Il volontariato di competenza. Ponte tra imprese e Terzo Settore

Il VdC è un fenomeno di modeste dimensioni, ma presenta potenzialità di crescita alquanto significative

[di Luigi Bobba, pubblicato ne «Il Riformista» di giovedì 1 febbraio pag. 8]

Il 5% delle imprese italiane con più di 50 dipendenti – secondo un’indagine effettuata da Unioncamere mediante il sistema di rilevazione dati di Excelsior – realizza forme diverse di volontariato d’impresa. Di queste il 39% mette in opera progetti o attività di volontariato di competenza. Ma cosa sottende questa espressione? A chiarirne il significato ci ha pensato la Fondazione Terzjus mediante un report di ricerca – realizzato su incarico del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali – i cui risultati sono stati raccolti in un recente volume “Riconoscere il volontariato di competenza” pubblicato da Editoriale Scientifica di Napoli e liberamente scaricabile dal sito www.terzjus.it. I ricercatori, coordinati da Cristiano Caltabiano, chiariscono cosa si intenda per volontariato di competenza (VdC), ovvero quell’insieme di pratiche più o meno strutturate di volontariato in cui manager, impiegati od esecutivi di un’impresa mettono a disposizione – durante l’orario di lavoro (o anche al di fuori) – la propria esperienza e competenza per una Onlus o per un ente del Terzo Settore (ETS). Si realizza così un “prestito” non oneroso, per cui un’azienda o un professionista dedicano un determinato periodo di tempo, non occasionale e non di breve durata, ad accompagnare un ETS nella progettazione e gestione di un’attività o servizio che va a beneficio di soggetti o territori maggiormente svantaggiati. Dunque, qualcosa di significativamente diverso dai “community day” e che presuppone un impegno da parte dell’impresa maggiormente strutturato e duraturo. Il VdC si presenta ancora come un fenomeno di nicchia, ma il 26% delle aziende dichiara di essere interessata a dare in futuro questa opportunità ai propri dipendenti. Le imprese già oggi più attive sono quelle che operano nel settore dei servizi avanzati, mentre la distribuzione territoriale, appare abbastanza uniforme. Ma che tipo di attività di VdC mettono in campo queste aziende? In via principale sono attività di sensibilizzazione culturale/sociale/ambientale mediante incontri pubblici, sportelli informativi o call center; poi attività educative a favore di studenti o minori in difficoltà; o, ancora, partecipazione a progetti di Ong nei paesi del Sud del mondo; oppure, infine, attività di consulenza gratuita a dirigenti, quadri e operatori di ETS. Queste attività gratuite di consulenza hanno visto uno sviluppo significativo grazie ad associazioni professionali come Manageritalia. Guardando, poi, il fenomeno dal punto di vista degli ETS, i ricercatori hanno fatto sia uno screening generale su circa 500 ETS, sia interviste approfondite o focus group dai quali emerge l’altra faccia della medaglia. Gli ETS sono particolarmente interessati alla realizzazione di esperienze di volontariato di competenza e meno alla partecipazione a “community day”. Vorrebbero che le imprese fossero disponibili a coprogettare gli interventi perché solo in questo modo le competenze dei lavoratori dell’impresa possono essere messe pienamente a frutto nelle iniziative di utilità sociale. Insomma, gli ETS vogliono che le aziende investano in modo significativo in politiche di sostenibilità ambientale e sociale. Infatti le esperienze più riuscite sono state quelle di Chiesi Farmaceutici che ha visto una collaborazione stretta e duratura con il Centro di servizio del volontariato del territorio di Parma, dove è insediata l’azienda; oppure quella di Roche, che attraverso i propri specialisti delle risorse umane ha messo a disposizione di CasAmica – un’associazione di volontariato – competenze per formare i propri volontari. Quali conclusioni si possono trarre da questo singolare studio? Innanzitutto il VdC è un fenomeno di modeste dimensioni, ma presenta potenzialità di crescita alquanto significative. Ad alcune condizioni, che possono essere così riassunte. In primo luogo, un allineamento delle esigenze espresse dagli ETS con le aziende. Qui possono giocare un ruolo decisivo proprio i CSV e le Reti associative come intermediari tra le imprese e gli ETS. D’altra parte – come ha evidenziato Alessandro Lombardi, direttore generale del MLPS – nella introduzione al volume – “il VdC, in quanto capace di sviluppare interazioni reciproche tra profit e Terzo Settore, coglie uno degli aspetti più significativi della riforma del Terzo Settore, la relazionalità, intesa come capacità del Terzo Settore di creare sinergie sia al proprio interno che con attori esterni, in funzione del miglior soddisfacimento dei bisogni delle comunità in cui opera”. In secondo luogo, serve far conoscere le nuove norme contenute nel Codice del Terzo Settore per cui, alle aziende che praticano il VdC, è riconosciuta una deducibilità fiscale dei dipendenti “prestati” ad una Onlus o ad un ETS fino al 5 per 1000 del loro costo; norma peraltro sconosciuta a sei aziende su dieci, come si evince dalla rilevazione di Unioncamere. In ultimo vi è un ulteriore spazio per incoraggiare questo tipo di volontariato. Si fa qui riferimento al carattere sempre più vincolante delle Linee guida e dei Regolamenti varati dalla UE sui bilanci di sostenibilità che impongono alle imprese di adottare alcuni indicatori chiave di prestazione per dimostrare di aver effettivamente privilegiato i lavoratori, l’ambiente e la comunità. Questi indicatori potrebbero entrare nel novero di quelli che determinano l’attribuzione ai dipendenti dei premi aziendali. Non a caso – ha ricordato Gabriele Sepio, segretario generale di Terzjus- tale orientamento è entrato anche tra i principi della recente legge delega di riforma fiscale. Così la leva fiscale potrebbe favorire lo sviluppo di azioni di VdC come fattore che genera sostenibilità, aumentando la reputazione sociale dell’azienda e quindi, per molti versi, anche la sua capacità di reggere la competizione nel mercato in cui opera.

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