LUIGI BOBBA
È il padre del Codice del Terzo Settore. Dal 28 febbraio 2014 Sottosegretario di Stato al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nel I Governo Renzi e confermato il 29 dicembre 2016, nel I Governo Gentiloni Silveri.
Dopo aver conseguito la laurea in Scienze Politiche presso l’Università di Torino nel 1979, ha esercitato l’attività di giornalista pubblicista, di ricercatore sociale ed è stato professore a contratto all’Università di Salerno nel 2002.
È animatore del Terzo Settore e protagonista della sua crescita. Partecipa alla creazione di Banca Etica, di cui è stato Vice Presidente dal 1998 al 2004. Ricopre il ruolo di Portavoce del Forum del Terzo Settore dal 1997 al 2000. Nelle ACLI assume prima la carica di Vice Presidente nazionale (1994-1998) e poi di Presidente (1998-2006).
Nei primi anni ’80 ha creato il Movimento Primo Lavoro ed è stato l’ideatore e il coordinatore di Job&Orienta, la manifestazione che si tiene dal 1991 ogni anno alla Fiera di Verona dedicata ai temi della scuola, dell’orientamento, della formazione e del lavoro.
È autore di numerose opere sui temi del lavoro, del welfare e della formazione, così come di numerosi articoli, saggi e pubblicazioni.
Nelle elezioni del 2008, viene eletto alla Camera nelle liste del Partito Democratico dove ricopre il ruolo di Vice Presidente della Commissione Lavoro. Candidato alla Presidenza della Provincia di Vercelli per le Elezioni amministrative del 2011, diventa consigliere provinciale. Nella XVII Legislatura è stato rieletto Deputato, ed è stato membro della V Commissione Bilancio e Tesoro nonché della Commissione bicamerale per l’Infanzia e l’Adolescenza. Attualmente è presidente della Fondazione Terzjus.
La pandemia è terminata, ma siamo ancora dentro questa vicenda che ci ha travolti nella vita quotidiana, travolti nel lavoro, travolti nelle relazioni fondamentali e altrettanto in quelle sociali e associative. Il rischio principale è rappresentato dal leggere questa situazione attraverso due immagini stereotipate.
La prima, quella nata all’inizio della crisi pandemica, per reagire un po’ alla situazione di paura e di incertezza, giacché non si sapeva a cosa si stava andava incontro, riassunta nello slogan “andrà tutto bene”, come a dire “in qualche modo cerchiamo di oltrepassare la crisi” senza andare a rivedere cosa questa metteva in discussione. E l’altra immagine “speriamo che presto tutto torni come prima”, come se il mondo di prima fosse il migliore dei mondi possibili e che la crisi pandemica fosse una semplice parentesi, una parentesi da rinchiudere per tornare a come eravamo. Né una né l’atra metafora possano darci la chiave per andare oltre questa crisi legata al Covid-19.
La prima perché è una metafora buonista ed eccessivamente ottimista, che non vede e forse non vuole vedere che dentro la crisi ci sono delle criticità e dei conflitti molto forti: pensiamo alla condizione dei soggetti più vulnerabili, agli anziani, al tema dell’occupazione (nonostante il blocco dei licenziamenti, si sono persi 444.000 posti di lavoro, in gran parte concentrati nelle fasce giovanili e tra le donne, un dato così evidente che non possiamo trascurare). Pensiamo a come la solitudine, la mancanza di relazioni abbia colpito in modo preminente le persone con una qualche disabilità, con problemi di disagio, con qualche difficoltà perché non avevano sostegni, soprattutto di carattere familiare. Pensiamo al problema legato ai bambini, costretti in molti casi ad una forma di insegnamento a distanza, la cosiddetta D.A.D., che ha selezionato, a seconda delle condizioni di partenza delle famiglie, la disponibilità degli strumenti e delle connessioni, la cultura per poter non rinunciare ad un’educazione, ad un apprendimento, come elemento fondamentale per la crescita delle persone.
In questa pandemia ci sono state delle criticità forti che hanno ingigantito le diseguaglianze, tema che già condizionava fortemente la nostra società. Tema che rischia di essere un vero e proprio tarlo delle nostre comunità e anche della stessa convivenza democratica.
L’altra immagine usata, “torniamo come prima”, è invece un modo per dire che gli elementi che ci hanno portato ad evidenziare la crescita delle diseguaglianze e dei conflitti dentro la situazione pandemica, avevano già radici nel “come eravamo”. Elementi che non possiamo nascondere, ma dobbiamo portarli in emersione, perché questa “occasione” della crisi può essere occasione di trasformazione, se riusciamo a cogliere le opportunità che ci mette difronte, pur nella drammaticità della condizione di molti.
D’altra parte, questa criticità si è rivelata soprattutto nei legami associativi. Senza le relazioni, senza la costruzione delle reti comunitarie, del fare comunità perdiamo la nostra anima, la nostra missione. Ebbene, dentro la crisi ci siamo accorti di un dato, la relazione, che era la nostra risorsa, la nostra opportunità, la nostra potenzialità, è invece diventata un pericolo, un rischio, è diventato un elemento di inciampo.
Questo ci ha obbligato non solo a ripensare al nostro sistema di relazioni, ma anche ad utilizzare al meglio le potenzialità che le tecnologie ci danno per costruire delle relazioni che non sono così calde e intense come quando ci incontriamo per prendere un caffè insieme e scambiarci idee, pareri e battute, tuttavia ci consentono comunque di mantenere vivo un legame.
In questo momento c’è bisogno di ri-immergersi in una riscoperta dei valori fondamentali sui quali è costruita la nostra convivenza e sono costruite le nostre comunità. Mi piace utilizzare la parola “ri-nascere”. Un pò come il viaggio controintuitivo che fanno i salmoni per depositare le uova, per generare, per dare vita nuova. Essi, anziché assecondare la corrente, vanno verso la foce, verso le origini, vanno verso la sorgente.
Allora, se la crisi è anche un’occasione per ritornare alla sorgente, per ritornare ai valori che riteniamo formativi per le nostre relazioni, per le nostre comunità, per il nostro fare sociale, evidentemente essa costituisce un’occasione da non buttare via.
Se non ci lasciamo imprigionare dalle due immagini “andrà tutto bene”, un ottimismo di facciata e buonista, e “torniamo presto come prima”, abbiamo però bisogno di immaginare, utilizzando un’espressione dello psicanalista Recalcati, abbiamo bisogno di “innamorarci di un futuro”.
Cosa significa innamorarci del futuro? Significa che deve esserci qualcosa che ci proietti fuori di noi, che ci proietti fuori dalla crisi, che ci rimetta in gioco, che ci faccia tirar fuori il meglio dei nostri talenti per poter dare forma al futuro.
In tutto questo, cosa centra il Terzo Settore? Un libro dell’ex governatore della banca centrale indiana, Raghuram Rajan, intitolato “The third pillar”, il terzo pilastro, ha un sottotitolo ancora più esplicativo “La comunità dimenticata dallo Stato e dal mercato”. Raghuram Rajan scrive che una società non si regge unicamente sulle relazioni dello scambio, quelle del mercato, e sul comando della legge, lo Stato, ma si regge se c’è un terzo pilastro appunto, un Terzo Settore, che costituisce il tessuto connettivo delle relazioni comunitarie e sociali tra le persone.
Allora forse questa crisi e il Piano Nazionale per il Rilancio e la Resilienza, o mi piacerebbe dire “Piano per la Rinascita del Paese”, non possono dimenticare, ignorare o sottovalutare il terzo pilastro, il Terzo Settore, la comunità entro cui si svolge una parte importante della vita delle persone. Non può farlo poiché, altrimenti, il mercato subirebbe dei contraccolpi competitivi e lo Stato non riuscirebbe a stare dietro alla miriade di bisogni emergenti, largamente insoddisfatti (quanti ne abbiamo visti durante questa situazione di crisi).
La riforma che ha portato all’approvazione del Codice del Terzo Settore aveva queste intenzionalità politico-culturali ovvero riconoscere il “terzo pilastro”. Riconoscere nel senso che già esiste, non lo crea la legge. La legge semplicemente lo riconosce e cerca di potenziarlo, di valorizzarlo, di favorirlo. Di creare delle condizioni per cui quella rete di relazioni comunitarie possa rigenerarsi e possa essere una fonte di produzione di beni comuni, di bene comune. Se il terzo settore non resta rilegato in una nicchia, un pò funzionalistica o emergenzialista – ci si ricorda del Terzo Settore quando ci sono problemi ai quali nessuno sa come dare risposta oppure ci si ricorda del Terzo Settore quando si devono ridurre i costi dello stato sociale, usciamo da questa tenaglia – si può guardare al Terzo Settore come un fattore di trasformazione della vita delle nostre società.
Nel 2020, nell’ambito dell’incontro ad Assisi per il “The Economy of Francesco”, che ha visto la partecipazione di 2000 giovani economisti, il Papa ha usato parole che sono sembrate ad alcun quasi abrasive nei confronti del Terzo Settore. Invece, leggendole nel loro insieme, si percepisce come Papa Francesco voleva attribuire proprio alle organizzazioni del terzo settore il compito di affrontare strutturalmente, e non semplicemente di lenire i guai, gli squilibri che colpiscono le persone più escluse e con quest’opera un pò filantropica magari rischiare di perpetrare le ingiustizie che si vorrebbero contrastare. È una parola un po’ ruvida, come accade ad un Papa che ci dà sempre qualche salutare “pugno nello stomaco”, perché ci obbliga a pensare e a riflettere, ma non è di certo una negazione del ruolo cruciale del terzo settore nella generazione di una società dove questi squilibri vengano combattuti e superati.
Il Piano Nazionale per il Rilancio e la Resilienza, è un’occasione assolutamente unica e straordinaria, grazie alla quale avere a disposizione, nel giro di cinque anni 209miliardi di euro, di cui due terzi in prestito e un terzo a fondo perduto. Esso può effettivamente essere un volano per questa trasformazione.
Allo stesso tempo potrebbe, invece, essere un’occasione persa, rimanendo legati alle contraddizioni e all’incapacità di innovare delle nostre società. Innanzitutto, questo piano non deve rinchiudere il terzo settore in una nicchia, come se fosse solo legato alla dimensione dello stato sociale, che certo è un elemento importante. Il terzo settore agisce in modo trasversale perché agisce nel campo della cultura, nel campo della sostenibilità, nel campo dell’inclusione lavorativa, nel campo del superamento del digital divide una trasversalità che attraversa un pò tutti i campi di azione della nostra società.
Primo approccio corretto è quello di avere uno sguardo di insieme, diverso dall’approccio utilizzato nei diversi provvedimenti emergenziali a cui abbiamo assistito in questi mesi. Occorre poi, per affrontare questo cambiamento, vedere il terzo settore come un generatore, un produttore di beni comuni: un capitolo importante della riforma è rappresentato dai rapporti della pubblica amministrazione con gli enti del terzo settore.
Il giudice Luca Antonini, che ha stilato la sentenza della Corte Costituzionale n. 231 del giugno 2020, ha individuato un punto cruciale quando ha detto che tra Pubblica Amministrazione e gli enti del terzo settore non c’è un controinteresse, ma c’è una comunione di scopo: entrambi, pure essendo un soggetto pubblico e un soggetto giuridicamente privato, perseguono un interesse generale. L’art. 118 della Costituzione prevede che lo Stato, le amministrazioni, hanno il compito di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, la sussidiarietà, la capacità di agire con libertà per qualche buona causa, nello svolgimento di attività di interesse generale, cioè di attività che non sono rivolte ad interessi privati o ai pochi, ma sono rivolte a interessi pubblici e ad una dimensione comunitaria.
Un punto chiave nella gestione delle procedure e degli affidamenti che si dovranno fare per gestire queste numerose risorse è rappresentato da una piccola rivoluzione: non è il codice degli appalti che deve regolare il rapporto tra pubblica amministrazione ed enti del terzo, è il codice del terzo settore, cioè la capacità, quindi, di co-programmare, di co-progettare, di costruire qualcosa che ha un fine comune. Poi ciascuno metterà la sua capacità, le sue competenze e le sue risorse. L’amministrazione sicuramente dovrà gestire le procedure con evidenza pubblica e secondo il criterio della trasparenza.
Tutto questo rappresenterebbe una rivoluzione culturale. Il Piano Nazionale per il Rilancio e la Resilienza potrebbe essere un’occasione straordinaria per mettere alla prova gli enti del terzo settore e mettere alla prova un’innovazione forte nella pubblica amministrazione.
Che fine faranno le associazioni? Che potenzialità possono svolgere queste reti associative e comunitarie? Le associazioni hanno davanti a loro una duplice sfida. Da un lato quella di “tornare alle origini”, sentirsi parte della comunità e soprattutto sentirsi uno strumento di servizio di inclusione dei cittadini più deboli. Esse hanno il compito di mettere in campo tutte le risorse che sono in grado di mobilitare, non aspettando qualcuno che dia l’input, ma, secondo il principio di sussidiarietà, di fronte ai bisogni organizzare le risposte.
Durante questa pandemia avevamo di fronte i bisogni, le difficoltà delle persone più deboli, eravamo spinti dalla nostra natura e dai nostri valori, dalla nostra missione, a intervenire, non disinteressandoci delle regole, ma neanche ingessandoci in una dinamica meramente legalistica. Le persone, la vita vengono sempre prima delle regole e della legge. Se le ignoriamo tradiamo la nostra missione. Inoltre, dobbiamo immaginare di costruire una capacità di progettare risposte nuove ai problemi che sono venuti emergendo o meglio, esplodendo con questa crisi. Durante i primi mesi di pandemia mi telefonò una persona che avevo avuto il piacere di conoscere quando ero Presidente delle Acli perché aveva avuto questa intuizione: quella che si potesse utilizzare uno strumento che le Acli conoscono bene, quello del Servizio Civile per mettere in campo delle risorse dei nativi digitali per venire incontro ai bisogni delle famiglie con bambini più disagiati, “tagliati fuori” da quel diritto fondamentale che è il diritto all’educazione e il diritto all’istruzione. Si potrebbe quindi immaginare una forma originale di servizio civile che faccia leva sulle potenzialità e sulle capacità dei più giovani, che sicuramente hanno un rapporto più “amichevole” con le tecnologie, che si metta al servizio delle persone più in difficoltà e per rendere esigibile un diritto, quello all’istruzione per tutti.
Seguendo questa strada, sicuramente non facile, insieme ai tanti provvedimenti, necessari e giusti che sono stati presi, occorrerebbe mettere in capo qualcosa di più strategico, che guardi un pò più lontano, valorizzando quelle forme di imprenditorialità sociale che sono quelle che hanno dimostrato di reggere meglio il momento della crisi, di continuare a includere le persone più in difficoltà, di avere un fondo strategico perché queste realtà sappiano anche innovare, cioè tenersi al passo con i cambiamenti che il mercato e le attività produttive richiedono. Quindi, anziché tanti piccoli interventi servirebbe qualcosa che abbia questa visione strategica.
Negli anni scorsi, in Lombardia, è stato sperimentato il così detto “fondo Jeremy”: se uno investiva 10 euro in un’impresa sociale, l’attore pubblico ci metteva altrettanto in termini di capitale sociale. Se si scommette su un’idea che ha un valore economico produttivo ma che genera anche valore sociale, io, soggetto pubblico, scommetto con te con un intervento concreto.
Negli ultimi anni il Governo italiano non ha risposto in modo adeguato alle sollecitazioni della Commissione Europea. Il Commissario Nicolas Smith ha avuto una delega a costruire un action plan per l’economia sociale di prossimità, cioè ad avere un quadro strategico di riferimento su come gli attori del terzo settore contribuiscono al rilancio, attraverso quella componente di economia sociale di prossimità che si sta rivelando un elemento portante delle nostre realtà. Il Governo Italiano non ha neanche risposto alla lettera inviata alle ex-Ministre Catalfo e Bonetti e oggi il tema è importante.
Questa pandemia porta con sé molti motivi di preoccupazione e di ansia, ma ci sono anche motivi di speranza e di opportunità. Dobbiamo saper governare le preoccupazioni, non lasciandoci travolgere e soprattutto cogliere le opportunità per il nostro futuro e per il nostro futuro insieme.
Durante questa pandemia il Papa ha scritto un’enciclica “Fratelli tutti” che ha un interessante sottotitolo: “Lettera enciclica sulla fraternità e sull’amicizia sociale”. In genere, quando si parla di amicizia si pensa ad una questione personale, ma la fraternità ha come elemento basilare proprio l’amicizia sociale cioè il riconoscere che nell’altro c’è qualcosa di importante.
Ne “Il Visconte dimezzato”, opera del grande letterato Italo Calvino, il visconte che viveva sugli alberi riconosce che nel costruire e fare insieme con le persone si tira fuori non solo il meglio di se stessi, ma anche il meglio dagli altri e che, invece, se si sta isolati, gli uni contro gli altri, si è sempre pronti a “mettere mano alla spada”, a difendersi.
L’amicizia sociale deve essere oggi l’ispirazione che ci deve guidare, avendo due attenzioni, quella di “far lavorar le mani”, far sì che la linea che parte dal cuore e arriva alle mani, la capacità trasformativa e di affronto dei bisogni non si spenga della sua energia e non pensare che tocchi a qualcun altro affrontare i problemi.
E poi, quella di avere un’attenzione per l’innovazione, cioè avere attenzione per ciò che ancora non c’è, ma che intuiamo che potrebbe diventare. Ci sono tanti punti di snodo dove l’innovazione richiede un’iniziativa, non ci viene addosso. Gli strumenti per utilizzarla ci sono ma se non c’è anche una capacità di intraprendere da parte dei soggetti sociali, uscendo un pò anche dai loro schemi antichi e passati, c’è il rischio che l’immolazione corra da altre parti, perché il mondo comunque è in continuo cambiamento. Se viene meno questa anima sociale e solidale delle nostre comunità c’è un impoverimento che riguarda tutti, ma in particolare i soggetti più vulnerabili.
Se ci ispiriamo a quell’enciclica che ha anche un forte valore politico e che ci mette sotto gli occhi, già dai primi capitoli, gli elementi che sono difficili da accettare, ma sono la realtà del mondo. Poi, ci offre anche l’indicazione di una prospettiva e anche degli strumenti possibili. Abbeveriamoci da questa enciclica del Papa perché aiuti anche noi nel fare meglio il nostro antico ma sempre nuovo mestiere.