Dieci anni dopo il Social Business Act, siamo di fronte ad un documento di rilevanza strategica: il Piano di Azione Europeo per l’Economia Sociale. Il Piano certifica un significativo salto di qualità nel riconoscimento della realtà e delle enormi potenzialità della multiforme articolazione dell’economia sociale in Europa e nel fissare le direttrici di una rotta per i prossimi dieci anni, pur essendo le principali misure in esso previste (complessivamente 38, di cui 10 di maggiore priorità) concentrate nel prossimo biennio.
Ad una lettura attenta, questo Piano è una svolta vera e così è stato salutato dalle reazioni di tutte gli attori interessati a livello europeo e da molti commentatori.
Principale richiesta della Conferenza di Strasburgo del gennaio 2014, a conclusione della più che prolifica (per l’ES) legislatura della Commissione Barroso, più volte ripresa e rilanciata con molte elaborazioni in documenti, conferenze, paper, azioni di Istituzioni Europee, Piattaforme e documenti del CESE e del Parlamento Europeo, il Piano è stato costruito su una vasta azione di consultazione delle Istituzioni UE, dei Governi, degli esperti, delle Rappresentanze sociali e di oltre 132 contributi specifici presentati nella procedura di consultazione formale, il Piano va persino oltre le migliori attese che si potessero avere.
Peraltro le tre principali proposte contenute nel contributo che Terzjus ha formulato nello scorso mese di aprile (quadro normativo, misurazione dell’impatto sociale e revisione in merito ad appalti pubblici e aiuti di Stato) sono riprese in modo praticamente completo nel Piano.
Questo non è un piano dedicato al consolidamento di un settore, nicchia solida e significativa, ma di fatto ancillare delle politiche pubbliche di welfare e di inclusione sociale e nel mercato del lavoro. Ma è il riconoscimento pieno delle sue potenzialità per il futuro delle politiche sociali e industriali dell’Europa, nel quadro trasformativo e di innovazione in cui siamo già immersi. Vorrei soffermarmi su tre aspetti di questo salto di qualità e delle sfide che vi sono sottese.
1. Il Piano presenta un approccio sistemico, che affronta i nodi strutturali dell’ES, in un innalzamento e allargamento della sua prospettiva di sviluppo, per essere parte traente delle sfide maggiori che l’Europa affronta nelle transizioni verso una economia sostenibile: ecologica, digitale, economia circolare e delle misure sociali di accompagnamento (fair transition). Questo chiede di focalizzarsi complessivamente sull’ Ecosistema che è necessario sviluppare e far crescere, a livello europeo, nazionale, locale e internazionale. Un Ecosistema che, pur tendendo in conto la grande diversità delle forme legali in cui si articola l’economia sociale nei 27 paesi europei, deve fare un necessario salto di qualità per consentire la creazione del quadro più appropriato per il loro sviluppo sostenuto, per esempio in materia di tassazione e di nuove forme di collaborazione transfrontaliera. Per questo, tra le azioni previste, la realizzazione di uno studio che mappi le diverse forme di riconoscimento o label delle forme dell’economia sociala, per identificare migliori pratiche e criteri comuni, anche in materia di tassazione. Con l’obiettivo di arrivare ad una Raccomandazione del Consiglio europeo sulle condizioni di sviluppo dell’ecosistema complessivo nel 2023. Analogamente si procederà alla revisione delle norme specifiche in materia di Aiuti di Stato e sull’allargamento delle possibilità di accesso agli appalti pubblici, che oggi rappresentano il 14% del PIL europeo. Questo per citare le principali misure a questo proposito, prima ancora di scendere nell’ampio numero di azioni per favorire e ampliare le opportunità di accesso alle molte opportunità di finanziamento già esistenti o che dovranno crearsi per coprire i gap già individuati.
2. Il secondo aspetto lo definirei così. Questo non è un piano per migliorare e rafforzare la già ampia, ricca e articolata strutturazione dell’ES e farle semplicemente conquistare nuovi spazi, in una società in trasformazione. Concentrandosi dunque allo sviluppo di misure e finanziamenti dedicati ad un settore da “proteggere” Ma è un piano che lavora molto di più sulle frontiere, sulle contaminazioni, sulle intersezioni, sulla generazione di ciò che non c’è ancora, sulla capacità di innovazione nel prendere il mare aperto della costruzione dell’economia europea di domani, delle sue forme industriali, di protezione sociale, di figure professionali e di partecipazione che ancora non immaginiamo, ma che verranno. Di raccogliere la imponente sfida trasformativa, cui i poteri pubblici, le imprese e il mondo del lavoro sono già chiamati, innestandovi la propria generatività specifica (cooperativa, mutualistica, partecipativa, dalla parte delle componenti più deboli delle nostre società, ecc.) Questo vale sia nei terreni più usuali (i rapporti con le pubbliche amministrazioni) che soprattutto nelle nuove frontiere dei rapporti con il mondo profit, con le imprese del mercato, con la finanza privata, con il mercato digitale, ecc. Per questo lo spostamento, di fatto, dalla relazione prevalente con il solo Pilastro sociale ad una logica che è altrettanto collegata alla nuova direttrice delle Politiche industriali dell’Unione europea, alla costruzione di network, alla nuova tassonomia della Finanza sostenibile, ad un maggiore coinvolgimento della Filantropia privata, allo sviluppo di meccanismi di raccolta di capitali sul mercato privato e co-investimento e così via. Tutti aspetti che richiedono anche uno sviluppo decisivo sia delle capacità di progettazione e gestione, che di metodiche adeguate e largamente condivise e adottate di misurazione dell’impatto sociale.
3. Tutto questo richiede una sfida non solo organizzativa e “imprenditiva” delle diverse organizzazioni, ma anche e soprattutto una sfida formativa. Adeguare e incrementare competenze, per lavorare su terreni inediti; entrare e generare alleanze nuove e oltre le proprie frontiere, anche in ambiti multilinguistici e multiculturali; essere in grado di sposare con decisione la logica di “impatto” delle politiche e degli investimenti e saperla misurare e confrontarsi con i risultati; saper interloquire con la sempre più ampia gamma di opportunità già esistenti nelle diverse linee di finanziamento europeo, ma anche recuperare il gap esistente, purtroppo, nell’essere un soggetto traente nella messa a terra di molti dei Piani di ripresa e resilienza degli Stati membri. Ecco la straordinaria sfida formativa e la necessità di un investimento senza precedenti sui quadri, dirigenti e operatori dell’economia sociale tutta. In questo non mancano gli strumenti e le azioni specifiche che il Piano già elenca, ma che sono soltanto uno stimolo ad una azione assai più diffusa e strutturata, che deve farsi negli Stati, nei territori e nei sistemi delle organizzazioni. Insomma, un investimento massiccio in formazione continua, anche con stage in altri paesi, è l’orizzonte con cui misurarsi. Vorrei concludere dicendo che il Piano offre una strategia di vera svolta e di questo bisogna essere assai riconoscenti alla Commissione europea, a tutti coloro che ci hanno lavorato e al Commissario Nicolas Schmit che l’ha fortemente perseguita. Ma la svolta si svilupperà solo nei contesti nazionali, locali, delle organizzazioni e delle loro capacità di generare innovazione nelle frontiere, nei territori oggi sconosciuti e nelle alleanze, anche ardite. Così come nella capacità di rappresentanza e comunicazione. Altrimenti non ci sarà svolta, almeno non per parti significative delle organizzazioni attuali dell’economia sociale. Ma ne nasceranno di nuove, che occuperanno e svilupperanno questi spazi immensi. Perché questa rotta è quella necessaria per l’Europa post-pandemica e per quello che dobbiamo trasformare e costruire da qui al 2030 e oltre.