Ci sono quasi 16,5 milioni di italiani che scelgono di avvalersi del 5 per 1000, ovvero più della metà dei contribuenti italiani che presentano una dichiarazione dei redditi con una tassazione positiva. E’ da loro che bisogna ripartire se non vogliamo – come ha scritto De Rita – arrenderci allo statalismo dell’emergenza. La coincidenza tra la prossima campagna fiscale e la Fase 2 della crisi epidemica, ci offre l’occasione per ripensare e rafforzare questo originale strumento di sussidiarietà fiscale – nato nel 2006 – che viene utilizzato da un numero di contribuenti quasi pari a quelli optano per l’8 per 1000 per le diverse confessioni religiose e cinque volte superiore a coloro che si avvalgono del 2 per 1000 destinato ai partiti politici. Il successo di questa misura evidenzia quanto gli italiani apprezzino il lavoro di tante associazioni, fondazioni e organizzazioni di volontariato che promuovono la ricerca scientifica per combattere malattie mortali, che operano in luoghi di conflitto e di miseria, che si impegnano per la cura e l’educazione dei bambini e dei ragazzi specialmente nei paesi del Sud del mondo, che sono vicine agli anziani e alle persone disabili e che proteggono e curano il nostro ambiente e i nostri beni culturali.
Tre strade per far ripartire il 5×1000
Tra il 2013 e il 2014, il numero dei contribuenti che utilizzavano il 5 per 1000 conobbe un’impennata che portò il totale intorno ai 16 milioni per poi conoscere, negli anni successivi, una sostanziale stabilizzazione. Domanda: come raggiungere quell’altro quasi 50% di contribuenti che non si servono della facoltà di indirizzare per una buona causa una parte della tassazione dovuta? Ci sono tre strade che si possono percorrere. La prima appartiene alla responsabilità del Governo e del Parlamento: varare subito il provvedimento che dimezza i tempi per l’erogazione del 5 per 1000 ai beneficiari. Oggi trascorrono ben due anni da quando il cittadino scrive sul 730 il codice fiscale dell’ente a cui vuole destinare il suo 5 per 1000, a quando il beneficiario riceve la somma spettante. La riduzione ad un anno darebbe al contribuente una maggior fiducia che le proprie risorse arrivino velocemente al destinatario e non si perdano nei meandri della burocrazia. E poi, il Governo dia luogo nell’anno corrente al pagamento degli importi dovuti sia del 2018 che del 2019. Una boccata di ossigeno in questo tempo di emergenza per molte organizzazioni di Terzo settore. Secondo: la RAI, servizio pubblico, metta in programmazione da maggio una campagna promozionale che racconti il volto positivo del 5 per mille, in modo da provare a persuadere anche quei 14 milioni di contribuenti che non hanno mai scelto di utilizzare il 5 per 1000. E se questo porterà a rendere insufficienti le risorse del fondo dedicato – 500 milioni -, il Governo provveda, in uno dei decreti di emergenza, ad incrementarlo adeguatamente. Infine, ci si affretti a rendere operativo il Registro Unico degli Enti di Terzo settore, in quanto sulla base della riforma, tutti coloro che saranno iscritti al Registro potranno accedere al 5 per 1000, ampliando così la platea dei beneficiari. Platea che, tra l’altro, andrebbe riordinata in quanto vi sono squilibri evidenti tra gli enti di volontariato che ricevono mediamente un importo pari a 7200 euro e gli enti della ricerca scientifica e della sanità a cui arriva invece una somma pari a circa 225.000 euro.
E, in parallelo a questo riordino, si potrebbe altresì passare dal 5 al 7 per 1000 con una spesa aggiuntiva di 200 milioni, nonché incrementare la quota della detrazione fiscale per le erogazioni liberali portandola dall’attuale 30 al 50% dell’importo donato. Parafrasando Giorgio Gaber, la sussidiarietà fiscale non è una bella affermazione da esibire in qualche convegno, ma una strada che può contribuire a rafforzare le reti della solidarietà e favorire la rinascita inclusiva delle nostre comunità.
Questo articolo è comparso originariamente su: Vita.it