Co-creazione: i cittadini e gli operatori pubblici protagonisti del cambiamento del welfare (e non solo)

Nel nostro Paese vi è un prefisso che guadagna consensi crescenti tra gli studiosi, i decisori pubblici e gli attivisti sociali. Si tratta dell’espressione “co” che, in congiunzione con le principali funzioni del ciclo delle politiche pubbliche (co-programmazione, co-progettazione, co-produzione e co-valutazione), sta ad indicare forme mutevoli di collaborazione fra i diversi soggetti che intervengono nella definizione e nell’attuazione di attività di interesse generale (istituzioni pubbliche, Enti del Terzo Settore -ETS, agenzie educative, parti sociali, gli stessi cittadini). Non solo nel perimetro tradizionale del welfare (servizi socioassistenziali, sociosanitari e socioeducativi), ma anche in altri importanti ambiti per la cura del benessere collettivo, tra cui la rigenerazione urbana, le comunità energetiche, l’agricoltura e il turismo sociale, lo sport inclusivo. 

In Italia questi temi sono entrati solo di recente nel dibattito pubblico, specie dopo l’approvazione del Codice del Terzo Settore (Dlgs. 117/2017), che all’articolo 55 ha codificato nella nostra legislazione le procedure di co-programmazione e co-progettazione e a seguito della pubblicazione di una sentenza, per molti versi storica, della Corte costituzionale (n.131 del 2020), la quale ha stabilito che l’amministrazione condivisa dei beni comuni fra le diverse articolazioni dello Stato e gli ETS è la precondizione per dare piena attuazione ad un valore essenziale quale è la sussidiarietà orizzontale (articolo 118 della Costituzione). 

All’estero ci si interroga in realtà da tempo sulla possibilità di dare vita ad una svolta collaborativa nelle politiche pubbliche per superare le contraddizioni insite nel New Public Management (NPM), modello che ha imperversato in Europa e oltreoceano per oltre un trentennio. L’idea per cui ci si debba affidare ad un paradigma sostanzialmente competitivo, improntato sulla concorrenza fra diversi erogatori di servizi  e interventi rivolti ai cittadini (imprese accreditate e ETS), con lo Stato a fare da arbitro di un sistema fondato essenzialmente sulla esternalizzazione di queste prestazioni, risulta sempre meno convincente agli occhi degli addetti ai lavori (analisti, politici, dirigenti e funzionari statali, leader del terzo settore), per via dei modesti risultati che si ottengono seguendo tale approccio.

Tra gli effetti indesiderati dell’uso pervasivo della contrattazione esterna tramite le gare di appalto vi sono la scarsa qualità dei servizi, l’incapacità di dare voce e promuovere l’autonomia dei destinatari degli interventi (non di rado persone emarginate o fragili), una perdita complessiva di incisività da parte degli ETS, i quali vengono troppo spesso relegati in un ruolo meramente esecutivo, l’impoverimento dei legami cooperativi nella comunità locale, dal momento che gli ETS e i privati sono spinti a gareggiare in un’arena dove le risorse sono sempre più esigue, anche a causa delle politiche di contenimento della spesa sociale che si sono susseguite in questi anni nelle società tardocapitalistiche. In estrema sintesi, l’applicazione dei criteri di mercato al settore del welfare sembra tradire le sue maggiori premesse, ossia produrre efficienza, stimolare la creatività e l’innovazione, oltre a dare maggiore libertà di scelta ai cittadini. 

È in questo ampio processo di revisione critica, che investe tanto la ricerca scientifica quanto la gestione delle policy (si parla in tal senso del passaggio ad un nuovo modello incentrato su una New Public Governance più democratica e pluralista rispetto al NPM), che si colloca il volume che ci accingiamo a presentare in questo breve articolo. 

Il libro, dal titolo Co-creation in Public Services for Innovation and Social Justice, edito nel Regno Unito nel 2024 per i tipi editoriali di Policy Press, è stato scritto a più mani da esperti e ricercatori universitari, tra i quali figura Andrea Bassi, professore associato di Sociologia all’Università di Bologna e membro del comitato scientifico della Fondazione Terzjus; non è un contributo a carattere teorico, quanto piuttosto il frutto di un ambizioso programma di ricerca applicata, realizzato dagli autori per circa tre anni in dieci nazioni, grazie ad un finanziamento della UE: Italia, Svezia, Regno Unito, Estonia, Ungheria, Polonia, Spagna, Finlandia, Olanda, Grecia. 

Uno dei pregi di quest’indagine transnazionale è quello di essere ancorata ad un quadro concettuale piuttosto chiaro su cosa si intenda in concreto  quando si fa riferimento alla co-creazione (capitolo 1): a differenza della co-programmazione e della co-progettazione che intervengono a monte della formulazione delle politiche pubbliche, quest’ultima, al pari della co-produzione, ha a che vedere con l’erogazione dei servizi alla persona; in particolare, ciò  che la  qualifica è il puntare decisamente sulle capacità e le risorse che i cittadini e non possono mettere in campo quando entrano in contatto con i servizi pubblici. In tale ottica essi non sono fruitori passivi di politiche assistenziali “calate dall’alto”, quanto artefici delle stesse, in quanto individui che lavorano su di sé per imprimere cambiamenti positivi nella propria esistenza e che perciò possono contribuire a migliorare gli stessi servizi, rendendoli più aderenti ai loro bisogni. Questo è un assunto imprescindibile, al punto da assumere un carattere normativo: “la co-creazione nei servizi pubblici è indissolubilmente legata allo sviluppo delle capacità e dell’azione delle persone in modo che possano prosperare e condurre una vita dignitosa. Pertanto, la co-creazione è essenzialmente una pratica che ha lo scopo di creare valore sociale, e per questo una teoria su di essa deve necessariamente affrontare questioni normative ed etiche (traduzione nostra, p.18)”. 

L’obiettivo di fondo è non solo analizzare in modo asettico le condizioni per cui i portatori di bisogni possano avere minore o maggiore voce in capitolo quando incontrano un assistente sociale o un altro funzionario pubblico, ma anche promuovere attraverso la ricerca un mutamento in tale direzione. Gli autori non sono quindi ossessionati dal mito dell’avalutatività, ma si pongono come degli intellettuali militanti che cercano di assecondare il passaggio ad un sistema di welfare che sappia valorizzare le persone, dando loro gli strumenti per interagire su basi paritetiche con le figure professionali che tentano di aiutarli. Proprio in virtù di questa opzione preliminare, appare assai coerente la scelta di condurre degli studi pilota in ciascuno dei paesi coinvolti nel progetto transnazionale, per capire quali siano i punti di forza e di debolezza della co-creazione, ancorandola a esperienze che mirano a perseguire dei cambiamenti auspicati nei contesti esaminati. 

I metodi utilizzati in tali “esperimenti sociali” sono i più vari: interviste in profondità, focus group, incontri dedicati all’autoascolto e alla riflessività, iniziative formative o sessioni informali di progettazione sociale. Diversi soggetti hanno preso parte alla ricerca sul campo: gli autori del volume, altri ricercatori e facilitatori ingaggiati nei diversi paesi per l’intera durata del progetto, responsabili e operatori di servizi, dirigenti di associazioni e imprese sociali e ovviamente i destinatari delle politiche. Per ragioni di brevità ci focalizzeremo solo su due di queste esperienze, per quanto siano tutte meritevoli di una lettura approfondita, sia per lo sforzo profuso nel raccontare senza eccessivi tecnicismi e con onestà intellettuale cosa avviene quando vengono introdotte delle innovazioni nei sistemi di welfare locali, sia perché da tali casi di studio emergono spunti di riflessione interessanti per l’Italia, essendo stati condotti in luoghi dove vi sono prassi e culture amministrative assai distanti dalle nostre.

Un argomento di particolare rilievo è quello affrontato nel capitolo 4 laddove vengono comparati gli esiti di due studi pilota sul coinvolgimento dei manager e degli impiegati pubblici nell’ambito di programmi che mirano a favorire il protagonismo degli utenti delle politiche sociali: la prima sperimentazione ha riguardato l’erogazione di servizi rivolti a persone con disabilità cognitive e fisiche nella città di Jönköping, in Svezia; mentre la seconda iniziativa ha preso corpo a Reggio Emilia, dove è stata testata una App per genitori che hanno figli con problemi di obesità. In entrambi i casi il focus del progetto sono stati i Street Level Bureaucrats (SLB), ovvero il personale delle agenzie statali che interagisce con i cittadini e i migranti quando questi richiedono una qualche forma di sostegno o semplicemente informazioni. 

Di solito si sottovaluta l’impatto che queste figure professionali hanno sui piani di riorganizzazione delle attività di servizio. Nelle due esperienze si è invece tentato sin dall’inizio di renderli compartecipi dell’innovazione, attraverso incontri preparatori, gruppi di studio e di riflessione, oltreché attività formative; questa strategia si è dimostrata lungimirante sia nel contesto svedese che in quello italiano. 

A Jönköping la partecipazione dei SLB all’attività di costruzione di senso dell’iniziativa ha favorito l’adozione di una cultura amministrativa più incline ad attivare le persone con disabilità nei servizi, abbassando le difese e le resistenze degli operatori e dei manager pubblici, che non si sono sentiti minacciati da questo cambiamento, vedendolo anzi come un modo per migliorare il proprio lavoro e la soddisfazione degli utenti. 

A Reggio Emilia il coinvolgimento dei pediatri era fondamentale per il successo del progetto, potendo questi svolgere un ruolo decisivo per persuadere i genitori ad avvalersi della App; partecipando a molteplici riunioni questi medici  hanno sposato il progetto (anche per intercessione di due colleghi autorevoli) proprio perché hanno modificato la loro percezione sullo stesso: se in principio la piattaforma digitale veniva concepita come un’incombenza alquanto inutile, alla fine dello studio pilota essa veniva considerata dai pediatri come uno strumento valido per aiutare i bambini a perdere peso e a fare una vita più salutare. 

Dallo studio emergono alcune indicazioni operative per far sì che gli SLB diventino degli alleati (e non dei detrattori) delle riforme: a) coinvolgerli da subito nell’azione di cambiamento, b) far capire ai manager che può esser più vantaggioso delegare le responsabilità e monitorare i processi piuttosto che arroccarsi in un formalismo alquanto sterile (rispetto esclusivo delle procedure), c) fornire incentivi materiali e simbolici a tutti i lavoratori del comparto pubblico (dirigenti, funzionari ed operatori), d) rinsaldare l’identità di queste figure professionali che debbono potersi considerare agenti di cambiamento, e) individuare dei facilitatori competenti che possano accompagnare lo sviluppo dei programmi.

Una seconda questione cruciale è stata posta al centro del capitolo 5, resoconto di una ricerca-azione svolta in Finlandia e che ha avuto come target i Neet, 18-24enni che non studiano e non lavorano, i quali rappresentano circa il 10% di questa coorte anagrafica nella Nazione nord-europea.

Si è quindi dinnanzi a un problema di proporzioni ragguardevoli anche in Scandinavia dove, al contrario di quel che accade nel Belpaese in cui l’acronimo è diventato ormai tristemente noto per l’ampiezza del fenomeno, non ci si aspetterebbe che le nuove generazioni possano avere difficoltà ad integrarsi in una società nella quale le reti di protezione sociale sono solide e funzionanti. 

La filosofia dell’intervento è stata quella di assecondare l’impegno dei Neet finlandesi, sovvertendo il luogo comune con cui questi vengono rappresentati soprattutto dai media, dove non è infrequente scadere in valutazioni sommarie sulla loro inconcludenza o comunque puntare l’indice sulle loro debolezze (disadattamento, disagio familiare, carenze culturali, ecc.). Per dare voce ai giovani e non etichettarli sono stati in sostanza utilizzati tre canali: lo storytelling digitale, i social media e gli hackatons[1]. 

Quest’ultima metodologia, non molto conosciuta al di fuori della cerchia degli esperti di algoritmi e di programmazione informatica, prevede lo svolgimento di eventi informali, della durata anche di due giorni, nel corso dei quali i partecipanti sono liberi di scambiare soluzioni creative nel settore delle nuove tecnologie. 

Rispecificati in ambito sociale, questi momenti collettivi si sono trasformati in occasioni di confronto e proposta fra i partecipanti su come fuoriuscire da situazioni penalizzanti, partendo dalla loro esperienza personale. In tali sessioni creative i Neet non si sono sentiti biasimati o assistiti, essendo stati incoraggiati a generare idee costruttive che in massima parte sono state riprese e rilanciate nel programma realizzato nella municipalità di Turku (come organizzare i punti di incontro e servizio, quali App e dispositivi tecnologici possono realmente agevolare i giovani nella ricerca del lavoro e nelle attività formative e via discorrendo).

Come si vede, da questa pur sintetica ricostruzione di alcuni dei casi analizzati nel volume, la co-creazione può essere un modello di policy fruttuoso, soprattutto se viene architettata e applicata tenendo conto dei fattori locali (risorse e criticità) che possono condizionarne l’esito. Gli autori del libro hanno dimostrato che è possibile trasformare in modo partecipativo le politiche pubbliche, dando più spazio alle persone (destinatari e operatori di servizio) e all’associazionismo, ma bisogna necessariamente investire tempo ed energie sia nella progettazione che nell’attuazione degli interventi. 

Un motivo in più per leggere il libro, dove tale approccio viene per la prima volta descritto, argomentato e messo in pratica in modo compiuto. È sempre necessario prestare attenzione allo sperimentalismo, una logica attraverso la quale si può dare continuità ai programmi sociali, raccogliendo evidenze empiriche per capire cosa ha funzionato e cosa non è andato per il verso giusto.  

Può essere un modo per salvare le riforme dal dilemma del castello di sabbia (metafora che riprendiamo volentieri dagli autori del volume), che può travolgere ogni disegno politico, cancellato dalla prima ondata di marea provocata da un cambio di maggioranza di governo o, peggio ancora, dai mutamenti delle mode culturali, ai quali anche i decisori pubblici e gli studiosi non riescono talvolta a sottrarsi.   

Note:

[1] Questo anglismo è una fusione tra hacker e marathon e vuol dire letteralmente maratona fra appassionati di informatica.   

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