L’Europa scommette forte sull’economia sociale. E l’Italia?

Il Piano di Azione per l’Economia Sociale appena approvato dalla Commissione Europea segna
una svolta. Timidezze e incertezze del passato sembrano alle spalle. All’economia sociale viene finalmente riconosciuto il potenziale di rimodellare lo sviluppo economico secondo principi di sostenibilità ambientale e
sociale
, stimolando la trasformazione di cui si avverte sempre più il bisogno. Non è poco, per un settore che fino a un decennio da era praticamente ignorato dalle politiche europee, orientate massicciamente verso la rimozione di ogni ostacolo al libero dispiegarsi delle forze di mercato.
Due le novità principali del piano, riguardo rispettivamente ai principi e agli strumenti. Sul versante delle definizioni si prende atto del grande pluralismo di forme giuridiche e organizzative che caratterizza i diversi paesi europei, ma non per questo si rinuncia a tracciare un chiaro perimetro definito in base a criteri che non lasciano spazio a fumose ibridazioni.
Appartengono alla definizione di economia sociale cinque categorie di enti: cooperative, mutue, associazioni (incluse tutte le organizzazioni non profit), fondazioni e imprese sociali.
Per quanto in ogni paese, in relazione al contesto nazionale, le forme giuridiche possano differenziarsi, queste cinque forme hanno in comune il fatto che si tratta di entità private, indipendenti dai poteri pubblici, in cui l’interesse delle persone e le finalità sociali o ambientali prevalgono sulla ricerca del profitto, vincolate a reinvestire la maggior parte dei propri utili in attività di interesse collettivo o generale, e gestite secondo criteri democratici o comunque partecipativi. Quello che emerge è un identikit preciso, in grado di rimuovere l’alibi di quanti
finora lamentavano che l’economia sociale fosse un concetto inafferrabile e quindi intrattabile da parte delle politiche pubbliche.
La Commissione aggira pragmaticamente l’ostacolo definitorio riconoscendo che l’economia sociale è già una realtà, non una promessa rivolta al futuro. Oltretutto consistente, ben radicata nel panorama europeo e attiva con successo in moltissimi ambiti, tutti cruciali per rispondere ai futuri obiettivi di sviluppo sostenibile. Una realtà che assolve ad una funzione fondamentale tanto per la coesione sociale quanto per la crescita economica e, specialmente, occupazionale. Quindi ben altro rispetto ad una visione rimasta ancorata alle charities vecchia maniera, con cui in ancora troppi ambienti non poche organizzazioni dell’economia sociale continuano ad essere confuse per pigrizia mentale. Anzi, l’inserimento dell’economia sociale come ecosistema autonomo sancisce definitivamente il riconoscimento di questo settore come una componente essenziale anche delle politiche industriali (e non solo sociali) della Commissione.
Ma – questo è il secondo punto su cui il documento apre un nuovo scenario – l’Economia Sociale potrebbe fare molto di più se solo fosse maggiormente conosciuta e sostenuta. Il suo ruolo è ancora ignoto a troppi, anche (e questo è più grave) tra i decisori pubblici che, dovendo misurarsi con problemi come l’affievolimento della coesione sociale, la gestione della transizione ecologica o la rigenerazione di posti di lavoro dignitosi, avrebbero tutto l’interesse a mettere al frutto il potenziale inespresso dell’economia sociale. Perché l’impatto economico e sociale possa essere all’altezza del suo potenziale occorre che l’economia sociale riceva un più robusto supporto dalle politiche pubbliche. Il piano elenca puntigliosamente una lunga serie di azioni su cui la Commissione si impegna per i prossimi anni (e su cui dichiara di volere investire ben più dei 2,5 miliardi di euro della precedente programmazione). È notevole il salto di qualità rispetto alla frammentazione degli interventi degli ultimi anni. All’interno del piano di azione i vari interventi sono collegati e si rinforzano l’uno con l’altro. Lo sviluppo di politiche e cornici giuridiche va di pari passo con il tema del riconoscimento pubblico presso una platea più ampia possibile. Il tema dell’accesso della finanza (che finalmente non è la lente focale che prevale su tutto) viene declinato in termini di strumenti dedicati che non si esauriscono nella creazione di opportunità solo per gli investitori, ma aprono all’utilizzo combinato di una varietà di risorse (incluse donazioni filantropiche, fondi pensione e fondi di risparmio a finalità sociale). Il tema dello sviluppo delle competenze “parla” con quello delle iniziative per aumentare l’attrattività dell’economia sociale tra i giovani.
Il piano non promuove un modello unico: riconosce che nell’economia sociale possono convivere organizzazioni che si esprimono meglio restando piccole e di livello locale e organizzazioni che hanno invece l’ambizione e la possibilità di riprodursi su scala maggiore. Lo scale up non è il mantra al quale uniformarsi obbligatoriamente: anche questa è una novità. Così come lo è il passaggio in cui la Commissione puntualizza come spesso i governi nazionali
si siano fatti scudo delle norme sugli aiuti di Stato per negare il proprio sostegno finanziario all’economia sociale, quando invece i margini discrezionali a disposizione degli Stati membri sono in realtà molto più ampi e la responsabilità se non vengono sfruttati non va imputata a Bruxelles.

È su quest’ultima nota che il documento si chiude, indicando con realismo che il successo del piano dipende dall’atteggiamento che prenderanno i singoli Stati membri. La Commissione invita i governi nazionali ad adottare strategie e misure per lo sviluppo dell’economia sociale, in collaborazione con gli attori coinvolti. E sollecita la nomina di coordinatori nazionali che si intestino la guida di queste strategie e il coordinamento sul tema delle varie autorità pubbliche. Visto dall’Italia, questo è forse il vero punto critico del piano. C’è solo da augurarsi che la scarsa attenzione riservata fino ad oggi all’economia sociale, testimoniata anche dal PNRR, venga scossa da uno spirito di emulazione verso le altre capitali europee. Anche se appellarsi al gioco di sponda con gli altri paesi non cancella la sensazione, per storia e per esperienza, l’Italia avrebbe potuto mettersi alla testa di questa svolta anziché andare a rimorchio.

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