[di Gabriele Sepio, pubblicato su Vita.it del 12 gennaio 2024]
Il caso dei pandori Balocco “griffati” Chiara Ferragni porta nuovamente il dibattito pubblico a riflettere sulla centralità della trasparenza e dell’affidabilità quando si attivano raccolte pubbliche di fondi ispirate alla solidarietà senza passare per il Terzo settore. E di nuovo, come accade quasi ciclicamente, ci si interroga sulla necessità di nuove regole e vincoli per evitare che si ripetano attività ai danni dei donatori. Ma vi è davvero la necessità di nuove regole e cosa manca davvero in Italia per evitare nuovi “casi Ferragni”?
Per rispondere a questa domanda bisogna prendere le mosse da una premessa di fondo, ovvero dal fatto che le raccolte fondi non si distinguono solamente in base all’obiettivo più o meno meritevole che perseguono ma in funzione dei soggetti che le attivano e delle regole seguite. Esiste già in questo Paese una sorta di “bollino di garanzia” delle donazioni che si chiama Terzo settore ed esistono regole di trasparenza che devono essere applicate quando si attiva la generosità dei donatori contenute nel codice del Terzo settore e nelle linee guida adottate dal ministero del Lavoro.
Evitiamo facili generalizzazioni ispirate alla diffidenza verso chi chiede la generosità altrui: esiste già in questo Paese una sorta di “bollino di garanzia” delle donazioni, che si chiama Terzo settore
Tuttavia, come avvenuto nei recenti fatti di cronaca, non sempre viene coinvolto un ente del Terzo settore ed in questo caso il rispetto della trasparenza viene lasciato alla discrezionalità degli organizzatori e alla sensibilità che questi mettono in campo per tutelare sé stessi, la propria reputazione e l’affidamento dei consumatori. Questo aspetto sembra emergere peraltro, con riferimento al caso in esame, anche dallo scambio di mail tra le parti coinvolte e la comunicazione fumosa contenuta nei prodotti venduti e su cui si è basata la decisione dell’antitrust di comminare sanzioni pecuniarie alle società della nota influencer (oltre un milione di euro) nonché alla società produttrice dei pandori (420mila euro). Sanzioni cui potrebbero seguire effetti ben più rilevanti legati alla responsabilità penale per truffa aggravata.
Il caso
Nell’ambito dell’iniziativa legata al caso “pandoro Ferragni” il prodotto era stato presentato come un sostegno per l’Ospedale Regina Margherita di Torino; l’invito ai potenziali acquirenti era quello di contribuire alla ricerca sull’osteosarcoma e sarcoma di Ewing. Tuttavia il primo elemento discutibile e probabilmente sottovalutato dagli organizzatori è che, da quanto si apprende dalle fonti di cronaca, prima ancora di avviare la vendita dei pandori già si fosse provveduto a donare una somma fissa di 50mila euro a favore dell’ospedale escludendo a priori qualsiasi forma di contribuzione legata alle vendite effettive e, dunque, alla partecipazione “emotiva” da parte dei consumatori. Questi ultimi, orientati evidentemente dalle indicazioni legate alla iniziativa solidale e alla attrattività del brand Ferragni, hanno acquistato un prodotto per un prezzo, come si evince dalla lettura dei fatti di cronaca, pari più o meno al doppio rispetto allo stesso prodotto immesso sul mercato dalla medesima casa produttrice ma al di fuori della iniziativa in commento.
Ed è proprio questo il punto: da sempre il tema della raccolta fondi ha dovuto fare i conti con alcuni aspetti critici, come l’ambiguità o la parzialità delle informazioni rivolte ai sostenitori o l’effettivo utilizzo delle risorse raccolte. Soprattutto nell’era dei social e della digitalizzazione delle raccolte la comunicazione verso il mercato si caratterizza per essere rapida e immediata, consentendo alle informazioni di diffondersi in modo virale e raggiungere il maggior numero possibile di persone che spesso sono portate a donare sulla spinta emotiva di fatti cronaca o di vicende che interessano intere fasce di popolazione (pensiamo al periodo Covid oppure ai terremoti o alle inondazioni).
Non è un caso che ciclicamente balzino agli onori della cronaca attività di raccolta a favore di iniziative solidali, salvo poi scoprire che i fondi sono andati a favore di attività del tutto diverse rispetto a quelle paventate, o quando non addirittura a soddisfare consumi personali dei promotori. Senza contare i casi in cui vi è una totale assenza di rendicontazione e dunque di possibilità di controllo da parte dei donatori. Questo aspetto diviene ancora più rilevante quando sono in gioco profili reputazionali e marchi aziendali di rilievo nazionale o internazionale che vengono associati alla promozione di attività benefiche. La solidarietà è una spinta potentissima per attivare la generosità dei donatori ma può essere anche un boomerang altrettanto potente se non si gioca a carte scoperte. Il caso Balocco-Ferragni, dunque, deve farci riflettere sullo stato dell’arte delle regole alla base delle raccolte pubbliche di fondi evitando facili generalizzazioni ispirate alla diffidenza verso chi chiede la generosità altrui, giacché esiste nel nostro Paese una grande tradizione legata alla raccolta fondi da parte degli enti del Terzo settore. Sono attività che vengono svolte, spesso, in silenzio e senza grandissimo clamore mediatico, con grande professionalità formatasi nel corso del tempo e che si basano sull’affidabilità di regole nate proprio per evitare improvvisazioni puntando sulla chiarezza dei rapporti tra chi riceve e chi dona.
Le regole esistenti
Anzitutto, è fondamentale notare che già esiste in Italia una disciplina dedicata alla trasparenza dell’attività di raccolta fondi, scritta e pensata appositamente per le realtà non profit dotate della qualifica di ente del Terzo settore (Ets). Queste ultime, come noto, svolgono attività di interesse generale a favore della collettività come presupposto per poter assumere la qualifica di Ets. Dunque la presenza di un ente del Terzo settore in una attività di raccolta, specie quando dotato già di un riconoscimento rispetto all’attività solidale svolta, dovrebbe fornire una prima garanzia rispetto al fatto che la raccolta non è frutto di improvvisazione e soprattutto non può essere slegata rispetto alla applicazione di regole di trasparenza per garantire i sostenitori e contribuire a creare un rapporto di fiducia con i consumatori. Non a caso il “dono” costituisce un perno centrale della riforma del Terzo settore e trova una declinazione in norme volte a garantire la generosità di chi si rivolge al non profit per sostenere iniziative benefiche. Il ministero del Lavoro, infatti, impone agli Ets di adottare un preciso iter di rendicontazione della raccolta fondi, caratterizzato dal costante rispetto dei principi di trasparenza, verità e correttezza dell’attività esercitata (decreto 9 giugno 2022 del ministero del Lavoro, Linee guida in tema di raccolta fondi degli Ets).
Per intenderci, se la raccolta fondi è svolta da un Ets, è un imperativo fornire informazioni precise in merito all’iniziativa proposta (durata della raccolta, destinatari dei fondi, modalità con cui eseguire la donazione); nel caso in cui la raccolta è effettuata per progetti specifici, si dovranno indicare l’obiettivo da raggiungere, la destinazione delle risorse e delle eventuali eccedenze (qualora sia superato l’obiettivo iniziale), nonché i tempi previsti per la realizzazione del progetto. Senza contare i profili relativi all’accessibilità, intesa come vero e proprio diritto del donante di reperire informazioni chiare, dirette e facilmente comprensibili sull’utilizzo della sua donazione. A questo si aggiunga che la raccolta fondi deve trovare una propria collocazione nei bilanci degli enti iscritti nel registro nazionale del Terzo settore ed è prevista una rendicontazione ad hoc da allegare al bilancio nelle ipotesi in cui le raccolte vengono svolte in forma occasionale. Cautele che, a ben vedere, trovano già un precedente storico nelle Linee guida in tema di raccolta fondi pubblicate nel 2010 dall’Agenzia per le Onlus, dove peraltro si poneva l’accento sulle attività di fundraising effettuate in collaborazione con realtà for profit, sottolineando sia la necessità di effettuare una preliminare indagine conoscitiva sull’impresa, sia di valutare con attenzione se i principi e gli obiettivi di tutte le parti coinvolte fossero adeguatamente bilanciati ai fini dell’iniziativa benefica (§ 4 Raccolta fondi dalle imprese for profit). Senza contare che il dPR 600/1973 (art. 20) impone agli enti non commerciali che effettuano raccolte pubbliche di fondi di redigere, entro quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio, un apposito e separato rendiconto, dal quale devono risultare in modo chiaro e trasparente (anche tramite relazione illustrativa) le entrate e le spese relative a ciascuna celebrazione, ricorrenza o campagna di sensibilizzazione ove sia effettuata attività di fundraising.
I benefici fiscali
La trasparenza delle attività effettuate premia i donatori e restituisce, grazie alla riorganizzazione dei benefici fiscali avvenuta con il Codice del Terzo settore, una parte dell’importo donato. L’art. 83 del Codice del Terzo settore incentiva tali comportamenti garantendo, per enti ed imprese, la possibilità di dedurre l’intero importo donato entro il 10% del reddito complessivo dichiarato. Lo stesso articolo prevede, per le persone giuridiche, la possibilità di fruire della medesima agevolazione o di una detrazione pari al 30% di quanto donato (35% per le organizzazioni di volontariato), entro il limite di 30mila euro annui.
La raccolta fondi e il mercato
Le dinamiche di trasparenza e fiducia reciproca appena descritte cambiano notevolmente quando l’attività di fundraising è condotta da un soggetto profit, o comunque da un ente non tenuto al rispetto della normativa sul Terzo settore. Certamente è possibile che la raccolta sia svolta con la massima chiarezza, come pure che l’attività sia rendicontata a dovere nel rispetto della fiducia assegnata dai donatori ai quali tuttavia, in questo caso, spetta il compito di verificare quali sono le effettive regole che l’azienda o l’ente intende seguire per garantire la trasparenza. Aspetto quest’ultimo che diviene ancora più rilevante quando si adottano delle procedure dove il marchio aziendale viene associato, per assicurare un ritorno reputazionale ancora più forte, al brand dell’ente beneficiario, spesso un ente non profit.
Quando l’attività di fundraising è condotta da un soggetto diverso dal Terzo settore, il comportamento “virtuoso” è lasciato all’iniziativa dell’azienda/ente promotore della raccolta fondi, e non assoggettata ad un preciso obbligo, come accade, invece, per gli Ets
Si tratta di una strategia di corporate fundraising molto diffusa e a vario titolo e con diverse sfumature che non è il caso di approfondire in questa sede, definita come “cause related marketing”. A maggior ragione quando si mette in gioco un legame reputazionale, comunicando anche visivamente una iniziativa che lega una causa commerciale ad una benefica, il fatto di adottare regole di trasparenza e di assicurarsi che queste vengano opportunamente rese note ai donatori, diviene di fondamentale importanza.
Si tratta evidentemente, in ogni caso, di un comportamento “virtuoso” lasciato all’iniziativa dell’azienda/ente promotore della raccolta fondi, e non assoggettata ad un preciso obbligo di comportamento (come accade, invece, per gli Ets). Va detto che anche nell’ipotesi in cui l’iniziativa di raccolta prenda le mosse da una azienda profit per fornire fondi a sostegno di realtà impegnate in attività di interesse generale, ma al di fuori del perimetro del Terzo settore, è possibile godere di benefici fiscali: come nel caso del “pandoro Ferragni”, infatti, pur non venendo in questione un Ets, il beneficio era orientato a favore di una attività di ricerca scientifica che gode di puntuali benefici fiscali per chi dona. Un’impresa può dedurre l’importo erogato in favore di organizzazioni impegnate in ricerca scientifica entro il 2% del reddito dichiarato, (art. 100, comma 2, lett. a) del Tuir). Una persona fisica, invece, può dedurre le liberalità erogate, tra gli altri, ad enti di ricerca pubblici (art. 10, comma 1, lett. l-quater del Tuir).
Le proposte
Tuttavia, nei casi finora analizzati, con o senza il coinvolgimento del Terzo settore, nonostante le premialità fiscali, il rispetto delle regole di trasparenza assume connotazioni e garanzie piuttosto diverse. E allora come è possibile per un consumatore assicurarsi che la raccolta fondi segua un iter puntuale e corretto quando non vi è traccia del coinvolgimento di un ente del Terzo settore? Probabilmente il controllo in primis dovrà essere svolto dagli stessi consumatori ai quali, anche attraverso queste vicende di cronaca, arriva un messaggio piuttosto evidente, tale per cui non tutte le raccolte sono uguali e offrono le medesime garanzie. Per fare questo occorre assicurare al mercato alcuni strumenti affinché vi possa essere un controllo diffuso sulla scorta dell’esperienza del Terzo settore.
Occorre assicurare al mercato alcuni strumenti affinché vi possa essere un controllo diffuso sulla scorta dell’esperienza del Terzo settore. Un’azienda che promuove una raccolta fondi potrebbe per esempio dichiarare di seguire le linee guida adottate per gli Ets
Per una azienda che promuove la raccolta o per un ente non iscritto al registro del Terzo settore potrebbe essere fondamentale, ad esempio, dichiarare di seguire le linee guida adottate per gli Ets o, comunque, dichiarare quali sono le regole del gioco e quali garanzie per la trasparenza. Magari con proprie linee guida interne ispirate proprio alle regole esistenti nel Terzo settore. Ad esempio, indicando la durata della raccolta, chi sono i destinatari dei fondi tenendo una traccia visibile ed accessibile a tutti riguardo alle modalità con cui sono state investite le risorse raccolte e quali i risultati raggiunti. Senza contare che per le imprese potrebbe essere molto vantaggioso iniziare a promuovere un cambio di passo sotto il profilo reputazionale tenendo conto della necessità di tenere traccia delle attività erogative con sistemi di rendicontazione separati, come avviene negli schemi di bilancio adottati per gli Ets.
Per garantire trasparenza, affidabilità e certezza dell’attività benefica esercitata dalle imprese for profit non sembrerebbero bastare le cautele standard attualmente esistenti in tema di antiriciclaggio/anticorruzione, né codici di etici interni
In definitiva, per garantire trasparenza, affidabilità e certezza dell’attività benefica esercitata dalle imprese for profit non sembrerebbero bastare le cautele standardattualmente esistenti in tema di antiriciclaggio/anticorruzione, volte a verificare – nei “ristretti” termini di adeguata verifica e assenza di favoritismi nell’attività donativa – sia la provenienza, sia la destinazione dei fondi raccolti in tali occasioni; né tantomeno sembra essere risolutiva l’eventuale adozione di un Codice etico interno alla singola azienda, finalizzato esclusivamente a regolare le condotte dei soggetti appartenenti all’impresa sia verso l’interno che verso l’esterno. Insomma, per una azienda che voglia investire nella propria reputazione sociale potrebbe fare la differenza utilizzare linee guida ad hoc sulla trasparenza e sulla legalità con una rendicontazione separata e distinta che tenga traccia delle erogazioni liberali effettuate e delle entrate derivanti da raccolte fondi, come già accade per gli Ets. A questo si aggiunga il valore della rendicontazione sociale e dei bilanci Esg che iniziano a divenire con sempre maggiore frequenza il punto di riferimento in cui collocare regole e procedure di trasparenza legate a vario titolo anche alle liberalità per finalità sociale.
Di fronte ad un mercato sempre più attento all’impegno in chiave di sostenibilità da parte delle imprese occorre per queste ultime rendere chiari e visibili gli obiettivi raggiunti. Questo anche perché chi dona sta investendo su tanti fattori, molti dei quali costituiscono il grande patrimonio immateriale delle imprese e dei connessi brand aziendali su cui si basa la generosità degli italiani e che si chiama fiducia, la quale va tutelata in tutti i modi a prescindere da chi sia il promotore della raccolta.