2014).
Nel presente articolo ci si muove nel solco tracciato da tali filoni di ricerca, riesaminando le evidenze empiriche emerse in nove studi di caso realizzati nell’ambito del Decimo Rapporto sull’Associazionismo Sociale[3]. In particolare, sono state analizzate diverse esperienze associative che operano in tre contesti fortemente istituzionalizzati[4]: il mercato del lavoro artistico-culturale, la salute mentale e la scuola. La scelta è stata quella di esaminare contesti particolarmente strutturati dove l’associazionismo si confronta con norme, gerarchie e codici culturali vincolanti (benché possano essere espressi in modo latente o vagamente manipolatorio). Si vuole in tal modo capire se, in che misura e come questi gruppi riescano comunque a perseguire gli obiettivi per cui si sono formati, affrontando problemi pressanti e contraddizioni stridenti, senza rinunciare all’ambizione di migliorare la condizione delle persone che aggregano (o a cui si rivolgono), oltre a voler contribuire al progresso sociale della comunità, per quanto in una prospettiva inevitabilmente limitata. Il che non esclude che tali enti associativi possano subire fasi di stallo nel loro percorso di sviluppo, essendo non di rado costretti a rinegoziare valori e istanze costitutivi, sotto la pressione di condizionamenti esterni.
Come si può vedere dalla tabella sottostante si tratta di organizzazioni molto eterogenee, sia in termini di longevità, sia sul piano della strutturazione interna: pur essendo nate tutte negli anni 2000, vi sono enti come Redacta, Tramiti, La Ricostituente e Arca che si sono costituiti durante o dopo la pandemia, mentre altre realtà come i collettivi dei maestri e degli artisti di strada sono venuti alla luce più di dieci o vent’anni fa; accanto a ciò, cinque di queste formazioni hanno assunto una veste formale dal punto di vista giuridico, essendo anche iscritte al RUNTS o comunque avendo depositato un atto costitutivo, mentre tre sono forme associative del tutto informali.
Tabella 1 – I casi esaminati nella ricerca
| Denominazione e raggio d’azione | Anno di costituzione | Configurazione del gruppo | Membership |
| Advocacy freelance settore della cultura | |||
| Redacta e Tramiti (Associazione Acta) Milano, Bologna, Firenze | 2020/23 | Gruppi informali all’interno di una associazione senza scopo di lucro | Circa 20-30 associatiIn ciascuno dei due gruppi |
| Mi riconosci?Raggio d’azione nazionale | 2019 | Associazione di promozione sociale iscritta al RUNTS | 70 associati(10 sedi territoriali) |
| Associazione Artisti di StradaMilano (ASM) | 2013 | Gruppo informale | 12 associati |
| Salute mentale | |||
| Sentire le VociRaggio d’azione Nazionale | 2019 | Associazione di promozione sociale iscritta al RUNTS | 165 associati |
| ArcaReggio Emilia e Lucca | 2023 | Associazione di promozione sociale iscritta al RUNTS | 30 associati |
| Club SPDC No RestraintTrento | 2011 | Gruppo territoriale all’interno di un’associazione nazionale costituita come OdV e iscritta al RUNTS | 10 associati c.a. |
| Scuola | |||
| Maestri di StradaNapoli (quartiere Ponticelli) (MdS) | 2003 | Associazione, Onlus | circa 30 |
| Associazione Un mondo nel cuoreRoma (quartiere Corcolle) | 2016 | Associazione di promozione sociale iscritta al RUNTS | 46 |
| La RicostituenteRete nazionale | 2020 | Progetto promosso da due cooperative sociali | 4 cooperatori(200 giovani coinvolti) |
Il livello di formalizzazione e i meccanismi interni di governance contano solo fino ad un certo punto, in formazioni sociali che si muovono negli interstizi della società, proponendosi di dare voce a territori dimenticati o a persone/categorie sociali tendenzialmente svantaggiate. Qui l’associazione va intesa non tanto (o non solo) come formula giuridica quanto come forma di “sociazione”, ovvero l’interazione stabile che col passare del tempo si instaura fra persone che allacciano legami di reciprocità (Simmel, 2018) e per questo si identificano in un gruppo. Nei casi considerati in questo scritto la spinta associativa non viene veicolata esclusivamente da Aps o OdV, molto dipende dalle situazioni (ostacoli e facilitazioni) vissute nella quotidianità degli attivisti, di fronte alle questioni per cui questi hanno deciso di impegnarsi in un collettivo. Così può capitare che un progetto come La Ricostituente venga orchestrato da due cooperative che per anni sono state attive nell’housing sociale e nell’inserimento lavorativo di persone con disagi sociali, sebbene sia incentrato sulla partecipazione giovanile, un tema che di solito vede in prima fila l’associazionismo di promozione sociale e il volontariato organizzato. Allo stesso tempo, le mobilitazioni dei lavoratori autonomi della cultura non hanno trovato una sponda in un sindacato o in un’organizzazione professionale, piuttosto sono state veicolate da sodalizi e associazioni portatori di culture distintive. Dietro alla scelta di una configurazione organizzativa si annidano perciò molteplici fattori e concause, che debbono essere studiati in modo accurato. Nel mondo della solidarietà organizzata i confini sono destinati a sfumare proprio perché si agisce in aree liminari nelle quali bisogni, aspettative e risposte si intrecciano costantemente, assumendo caratteristiche inedite, che per di più evolvono nel corso del tempo. Ad ogni modo, nei casi indagati la membership non supera mai i 200 affiliati, essendo spesso contenuta nella soglia di poche decine di attivisti, il che vuol dire che vi è ampio spazio per condividere esperienze e progetti nella dimensione relazionale di gruppo.
Nei prossimi paragrafi si approfondirà il profilo di tali attori collettivi, a partire dalle pratiche (schemi ricorrenti di azione e risorse comuni) che questi mettono in campo mentre si districano in un groviglio di difficoltà legate all’ambito istituzionale in cui agiscono; tra queste attività ripetute nel tempo, la possibilità di incontrarsi e comprendersi vicendevolmente gioca un ruolo di primo piano, proprio per vincere una condizione di isolamento e marginalità (paragrafo 2). Il passo successivo sarà quello di dipanare le loro culture, ossia l’insieme di rappresentazioni con cui i membri di tali gruppi danno senso a ciò che fanno, sviluppando sentimenti di comunanza e forme di identificazione sociale, tra cui assume rilievo la contaminazione fra sapere esperto e sapere esperienziale (paragrafo 3); in seguito verranno esplorate le strategie con cui questi gruppi si attivano nei rispettivi ambiti di intervento, immettendo nello spazio pubblico le loro istanze, con esiti radicalmente diversi (piccole conquiste, delusioni momentanee, veri e propri fallimenti) e rapporti altalenanti con gli interlocutori istituzionali e altri stakeholder locali (paragrafo 4). Nelle conclusioni si tenterà invece di riannodare i fili emersi nel percorso di analisi, riflettendo sulla capacità trasformativa dei soggetti del Terzo settore.(segue)